
La maglietta indossata da chi lavorava su Atlantis – L’impero perduto recitava «Meno canzoni, più esplosioni». Era una presa di posizione, una dichiarazione d’intenti, un manifesto programmatico. Il film del 2001 che racconta della scoperta di Atlantide da parte di un gruppo di esploratori primonovecenteschi voleva distinguersi da tutti i cartoni Disney realizzati nel decennio precedente, per stile, racconto e tono. Riuscì a farlo, ma nel senso sbagliato: fu il primo, vero flop dell’azienda, nonché l’inizio del declino per l’animazione tradizionale.
Alle origini di Atlantis
Burbank, 1996. Seduti a un ristorante messicano, i registi Kirk Wise e Gary Trousdale, lo sceneggiatore Tab Murphy e il produttore Don Hahn stavano discutendo dei loro prossimi progetti. La squadra era reduce dalla lavorazione de Il gobbo di Notre Dame, un’esperienza positiva per tutto il gruppo, che ora voleva rimanere unito per il prossimo progetto. Hahn, conoscitore delle dinamiche interne allo studio, disse agli altri tre che, se volevano rimanere uniti come gruppo, avrebbero dovuto proporre loro un’idea ai dirigenti, invece che vedersi affidare dei progetti già in una qualche fase di sviluppo, come era successo fino ad allora.
Wise e Trousdale misero sul tavolo le loro passioni e i loro desideri: non volevano più fare musical («ne avevamo già fatti due e non è che eravamo proprio dei fan di quel genere» disse Trousdale), erano interessati all’azione e ai film di mostri. Come conferma Hahn a Polygon, «erano ansiosi – e lo ero anch’io – di fare qualcosa di diverso». Uscirono da quel ristorante con l’idea di realizzare un film d’avventura che recuperasse il gusto delle produzione Disney anni Cinquanta come 20.000 leghe sotto i mari e le pellicole di Ray Harryhausen.
Ambientato nei primi anni del Novecento, Atlantis è la storia del giovane cartografo Milo Thatch, cresciuto con il sogno di scoprire il regno perduto di Atlantide e finalmente in grado di realizzarlo. Milo è infatti coinvolto in una missione esplorativa, finanziata da un misterioso benefattore, che lo porterà nelle profondità della Terra, alla ricerca della civiltà sommersa.

La produzione ottenne il via libera grazie al seguente pitch: Disneyland era un parco divertimenti con molte zone diverse al proprio interno, c’era Fantasyland, con le principesse e la magia e la fabia, e c’era Adventureland con le avventure a scapicollo. Perché non potevano esserci zone diverse anche nel ramo cinematografico? Messa in questi termini, la proposta convinse i dirigenti, che in quel periodo avevano comunque altri pensieri per la testa (il settore teatrale, la lotta tra l’amministratore delegato Michael Eisner e il nipote di Disney, Roy, membro del consiglio societario) e avevano lasciato andare avanti lo studio d’animazione con la spia del pilota automatico accesa.
I punti di riferimento erano chiari: i film d’avventura Disney degli anni Cinquanta e Sessanta e i libri di Jules Verne. A un certo punto pensarono di adattare Viaggio al centro della Terra, ma dopo averlo letto i registri lasciarono perdere perché «è una bella idea che non va da nessuna parte, nel libro ci mettono una vita prima di arrivare al centro della Terra e quando ci arrivano non c’è particolare tensione».
Mike Mignola e l’estetica di Atlantis
Consapevoli che l’animazione al computer stava facendo enormi progressi e minacciava di spodestare le matite degli animatori, Disney cercò di innovare ogni aspetto dei suoi film. Questo spiega anche lo strano ibrido digitale-analogico de Il pianeta del tesoro, uscito nel 2002 e considerato un fallimento ancora più roboante di Atlantis.
Assecondando il respiro avventuroso e movimentato della storia, gli autori scelsero di girare la pellicola nel formato widescreen CinemaScope, più grande e con una forma del fotogramma più schiacciata. Inizialmente i dirigenti erano preoccupati per le dimensioni della carta e delle scrivanie che sarebbero state necessarie. In quel formato, Disney aveva realizzato i flop La bella addormentata e, più avanti, Taron e la pentola magica. Il compromesso fu trovato facendo disegnare su un’area più stretta del foglio, per simulare il rettangolo del fotogramma.

