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Amare e odiare Shrek

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«Shrek è tremendo. Non è divertente. È brutto. Ha influenzato molte commedie d’animazione insipide e visivamente orrende che hanno copiato la formula dell’autoreferenzialità sfacciata e del sentimentalismo stucchevole.» Non hanno speso parole celebrative al Guardian per parlare di Shrek, il film animato con protagonista l’orco scorbutico che segnò un’epoca del cinema d’animazione e che ha appena compiuto vent’anni. Continua il quotidiano: «Peggio ancora, ha incoraggiato un atteggiamento distruttivo e saccente nei confronti dei classici, legittimando l’idea che che ogni approccio verso di essi fosse una perdita di tempo».

Lo spaccato del Guardian è desolante, guarda al film con gli occhi di oggi e, in parte, non riesce a riportare la pellicola al suo contesto originario. Di segno opposto l’opinione del New York Times, che lo definisce «una fiaba insolita i cui personaggi e le battute continuano a permeare la cultura pop, raggiungendo un’altra generazione di fan».

Ancora oggi, e nonostante nel 2020 sia entrato nel catalogo di preservazione della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti d’America in quanto «film culturalmente, storicamente ed esteticamente significativo», Shrek riesce a provocare sentimenti contrastanti nella critica cinematografica. Di certo la storia dell’orco che si ritrova a dover salvare una principessa per poter tornare a vivere la sua vita da solitario fu un film che sembrò spartiacque ai tempi molto di più di quanto lo sia oggi. L’eco che arriva è quello di un fenomeno pop, un successo popolare, che ha esaurito la propria carica e che si è deteriorato con più facilità rispetto ad altre produzioni coeve.

Nata a metà degli anni Novanta per volere di Steven Spielberg, David Geffen e Jeffrey Katzenberg, la casa di produzione DreamWorks puntò fin dall’inizio a diventare la rivale di quello che allora era il padrone assoluto del cinema d’animazione, i Walt Disney Studios. Da quel marchio Katzenberg si era licenziato dopo essere entrato in conflitto con l’amministratore delegato di Walt Disney Company, Michael Eisner, colui che aveva preso in mani i resti malandati della compagnia alla fine degli anni Ottanta e, coadiuvato proprio da lui, l’aveva condotta a successi stratosferici.

Katzenberg si proponeva come l’antidoto alla formula replicata fino alla noia dal cinema d’animazione nei precedenti dieci anni: il cartone favolistico, ambientato in un mondo passato, lontano dalla civiltà moderna, con al centro una storia d’amore, raccontata a colpi di canzoni da musical. Le regole per i nuovi cartoni DreamWorks erano poche ma chiare: niente soggetti troppo zuccherosi, sì alle storie adulte che Disney non si permetteva di raccontare, che fossero tratte dalla Bibbia (Il principe d’Egitto), avessero come protagonisti personaggi nevrotici (Antz) o facessero dell’umorismo pepato.

C’è un modello abbastanza palese che si nota quando si analizza il film: Aladdin. L’adattamento del racconto tratto dal libro de Le mille e una notte rappresentò infatti un cambio netto dell’umorismo Disney. Complice la presenza di Robin Williams nei panni del Genio, il film mischiava satira, riferimenti contemporanei, anacronismi e fulminanti parodie che riverberavano per tutta l’onda comica del cartone, impartendo un’importante lezione: le favole non andavano per forza trattate con i guanti.

Shrek prese tutti gli elementi che avevano fatto la fortuna di Aladdin, ne triplicò il dosaggio e diede loro una bella frullata. Gli stessi sceneggiatori (Ted Elliott e Terry Rossio), umorismo più adulto, spirito ancora più irriverente, cast di attori ancora più famoso e lasciato ancora più libero di improvvisare. L’intuizione di assoldare Buddy Hackett per doppiare Scuttle e speziare le sue scene ne La sirenetta si era confermata felice nel caso di Aladdin, ma a partire da Shrek sarebbe diventata prassi sistematica: «Se le battute fanno schifo, chiama un comico, ci penserà lui a migliorarle». Con soltanto l’idea del protagonista ma con una storia da costruirgli attorno, Katzenberg scelse come voce di Shrek Chris Farley, comico del Saturday Night Live in grande ascesa, il quale però morì durante la lavorazione e fu sostituito da Mike Myers.

