
Una cosa è certa: vivere nel medioevo non era una passeggiata o, come dicono gli inglesi, un picnic. Se c’è un aggettivo per descrivere quest’epoca è certamente “brutale”, prima ancora che “ingiusta”. E Dio solo sa quanto il film The Last Duel di Ridley Scott non renda conto di quest’idea di un tempo profondamente ingiusto, le cui tracce si ritrovano ancora oggi nella nostra società e nei nostri comportamenti.
Andare a vedere un film di Ridley Scott è un omaggio prima ancora che un atto di cinefilia: anche se il regista britannico riprendesse le sue scarpe per due ore e 32 minuti ne varrebbe la pena. Per fortuna ha deciso di investire il suo tempo in questo The Last Duel e darci un saggio di regia imperiosa, forte e costantemente alla ricerca di un equilibrio tra la dimensione psicologica (ritagliata con piani sequenze e ravvicinate frammentate e a tratti dolorose) e l’azione pura, fatta di scene convulse, con tagli netti e serrati, da videoclip.
Merito, va detto, anche della bravissima montatrice Claire Simpson, già vincitrice di un premio Oscar per Platoon nel 1987 e una nomination per The Constant Gardener. Le atmosfere fredde, dure, a tratti sofferte, sono create da un piccolo genio della fotografia, cioè il polacco Dariusz Wolski, che ha lavorato a kolossal come Pirati dei Caraibi, Prometheus, The Martian e a decine di video musicali per Elton John, Eminem, David Bowie, Sting, Aerosmith e Neil Young.
Sottolineo il ruolo tecnico di professionisti bravissimi che spesso non vengono neanche menzionati perché la professionalità e la visione di Ridley Scott si appoggiano saldamente su gambe forti sia per la ripresa che per la produzione. Tuttavia, serve anche a non dimenticare che fare film è uno sport di squadra e che non giocano solo gli attori con il regista. Ma c’è di più. C’è la storia di The Last Duel, che è un piccolo capolavoro narrativo e sociale.
Il film è basato sul romanzo storico del medievista Eric Jager intitolato L’ultimo duello. La storia vera di un crimine, uno scandalo e una prova per combattimento nella Francia medievale. È un romanzo storico “furbo” perché riprende una vicenda del quattordicesimo secolo che fu ai suoi tempi (e poi a lungo) molto nota e discussa (ne scrisse anche Voltaire) e che poi cadde nel dimenticatoio. È la storia di una violenza sessuale nella Francia medievale, dello scandalo che comportò e della soluzione che fu scelta, cioè un giudizio per duello all’ultimo sangue, in modo che fosse il giudizio divino a scegliere chi aveva ragione e torto.
La storia è semplice nella sua impostazione e ricca di sfumature e implicazioni perché è una storia potente. Ha soprattutto un’eco potente: la condizione femminile nel Medioevo è quasi surreale, perfettamente aderente allo stereotipo di “mica viviamo nel Medioevo” che si usa per stigmatizzare comportamenti ritenuti troppo antiquati o repressivi. Però la realtà della messa in scena di Ridley Scott e la rivisitazione della storia grazie alla sceneggiatura supera ogni aspettativa in questo senso. E rimette in discussione molto più che la sola brutalità di una società che guardiamo spesso solo negli aspetti storici e magari filosofico-religiosi ma certamente non di vita quotidiana.
La sceneggiatura nella costruzione del film è il punto chiave: la pellicola è costruita intorno a tre punti di vista, un po’ come fece Akira Kurosawa con Rashomon. Qui sono scritti da Nicole Holofcener, Ben Affleck e Matt Damon, gli ultimi due anche interpreti del film assieme ad Adam Driver e a Jodie Comer (ci torniamo tra un attimo). È un poker di attori spettacolare, che regge benissimo il passo e distribuisce alla perfezione molti dei toni della storia. Forse Matt Damon in questo caso è leggermente superiore agli altri, seguito però da vicino da Jodie Comer, che abbiamo visto poco tempo fa in Free Guy, dove mostra una capacità notevole di muoversi su un registro non convenzionale piuttosto ampio.
I tre punti di vista sono quelli dei due protagonisti interpretati da Damon e da Adam Driver, cioè gli antagonisti Jean de Carrouges e Jacques Le Gris. Si tratta di due personaggi storici, e la storia raccontata dal loro punto di vista è costruita attraverso le testimonianze, gli atti di tribunale, gli usi e le tradizioni dell’epoca e anche le informazioni sulla loro vita di nobili del tempo. Più complessa e delicata la costruzione della personalità e del ruolo di Marguerite de Carrouges, che è un personaggio storico e in quanto tale non può essere rivestita di una sensibilità contemporanea, anche se ha una consapevolezza e una duttilità superiore a quella delle sue controparti maschili.
Il racconto ruota attorno al processo che Jean de Carrouges riuscì a far intentare contro lo stupratore di sua moglie, Jacques Le Gris. È un’epoca in cui le donne non avevano rappresentanza legale e il reato era fondamentalmente di danneggiamento della proprietà del loro tutore (il marito) e dell’onore di quest’ultimo. Con l’avvertenza che per una donna accusare qualcuno di stupro e poi venire smentita comportava una morte piuttosto dolorosa e lenta: “sommariamente bruciate” con una pira che poteva durare anche mezz’ora prima di portare la pace eterna (si fa per dire).