In quel periodo, Disney stava allentando la presa sul proprio house style. Non tutti i film dovevano essere disegnati con un segno che li rendesse inequivocabilmente prodotti della stessa matrice. Un po’ di sperimentazione era concessa. In alcuni casi, un po’ tanta. E quindi John Musker e Ron Clemens poterono chiamare Gerald Scarfe (l’uomo dietro The Wall dei Pink Floyd) per impostare lo stile di Hercules – chissà a chi era venuta in mente un’idea del genere.
Wise e Trousdale chiesero invece al fumettista Mike Mignola, creatore di Hellboy, di impostare lo stile del film, visto che i suoi fumetti erano stati il riferimento principale durante le prime fasi di lavorazione. «Fu il messaggio più strano che mi sia mai stato lasciato in segreteria» ha raccontato Mignola. «Il fumetto è un mondo a parte, non avrei mai pensato che qualcuno in Disney sapesse chi fossi.»
Accreditato ufficialmente come production designer (ruolo che solitamente ricopre il primo disegnatore coinvolto nel progetto che realizza e supervisiona la realizzazione dei design e si interfeccia con il regista per stabilire l’aspetto del film), Mignola produsse svariati design – non tutti utilizzati – e propose alcune idee ma, ammise, «non mi sono mai sentito a mio agio con questo ruolo, perché io in realtà disegnavo schizzi in bianco e nero e suggerivo idee, ma poi erano altre persone a fare il vero lavoro, definendo i dettagli e disegnando enormi dipinti».


Il gruppo di lavoro aveva appeso alle pareti ingrandimenti dei disegni di Mignola su cui erano stati tracciati vari grafici che spiegavano come funzionavano le forme dei suoi personaggi. Mignola rimase sorpreso dalla quantità di analisi che gli animatori stavano riservando ai suoi disegni: «Io non so nemmeno cosa faccio quando disegno, figurarsi spiegare come lo faccio, e lì c’erano persone che stavano insegnando come si disegnava con lo “stile Mignola”».
Tuttavia, l’influenza del suo stile era forte e si impresse su tutto il film. «Capirono come ragionavo meglio di me. Ci sono molte cose del film che credo di aver inventato io, ma sono opera di qualcun’altro.» Altri tre scenografi, tra cui Ricardo Delgado, anch’egli fumettista, dovevano insegnare agli animatori come disegnare nello stile di Mignola.
«Ricordo che stavo vedendo una versione preliminare del film e c’erano questi personaggi con delle mani enormi e squadrate» commentò Mignola. «Dissi al tizio a fianco a me “belle mani” e quello mi fa “sì, sono le tue. Abbiamo fatto una riunione solo per capire come disegnare le mani come le fai tu”.»
Invece che seguire le rappresentazioni canoniche di Atlantide, tutte ispirate alla tradizione greco-romana, i realizzatori optarono per uno stile che inglobasse le estetiche del sud America e dell’Asia, con un tocco di dieselpunk. Per creare una cultura quanto più realistica possibile, chiamarono Marc Okrand, linguista che aveva formalizzato il Klingon di Star Trek, per inventare la lingua degli atlantidei.


Una parata di mostri
La prima versione del film era molto lunga, con i primi due atti che duravano più di due ore, spostando l’attenzione della storia sul viaggio per arrivare ad Atlantis, più che sulla città in sè. «C’era troppa roba nel film, troppi mostri che il gruppo incontrava lungo il cammino» ricorda a Collider Wise. «E la macchina produttiva era costruita per realizzare film da 90 minuti, quindi l’idea di superare quella soglia spaventava molte persone, perché si riduceva tutto al numero di persone, ore lavoro e soldi che sarebbero stati spesi.»
Il film era, nelle parole di Mignola, «una parata di mostri» e personaggi secondari, molti dei quali furono eliminati durante la revisione. Un improvviso taglio al budget costrinse gli autori a rivedere le loro ambizioni di grandezza: «Avevano in mente un certo livello di complessità nell’animazione» disse John Sanford, a capo della storia. «E poi arrivarono i piani alti a dire loro che si sarebbero dovuti adattare a fare le stesse cose con molti meno soldi.»
Dovettero cassare ulteriori sequenze d’azione, così come l’idea iniziale di animare le ombre dei personaggi. Poi, a causa del massacro della Columbine High School, lo studio frenò l’uso smodato delle armi da fuoco nel cartone. I bordi appuntiti del progetto furono arrotondati e levigati a ogni piccolo cambiamento, risultando un film molto più pavido di quello che avevano in mente gli autori. Anche se compare tra gli sceneggiatori, Joss Whedon (Buffy l’ammazzavampiri, The Avengers) non ha avuto nulla a che fare con il film. Whedon aveva scritto un soggetto per un musical ambientato ad Atlantis e lo studio incluse il suo nome per evitare grane legali.
C’era grande fermento attorno ad Atlantis. Disneyland si stava preparando a ristrutturare l’area del parco ispirata al film 20.000 leghe sotto i mari per riconvertirla in un’attrazione targata Atlantis e il sottomarino della giostra Submarine Voyage sarebbe diventato l’Ulysses del cartone. Un’altra attrazione sarebbe stato costruito nell’area Magic Kingdom. Per la televisione, Disney aveva pronta una serie a cartoni sulla falsariga di X-Files in cui Milo e i sopravvissuti della Ulysses investigano sui misteri della cultura atlantidea e di altre civiltà. Si parlò perfino di un sequel cinematografico.

