
La sorpresa di questa estate è che il libro più venduto nella sezione “Illustrazione e grafica” di Amazon Italia si chiama Botteghe di Tokyo ed è una edizione bilingue, italiana e giapponese, con 40 tavole ad acquerello dedicate ad altrettante vecchie botteghe della capitale giapponese, realizzate dal disegnatore polacco Mateusz Urbanowicz.
La storia è un po’ complessa, ma il libro pubblicato da L’Ippocampo è molto bello, con questa grande illustrazione in copertina di un negozio della vecchia Tokyo, quella vecchia Tokyo che è un po’ immaginario condiviso e un po’ mitologia.
Questi acquerelli realizzati da Urbanowicz sono frutto di un pensiero quasi accidentale, casuale (un tempo si parlava di “serendipity”, oggi non va più di moda). Nel 2016 l’autore che vive da tempo nella vecchia Edo (più o meno letteralmente) aveva realizzato una serie di dieci tavole che avevano riscosso immediatamente successo tra amici e conoscenti. Poi si sa, nel mondo dei social ci vuole poco per trasformare un piccolo successo in una ghiotta occasione editoriale, e Urbanowicz era tornato a scattare e disegnare, lontano qualche decina di migliaia di chilometri dalla sua natia Slesia, in Polonia, per realizzare altre trenta botteghe.
Urbanowicz si è diplomato in cinema di animazione a Kobe e poi si è trasferito a Tokyo per lavorare con Makoto Shinkai (il regista e autore di Your Name.) e con lo studio Comix Wave Film. Lavora ai suoi fumetti, a progetti di animazione, a video. È un freelance e uno straniero, che in Giappone è una parola grave, dura, se non addolcita dalla forma più rispettosa e delicata: non gaijin dunque ma gaikokujin. E come tale Urbanowicz è amato dai giapponesi e da decine di migliaia di altre persone in tutto il mondo, che lo seguono e guardano i suoi acquerelli. Già, i suoi acquerelli.

La tecnica di Urbanowicz è semplice e ovviamente difficile da realizzare per bene. L’autore comincia esplorando quartieri e zone di Tokyo dove gli stessi abitanti della megalopoli sconsigliano di andare perché “tanto là non c’è niente di interessante”. Invece questo moderno flâneur polacco trapiantato in Giappone sa trovare quel che cerca casualmente, senza conoscerlo prima. Anche per Tokyo vale ovviamente quel che vale già per Roma. Come scrive Roberto Calasso nel suo ultimo libro Memè Scianca (cito a memoria) non si cercano i nomi delle strade di Roma mentre le si percorrono: le si conoscono già da prima. La stessa cosa per Tokyo.
Insomma, Urbanowicz (il cui nome, va detto, è foriero di esplorazioni cittadine) si aggira sino a che non trova la bottega che cerca. Bella, verticale, autentica, antica, stagionata al punto giusto. La esplora dentro e fuori, parla con i proprietari, ci tesse sopra una storia orale che poi tramuta in disegno passando prima per una fotografia corretta nella geometria della prospettiva per evitare la fuga verso l’alto, l’immagine con le parallele dei muri che si incontrano ai piani alti. E questi negozi giapponesi, come tutti i palazzi delle zone più o meno storiche di Tokyo, sappiamo essere stretti e alti per un motivo utilitaristico.
Era infatti tradizione misurare la superficie di strada occupata da un palazzo per tassarlo in proporzione guardando semplicemente alla sua larghezza e non tanto alla sua altezza o profondità. Così, a Tokyo fu tutto un fiorire di palazzi stretti e alti, tendenzialmente con una sola luce sulla pubblica via, incasellati uno accanto all’altro: massimizzavano il risparmio fiscale.
Ecco, con queste fotografie e questi appunti visivi dettagliati, precisi sino all’inverosimile di ogni piccolo dettaglio, Urbanowicz procede a ridisegnare la facciata del negozio a matita, la ripassa leggero a china e poi procede con l’acquerello, tecnica elusiva ma suggestiva nella quale evidentemente è maestro.

Le sue facciate vengono fatte esplodere poi in una serie di particolari ingranditi che documentano e sottolineano gli aspetti più importanti. Il testo bilingue racconta la fondazione e la storia della bottega storica e della famiglia che l’ha messa in piedi. Spesso i vecchi negozi storici vengono tramandati di generazione in generazione; addirittura gli anziani proprietari adottano i giovani garzoni quando dimostrano responsabilità e rinnovano così il sangue ormai antico dando nuova linfa anche all’attività commerciale.
L’occhio del disegnatore, come quello del fotografo, è un occhio abituato a guardare e a vedere. Capace di cogliere dettagli, di assaporarne il significato, di interrogarsi sul senso. E Urbanowicz non fa eccezione. Nel breve testo – un tempo con meno enfasi avremmo detto “nelle didascalie” – rende ragione dei particolari e dei dettagli inseriti nel disegno, aggiungendo altri particolari che sanno dare profondità e senso ulteriore: la tal bottega fondata nel 1783 a Osaka è a Tokyo da una sessantina d’anni, la cui facciata è originale ma all’interno è stato tutto rinnovato nel 1975. Eccetera. E ancora: qui si usano ancora i vecchi ripiani d’esposizione ed è stato conservato il tradizionale soffitto a forma d’ombrello. Eccetera eccetera. Cose così, insomma.
Quello che stupisce al di là di tutto è la capacità di Urbanowicz di documentare un Giappone sia immaginato che reale. Un Giappone al tempo stesso doppiamente trasfigurato nel sogno e nel ricordo, grazie alla scelta dei soggetti e alla tecnica ad acquerello che rende letteralmente “pittoresca” qualsiasi disegno anche senza bisogno che debbano passare una cinquantina d’anni.
Il controllo delle tecniche usate da Urbanowicz è notevole, a partire dalla capacità di mostrare i dettagli ricostruendoli con una tecnica di “rilievo fotografico” che è alla base di molta della documentazione del fumetto popolare di tutto il mondo (da dove credete che vengano la Londra di Dylan Dog, la New York di Martin Mystere, la Monument Valley di Tex Willer?), ma soprattutto di quello giapponese. Quante milioni di tavole di manga sono nate ripassando una fotografia di una strada, di un interno, di uno scorcio? Non è una scorciatoia, è un’arte.