In realtà il film non era stato immaginato come una satira. La prima versione di Shrek era molto convenzionale, con l’unica differenza che aveva come protagonista un orco che voleva diventare un cavaliere. Era un progetto non granché brillante, in cui nessuno credeva e che Katzenberg era sul punto di cestinare definitivamente. Chi non era bravo abbastanza da lavorare su Il principe d’Egitto veniva trasferito al gruppo di Shrek. Tra i soggettisti questo scatto di carriera era chiamato “il gulag”.

Come contrappasso ironico, il progetto trovò la propria chiave di volta grazie a un disneyano. Randy Cartwright – animatore del Tappeto di Aladdin – lavorò agli storyboard della prima scena del film, immaginando un prezioso libro di storie che si apre, come nei grandi classici Disney, e introduce la vicenda. Solo che in questa versione, Shrek interrompe la narrazione e strappa una pagina per usarla come carta igienica. Da lì, il gruppo di lavoro iniziò a pensare a una storia irriverente nei confronti della tradizione.

L’elemento più curioso di Shrek è quanto sembri disinteressato all’universo fiabesco che crea. Vediamo alcuni personaggi all’inizio, esiliati da Lord Farquaad nella palude di Shrek, ma una volta che l’orco e Ciuchino attraversano il regno, gli autori evitano qualsiasi riferimenti alle fiabe, preferendo inserire citazioni a Matrix, Riverdance e altri film o programmi tv. Le gag hanno una pura valenza umoristica, non c’è un tentativo di decostruzione o qualche discorso che sarebbe potuto essere estremamente profondo, colto e adulto.

Oggi che i film in cui si mischiano proprietà intellettuali diverse (Ralph Spaccatutto, Ready Player One, The Lego Movie, Space Jam: Legacy) sono comuni probabilmente gli autori giocherebbero molto più con questo universo condiviso delle favole. All’epoca non lo si fece, o meglio, lo si fece in maniera molto superficiale, forse seguendo la direttiva della fonte originale, il libro Shrek! di William Steig, una storia senza una vera trama e che si muove per situazioni comiche – non a caso, Steig fu prolifico vignettista e illustratore del New Yorker – arrivando allo stesso identico finale del film.

Shrek! di Steig faceva leva sulla stranezza del personaggio e delle sue azioni, in quella che si rivela alla fine una semplice inversione della quotidianità, una giocosa eccezione: gli animali spaventosi sono innocui, essere brutti è una qualità positiva, e il cattivo è l’eroe della storia. Indossando un vestito nuovo, Shrek presentava una versione moderna dell’approccio cinico e disincantato che tanti altri cartoni e fumetti del passato avevano utilizzato nei confronti delle fiabe e favole a cartoni, dai Looney Tunes a Mad Magazine. Al tempo, questo atteggiamento, percepito come Marcel Duchamp che disegna i baffi alla Gioconda, conquistò critica e spettatori. Si può essere iconoclasti in tanti modi, Shrek scelse quello più spicciolo.

Funzionò, e funziona ancora in alcune parti del film che resistono all’erosione del tempo grazie a una buona scrittura. Più che altro, Shrek è invecchiato male anche per colpa dell’animazione. Dirlo è un po’ come sparare sulla croce rossa, perché è difficile trovare esempi di ottima animazione in quei primi lungometraggi realizzati al computer. I personaggi avevano meno punti di articolazione, soprattutto nel viso, a scapito delle silhouette e dell’espressività facciale. Però i primi film Pixar seppero sfruttare questa limitazione raccontando storie con giocattoli di plastica o insetti che, riportati a una scala di grandezza umana, ci apparivano alieni, svicolando dal confronto con creature conosciute, e di cui sappiamo leggere meglio le intenzioni sul volto. Un sorriso umano l’abbiamo presente, come sorride una bambola di pezza no, quindi perdoniamo di più eventuali stranezze espressive.

