
Pur non essendo forse ricordata e celebrata come altre produzioni coeve, Lamù, la ragazza dello spazio – la serie animata curata per lo più da Mamoru Oshii e tratta dall’omonimo manga di Rumiko Takahashi – è andata oltre lo status di cult, superando le sfumature nostalgiche di chi, all’epoca, la vide da bambino, e dimostrandosi, ancora oggi dopo 40 anni dal suo esordio, un’opera complessa, sagace, brillante, un contenitore in cui sono state riversate suggestioni e riflessioni di diverso tipo. Merito, per lo più, proprio di Oshii e della sua versatilità.
La storia è quella di Ataru e della folle storia d’amore con l’aliena Lamù in seguito all’arrivo sulla Terra degli Oni (che in Giappone sono esseri demoniaci appartenenti al folklore), giunti nel nostro pianeta per conquistarlo. Ma ecco il patto: se un uomo, entro dieci giorni, riuscirà a toccare le corna di Lamù – la figlia del capo del capo degli Oni – la Terra sarà salva. L’uomo designato è lo studente Ataru, sfortunato e ossessionato dalle forme femminili.
Il ragazzo riuscirà nell’intento di salvare il pianeta, ma da questa situazione nascerà un fraintendimento che porterà Lamù a credere di doversi sposare con lui. È l’inizio di una storia fatta di gag, situazioni paradossali, composta da personaggi di ogni tipo: 195 episodi che ritraggono il faticoso percorso di maturazione di Ataru e non solo.
Lamù, complessa e profonda
Di fronte a un occhio meno attento, Lamù, la ragazza dello spazio potrebbe apparire come una serie demenziale, con il solo intento di divertire lo spettatore con situazioni e battute spesso volgari. Ma non è così, Lamù è molto più profonda e complessa di quanto possa apparire.
Il manga di Rumiko Takahashi fu inizialmente pubblicato nel 1978 sulla rivista Weekly Shōnen Sunday e ottenne un successo immediato, tanto che la pubblicazione andò avanti fino al 1987. L’anime fu prodotto inizialmente dallo Studio Pierrot, composto da ex-dipendenti della Tatsunoko, e, con l’uscita di Oshii nel 1984, dallo Studio Deen.
Sin dalle sue prime fasi, la serie ebbe la partecipazione attiva del futuro regista di Ghost in the Shell che, da subito, cercò di imprimere la sua visione senza snaturare l’opera, proponendo un intrattenimento genuino senza dimenticare riflessioni più profonde, sulla vita e sulla società, sul senso dell’amore e della sofferenza, ma anche sulla Storia e sui drammi che dobbiamo attraversare.
Oshii aveva già dimostrato di essere un professionista affidabile: aveva diretto qualche episodio di Il fichissimo del baseball, Yattaman e Zenderman. Lamù fu però la sua prima, vera prova in veste di supervisore e contribuì senz’altro a farlo crescere come autore. L’autore decise sin da subito di ispirarsi al materiale cartaceo, senza però farsi influenzare troppo. L’istanza fu, quindi, quella di partire dalle premesse della Takahashi per adattarle alle esigenze autoriali di Oshii. Questo approccio funzionò, dando alla serie televisiva la possibilità di svilupparsi in maniera quasi autonoma e proponendosi come oggetto narrativo e concettuale diverso.

Lamù e il sociale
Ciò che, ancora oggi, stupisce di Lamù è la sua capacità di porsi come materiale “basso” pur contenendo elementi “alti”. L’intenzione iniziale è quella di far divertire lo spettatore, e ci riesce. Grazie a un universo di personaggi variegati e variopinti, Lamù propone gag su gag, rimarcando dinamiche simili ma reinventandole ogni volta, anzi, persino giocando con esse, con la insistita reiterazione delle situazioni narrative. Al tempo stesso, Lamù ci racconta qualcosa di più stratificato.