Soprattutto, il racconto dello stupro da parte di Marguerite de Carrouges è il frutto della terza sceneggiatrice, cioè Nicole Holofcener, che mette in scena una capacità autoriale notevole. Holofcener fa molto più che non da spalla alla reunion dei due autori e attori americani dopo 25 anni da Good Will Hunting, il film che lanciò la coppia con un Oscar alla sceneggiatura e uno a Robin Williams come miglior attore non protagonista. Infatti la Holofcener si carica di una responsabilità notevole che è quella di mantenere il film in equilibrio tra la profondità della vicenda storica “minore” ma d’impatto (alla fine è un giallo ambientato nel Medio Evo, un po’ come Il nome della rosa) e l’aspetto fondamentale che risuona anche nel nostro tempo presente, cioè la violenza sulle donne che all’epoca erano considerate poco più (o poco meno) di un bene mobile.
Mentre le parti scritte da Damon e Affleck sono quelle di due personaggi maschili e come tali storicizzati dal contesto fortemente patriarcale della società medioevale, quella di Holofcener è una “invenzione” che gioca costantemente con il tempo presente. La violenza, la donna che non volle mai stare zitta, il bisogno di giustizia, la partecipazione femminile attraverso tutte le fasce e gli strati della società (dalla regina alla suocera sino alle popolane) in modo però garbato, empatico e tutt’altro che astorico.
Holofcener ha una sua storia da raccontare ed è diversa dalle altre due, anche perché Marguerite de Carrouges nell’intenzione dei tre autori è una donna eroica ed è anche l’unica a dire la verità. L’unica a vedere uno straccio di realtà in un mondo in cui la vanità, l’ebbrezza del potere, la pura e semplice stupidità unita a una micidiale misoginia appannavano la prospettiva di tutti. Come ha commentato lo stesso Ben Affleck, la forza sta nella storia e nei personaggi ma anche nel modo in cui viene raccontata: «Aveva tutti gli elementi di ciò che rende una storia davvero fantastica da raccontare: l’idea di un narratore inaffidabile, un secondo narratore inaffidabile e poi una sorta di rivelazione di ciò che è accaduto attraverso gli occhi di un personaggio che era sia l’eroe che quello la cui umanità era negata e ignorata».

Una dimensione ulteriore del film però va oltre la condizione della donna nel Medioevo e tocca invece uno spazio della natura umana più universale: l’incapacità delle persone, soprattutto dei maschi, di vedere oltre i loro desideri, la loro vanità, l’ossessione per il potere e la politica. Questo non è un film di buoni e cattivi ma è un film che mette a nudo pulsioni più profonde e non più trattenute dai sentimenti: la costruzione psicologica e culturale dell’amore come sentimento personale e non più rivolta solo al divino era appena cominciata, ma il romanticismo e l’individuo moderno sono ancora ben al di là da venire per questo.
Guardando in questo pozzo nero e profondo non filtrato da sentimenti moderni – e sempre grazie alla sensibilità per la psicologia umana che Damon e Affleck manifestano come autori da 25 anni – si possono vedere quelle creature psichiche preistoriche che oggi solo intravediamo ma che sono purtroppo ben presenti ancora adesso.
Il film, visto in italiano, perde una delle dimensioni, ovverosia l’inglese medioevale che lo rendo particolare per lo spettatore anglofono: c’è stato un notevolissimo lavoro di scrittura e di recitazione soprattutto sugli accenti degli attori americani (Damon, Affleck e Driver) mentre la maggior parte del cast è britannico, a partire dall’ottimo re Carlo VI, interpretato da Alex Lawther. È una nota, anche solo per ricordare cosa ci perdiamo con il doppiaggio tecnicamente di alto livello ma comunque alieno alle dinamiche più profonde della storia.
Infine, la scelta dei protagonisti: Affleck avrebbe dovuto recitare la parte di Le Gris anziché quella del conte Pierre d’Alençon, e quindi scontrarsi faccia a faccia e in maniera piuttosto brutale con Damon. Non è successo: in una intervista al New York Times i tre autori ci giocano sopra dicendo che in realtà si è fatto avanti Adam Driver (che recita con passione e integrità ma non con tutta la flessibilità che servirebbe per una parte comunque non facile) e che quindi Affleck ha potuto ritagliarsi un ruolo più distaccato da comprimario. Chissà.
Il film è uno di quelli da vedere, anche perché, dopo essere rimasto in ghiacciaia per un anno più del dovuto a causa del Covid, arriva con una produzione sorprendente e un’idea di fondo, cioè la nostra incapacità di ascoltare attivamente e in maniera partecipe gli altri, che è dirompente. Anche se (un po’) le donne riescono a farlo, come insegna ad esempio Marinella Sclavi con un bellissimo libro, quella dell’arte di ascoltare è un’arte mai abbastanza praticata. Eppure dovremmo diventarne consapevoli e praticarla volontariamente e sistematicamente ogni volta che sia possibile. Il Medioevo di Marguerite e Jean de Carrouges e di Jacques Le Gris è ancora dentro di noi, che si muove neanche troppo sul fondo.
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