Il primo flop Disney
Poi il film uscì nelle sale. Raccolse appena 84 milioni di dollari in patria (e altri 100 all’estero – anche in Italia non andò granché bene), di fronte a un budget di più di 100 milioni. Tra le poche recensioni positive, quelle di Wesley Morris e Roger Ebert, che apprezzarono l’umorismo e il gusto per l’avventura della pellicola, ma per il resto era tutto un fiorire di critiche negative. Variety lo definì «un tentativo blandamente concepito ed eseguito di rifare Indiana Jones».
La Disney fermò i lavori sulle attrazioni. Submarine Voyage cambiò comunque aspetto, ma stavolta era ispirato al film Pixar Alla ricerca di Nemo, quello sì un successo di pubblico e critica flagrante. La serie tv fu cancellata, e la produzione ebbe l’ordine di cucire insieme il materiale già completato in un film direct-to-video, Atlantis – Il ritorno di Milo.
Non fu un problema di marketing perché, secondo Wise, «lo promossero molto bene e con ingenti mezzi», aprendo un sito internet (uno dei primi dedicati a un film Disney) con giochi e attività ludiche, «ma alla fine il film uscì e la gente non andò a vederlo».
C’era ancora l’onda lunga di Shrek, uscito il mese prima, che proponeva una storia meno zuccherosa e realizzata con l’animazione al computer – in quegli anni una novità che da sola valeva il prezzo del biglietto, o almeno questo riuscirono a far credere i pubblicitari e la stampa. E poi, secondo gli analisti di Entertainment Weekly, il passaparola poco convinto fece il resto: una storia vecchio stile, riferimenti e trame con cui i più piccoli non riuscivano a interagire, anche – forse – per la scelta di inserire sottotitoli, che non potevano leggere, nelle scene in cui si parla la lingua di Atlantis.

Rivisto oggi, il film è derivativo, esteticamente sghembo e lascia le cose migliori fuori dalla storia (la balena di lava immaginata da Mignola, per esempio, che troverà spazio nel sequel ma realizzata malissimo). Sulla pagina era tutto suggestivo, sullo schermo quelle suggestioni non si sono coagulate in un prodotto coeso.
È proprio nel contributo di Mignola che il film crolla. Lo stile del fumettista è pensato per la tavola di un fumetto ed è saldamente, mortalmente, ancorato alla pagina, perché è bidimensionale, pieno di ellissi grafiche, di minimalismi che servono a rendere l’idea dei corpi, dei volumi, delle masse, eppure funzionano anche come grafica decorativa. Penso ai piccoli segni sui corpi che sembrano scalfitture sulla roccia e danno ai corpi una consistenza granita. Ma smette di funzionare quando bisogna rendere questo segno maneggiabile da animatori che devono disegnare dei corpi nello spazio cinematografico e, seppur non propriamente tridimensionali, simulare masse in tre dimensioni.
L’essenzialità di Mignola, riportata entro canoni disneyani, lisci, puliti, dove quella rocciosità scompare dalle pelli lisce dei personaggi, fu scambiata per incuria, portando il critico (e futuro autore dei discorsi di Obama) Desson Thomson a scrivere sul Washington Post che i personaggi «sembrano privi di dettagli, come se gli autori stessero cercando delle scorciatoie per animare in economia e velocità. Per essere la Disney, ci si immagina che abbiano un po’ di amor proprio nel disegnare meglio di così». Il giudizio di Thomson è ingeneroso ma sintomatico di una percezione comune a molti spettatori. Atlantis è una sorta di figlio mignolesco imbastardito da estremismi manga e linee rette che cozzano contro le rotondità disneyane.
Da lì a poco la coppia artistica di Wise e Trousdale si sciolse, intraprendendo percorsi individuali e segnando la fine di un importante capitolo nella storia dell’animazione statunitense. «Sono grato che ci abbiano dato così tanto spazio per sperimentare e andare contro le aspettative del pubblico, in termini di resa visiva», ha detto Wise a Collider, «ma allo stesso tempo credo che non riuscimmo a reinventare la ruota».
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