Il Giappone, le dinamiche schizofreniche della società contemporanea, ma anche le idiosincrasie dell’Occidente e degli immaginari di cui ci nutriamo. L’elemento sociale è una caratteristica che torna spesso nell’opera di Rumiko Takahashi. Basti pensare a Maison Ikkoku che, dietro la facciata di una storia d’amore divertente, cela l’intenzione di fotografare il Giappone pre-crisi economica.
Questo approccio fu utilizzato anche da Oshii per la serie animata, tramite alcune tematiche inserite sottotraccia. Per esempio, nel rapporto fra Ataru e Lamù c’è la grande difficoltà di rapportarsi con l’altro sesso, che non riguarda solo l’intimità dei due ma a che fare anche con la staticità sociale in termini di libertà sessuale e soprattutto di indipendenza (da questo punto di vista la famiglia è ritratta come un grande peso in termini di crescita). Non manca poi una riflessione sui rapporti di potere, che riguardano sia quelli specifici all’interno della scuola (gli scontri, anche fisici, tra gli studenti e gli insegnanti sono l’eco di quelli che hanno dominato la scena del ‘68 giapponese), sia quelli sociali in generale.
In Lamù emerge con forza un desiderio, da parte delle nuove generazioni, di emanciparsi da un passato stantio che è identificato con classi sociali specifiche: gli insegnanti e i genitori. Un vero e proprio scontro generazionale per il quale Oshii ha sempre avuto grande interesse, portando avanti nelle sue opere le istanze di chi negli anni Sessanta e Settanta protestava per motivi ecologici, sociali, politici.
Un elemento spesso sottovalutato è la presenza di donne forti: il femminismo in Lamù prende corpo nel coraggio e nella consapevolezza delle donne che popolano la serie, la protagonista in primis. È grazie a lei, infatti, che si genera una dialettica di coppia intrigante e mai banale. E poi c’è anche il vasto universo culturale e folkloristico del Giappone, che è il vero cuore pulsante di Lamù e che prende forma nella serie grazie a personaggi iconici e situazioni peculiari.

Nella storia dell’animazione giapponese
Tutto passa attraverso una serie che, complice il tratto di Akemi Takada – che si occupò del character design – mantiene alta la qualità nonostante l’impressionante durata. Da un punto di vista meramente tecnico siamo di fronte a un prodotto in linea con i suoi coevi, capace di colmare i limiti produttivi che si traducevano in un’animazione talvolta statica.
In questo caso, tale limitazione è compensata da una sceneggiatura spesso brillante, che genera una rosa di personaggi capaci di ispirare le singole situazioni, e da una regia che punta a essere il più coinvolgente possibile senza sfociare nello sperimentalismo.
Ci sono episodi meno riusciti, certo, e c’è il cambio di rotta attuato dopo l’addio di Oshii nel 1984, sostituito da Kazuo Yamazaki – il quale optò per un mood più divertente, leggero e scanzonato – ma nel complesso è giusto sottolineare come Lamù sia da annoverare tra le serie più importanti della storia dell’animazione giapponese, e non solo per il clamoroso successo di pubblico.
Oshii concluse la sua esperienza con Lamù, dirigendo un film che ne era celebrazione e al tempo stesso negazione: si tratta di Lamù: Beautiful Dreamer, opera del 1984 in grado di rivoluzionare la serie stessa. In quel film c’erano i semi dell’Oshii autore, colui che ci avrebbe regalato Patlabor e Ghost in the Shell. Sono lì, in quel film, ma, a guardare bene, persino in quella serie che racconta le tribolazioni di un adolescente che non vuole ammettere di essere innamorato di un’aliena.
Giocando con il concetto di tempo e sospendendo di fatto l’intero universo narrativo, Oshii con Beautiful Dreamer ripensava alla serie, omaggiandola ma anche sottolineando la necessità di un cambio di rotta. Non tanto per la serie in sé quanto per se stesso. È innegabile, però, che l’Oshii che conosciamo, l’Oshii filosofo, che dialoga con immaginari pop e folkloristici per smontarli e riassemblarli a suo piacere, è quello che è grazie anche e soprattutto a Lamù, la ragazza dello spazio.
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