Gli “sfondisti” sono degli esperti nella ricerca dell’atmosfera, del gusto, della prospettiva e dell’inquadratura ma soprattutto di quei piccoli particolari che sul set di un film fanno la differenza tra il direttore della fotografia e l’arredatore di scena. Urbanowicz è capace di creare, certamente, e ha un controllo della tecnica dell’acquerello che avrebbe fatto la gioia di qualsiasi paesaggista della scuola inglese (William Turner, ad esempio), ma è soprattutto capace di mettere in scena, di implementare l’interpretazione visiva di un piccolo mito, un archetipo minore dell’inconscio collettivo. Quello delle botteghe di Tokyo.
Per questo è sorprendente, almeno all’apparenza, che il suo libro sia al primo posto delle vendite online e distribuito con grande abbondanza in moltissime librerie del nostro Paese. È dopotutto un volume costosetto (attorno ai 25 euro) che raccoglie 40 tavole ad acquerello di altrettante vecchie botteghe di Tokyo immortalate con una prospettiva centrale che le appiattisce nella pagina bianca e le fa sembrare più che altro simili alle illustrazioni tecniche nei libri per ragazzi di una volta, quelli che spiegavano chi erano gli antichi egizi, gli antichi romani, gli abitanti dei primi Comuni, le botteghe rinascimentali e le grandi città come Firenze e Parigi.
I disegni di Urbanowicz sembrano un po’ queste due cose. Da un lato sembrano la versione pompata di vecchie illustrazioni didascaliche e pedagogiche. Dall’altro sembrano dei set rimessi in forma dal production designer di uno spot pubblicitario o di una serie televisiva che cerchi di trasmettere uno stile, un periodo, un luogo, un genere, alla fine un umore che altrimenti non si potrebbe definire.
Questa giustapposizione quasi maniacale di dettagli apparentemente hipster è in realtà il lavoro che serve alla creazione di piccoli diorami bidimensionali e onirici (dopotutto sono acquerelli) che cercano di sconfiggere il tempo e anzi uscirne, per mettere in mostra un’altra cosa. Quello che muovono è invece un campo sospeso, una forma di fotografia che si traveste da disegno, di computer grafica che si mimetizza come gesto manuale. Un ossimoro continuo e paradossale. Le tavole di Urbanowicz potrebbero essere totalmente finte, potrebbero essere generate proceduralmente dal computer usando una rete neurale addestrata con qualche milionata di tavole di Osamu Tezuka e Rumiko Takahashi. Ma non lo sono.

Invece, la cifra di Urbanowicz è nell’ossessiva ricerca del particolare, nel continuo passaggio di piano, nella capacità di sviare lo sguardo dello spettatore, che segue incantato il disegno cercando la potenza della realtà e al tempo stesso ammira nella tracce della realtà la prodezza evocativa dell’acquerello.
In questo gioco di continue inversioni e inseguimenti il polacco è maestro, così come è bravissimo a ipnotizzare il suo pubblico giapponese che per una volta si sente guardato e visto da un’occhio straniero, altro da sé ma al tempo stesso compatibile e comprensibile nelle sue allusioni (acquerello e realtà), nelle sue illusioni (ancora acquerello e realtà) e soprattutto nelle sue ossessioni (ovvero acquerello e realtà).
Bel lavoro, dunque, quello di Urbanowicz, che tocca anche noi lettori italiani, tra i primi popoli al mondo per fascinazione della cultura giapponese moderna (e un po’ meno moderna) dopo i figli stessi del Paese del Sol Levante, ovviamente. Soprattutto, in tempi di pandemia e di forzata astinenza da viaggi e vacanze, questo modo di raccontare una storia per lo spirito usando gli acquerelli e le botteghe di una volta di Tokyo è molto azzeccato e suggestivo. Si capisce perché stia piacendo anche da noi. Avremmo voglia di andare là e di fotografarle, disegnarle, acquerellarle. O semplicemente poterle vedere e guardarle a lungo.
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Antonio Dini, giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. La sua newsletter si intitola: Mostly Weekly.
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