Detto questo, fatico a indicare prove d’attore magistrali dentro Toy Story mentre potrei fermarmi in un punto qualsiasi de Il libro della giungla e incappare in un momento di altissima recitazione. Lo so, è un paragone ingeneroso, perché Il libro della giungla era il prodotto di autori all’apice del loro talento, mentre Toy Story rappresentò per molte delle persone coinvolte il primo confronto con un tecnica d’animazione nuova, per giunta vessata da limiti evidenti. Ciononostante, Toy Story, che in certe scene è dolorosamente brutto, compensa in tutti gli altri reparti, dalla storia alla regia, solidissima.

Scontrandosi con i limiti dell’animazione digitale dei tempi, Shrek mise in campo personaggi umani e un impianto visivo che puntava al fotorealismo. Per gli standard del 2001, immagino facessero anche un gran figura. Ma uno spettatore del 2021 potrebbe guardare il film e arricciare il naso di fronte alle superfici plasticose e al design iperrealista della simulazione digitale che finisce nell’uncanny valley – termine coniato per indicare quel senso di repulsione verso certi tentativi tecnologici di replicare le fattezze umane.

A Shrek manca una delle componenti importanti dell’animazione: la caricatura. Può essere che gli autori abbiano pensato che accostare un personaggio cartoonesco a uno come Fiona – umana più dell’umano – sarebbe stato un salto stilistico difficile da tollerare per l’occhio dello spettatore. Il risultato fu che il Lupo di Cappuccetto Rosso o Lord Farquaad erano troppo realistici per apparire gradevoli alla vista. Nel 2001, un cartone del genere sarà sicuramente stato vissuto come una novità, una boccata d’aria fresca. E questi aspetti di rottura fecero soprassedere su difetti che ora sono palesi: Shrek è un film dall’umorismo grezzo, batte il ferro su mode già all’epoca vetuste e presenta una morale conformista mascherata da controcultura.

Il successo dell’operazione spaventò la Disney, che entrò in un periodo di grande confusione, schiarita dall’arrivo di John Lasseter come direttore creativo. Come spiegò Gary Trousdale, co-regista de La bella e la bestia, Il gobbo di Notre Dame e Atlantis, «quando uscì Shrek, i dirigenti Disney dissero “ecco cosa faremo: non vogliamo continuare a fare ciò che sappiamo fare meglio degli altri, non vogliamo innovare. Vogliamo fare cose come Shrek“. E questo li rese dei soggetti che seguivano una moda, invece che dettarla».

Shrek 2 (del 2004) fu uno Shrek², perché elevò al quadrato tutti gli elementi del primo film (le citazioni, anche quelle estremamente deperibili), in parte migliorandoli, mentre degli altri due film c’è ben poco da dire. Del franchise rimane molto – i tanti emuli – eppure pochissimo – perché i tanti emuli sono quasi tutti molto brutti. Nel concreto, un filone prolifico di meme e dei sequel/reboot in fase di sviluppo, nella speranza di catturare ancora la scintilla che fece la fortuna della saga.

Forse è per questo che, quando si tratta di parlare di Shrek, testate come Guardian e New York Times si trovano su barricate opposte. Shrek era un film anticlassico, non era stato pensato in un’ottica fuori dal tempo ma era con i piedi ben piantati nel proprio presente, ed è finito per diventare ultraclassico, un modello produttivo declinato in maniera malsana. Sclerotizzando il disincanto e la commedia scatologica di Shrek, gli autori venuti dopo non ne hanno onorato l’eredità, pensando che l’unione dei suoi elementi spuri sarebbe bastata per creare buoni film.

Leggi anche: “Atlantis”: il film su cui Disney puntò tutto (e perse)

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