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FocusInterviste"Big Questions": in conversazione con Anders Nilsen

“Big Questions”: in conversazione con Anders Nilsen

anders nilsen intervista

Big Questions di Anders Nilsen è senza dubbio uno dei graphic novel nordamericani più significativi degli ultimi decenni. La sua storia ebbe inizio nella seconda metà degli anni Novanta, quando l’autore era ancora uno studente di college e realizzava i disegni che avrebbero portato all’autoproduzione dei primi capitoli della storia, poi pubblicata in albi dall’editore Drawn&Quarterly, responsabile anche della prima edizione in volume uscita ormai dieci anni fa.

Il libro, che all’autore è valso nel 2012 un Lynd Ward Graphic Novel Prize e un Ignatz Award come miglior graphic novel, racconta con segno asciutto e chirurgico una storia ambientata in una pianura arida e desolata. I protagonisti sono degli uccelli che hanno l’abitudine di discutere di questioni filosofiche indagando il senso della vita e di ciò che succede attorno a loro. La loro routine quotidiana è però interrotta dallo schianto di un aereo militare e dalla caduta di una bomba. La tragedia irrompe tra di loro e sull’abitazione di una donna anziana che vive con suo nipote in mezzo alla pianura. Gli uccelli affrontano quindi la nuova situazione dividendosi in chi si affida alla razionalità e chi ricorre al mito o a una sorta credo religioso.

Big Questions si distanziò dalle esperienze del graphic novel anni Novanta e dei primi Duemila, che era in gran parte caratterizzato da un’impronta introspettiva e spesso ombelicale. Nilsen cercò invece dimensioni narrative alternative, più dilatate e minimali, nelle quali trovare un ponte tra il fumetto indie e il movimento art comics che proliferava all’inizio dei Duemila.

Ora Big Questions giunge anche in Italia grazie a Eris Edizioni, andando a colmare una lacuna nell’editoria del fumetto italiana, e l’autore è stato invitato a presentarlo nel corso dell’edizione 2021 del festival BilBObul. Una volta conclusa la traduzione del libro per conto di Eris Edizioni, dopo aver trascorso qualche giorno (ma solo nella mia testa) in terre desolate insieme agli uccellini di Anders Nilsen, ho pensato di approfondire con lui qualche aspetto di un lavoro che tanto a lungo lo ha impegnato e lo ha aiutato ad affermarsi come una delle menti più brillanti del fumetto d’autore americano.

Big Questions ha preso il via come un progetto autoprodotto. In pratica sei diventato fumettista realizzando questa serie. Secondo te, senza questa esperienza saresti diventato comunque fumettista o avresti preso un’altra strada?

Credo che in un modo o nell’altro sarei comunque finito a fare fumetti. Prima di mettermi al lavoro seriamente su Big Questions avevo realizzato un paio di piccoli libri illustrati: una storia per bambini con protagonista una tartaruga che avevo disegnato per mia sorella minore e un altro che nacque da una serie di dipinti ritraenti un ragazzo con due teste che avevo fatto quando studiavo. E avevo realizzato anche un fumetto breve per il disco di un mio amico.

Quindi il mio cervello si stava già muovendo verso la direzione di raccontare storie con le immagini. Ma detto questo, il modo in cui Big Questions si è evoluto dal piccolo esperimento portato avanti sul mio sketchbook che era all’inizio per me è stato il modo migliore di arrivare a fare fumetti. È cresciuto organicamente e e con clemenza, visto che io non sapevo cosa stessi facendo all’inizio.

big questions anders nilsen

Dopo oltre vent’anni, una lunga serie di albi e un tomo imponente che li raccoglie, come vedi oggi Big Questions? Che relazione hai con quel fumetto? Ti ha stancato o c’è qualcosa che cambieresti?

Sono ancora molto legato a quel libro. Oltre al fatto di aver imparato a disegnare, mentre lo realizzavo ho proprio capito cosa volessi disegnare davvero, che tipo di fumetti volessi fare. Quindi lo stile cambia un paio di volte nel primo terzo del libro. Se con uno schioccare delle dita potessi tornare indietro e fare dei cambiamenti al libro ci sono sicuramente delle cose che si potrebbero migliorare o ridisegnare.

Ma nel complesso lo riguardo con grande affetto. Il processo di creazione è stato un processo di scoperta, per me. È stato come vedere quei personaggi e quegli scenari prendere vita davanti ai miei stessi occhi. E nelle parti migliori del libro credo che quel sentimento sia ancora vivo. Quindi sì, nel complesso sono ancora molto soddisfatto.

In questa storia sono contenuti molti temi che hai continuato a sviluppare in lavori successivi. Uno di questi è il rapporto dell’uomo con la natura, che oggi rende il libro ancora rilevante, non credi?

Mi piace pensare che sia così. Certo, il modo in cui certi temi continuano a riproporsi nel lavoro di una persona può essere anche un po’ disturbante. C’è il rischio di risultare un po’ prevedibili, se non si fa attenzione, ma si può anche provare a sfruttare la cosa e magari portare quelle idee sempre un passo avanti, in nuovi territori, esplorando idee sempre più nel profondo e in modi sempre nuovi.

Io non penso ai temi del libro in termini espliciti di, come hai detto tu, “rapporto degli esseri umani con la natura”, in parte perché io penso agli umani proprio come parte della natura. Cerco di fare attenzione a non posizionarci al di fuori di essa secondo la nostra visione e le nostre sovrastrutture. Ma probabilmente hai ragione anche tu, visto che di fatto ci vediamo separati, come al di fuori del processo che ci ha prodotti. E ciò implicherebbe che abbiamo una relazione complicata con l’idea stessa di questo rapporto.

In Big Questions quel tema percorre praticamente tutta la storia. Nel mio progetto attuale c’è un tema simile che in alcune parti è indagato in maniera più esplicita, dal momento che affronto veramente gli effetti che abbiamo avuto sul mondo e i loro motivi.

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A un certo punto la religione e la spiritualità assumono un ruolo importante nella storia. Quali erano le tue intenzioni? Sei una persona religiosa?

No, non lo sono. La definizione di ateo è forse quella che mi si adatta meglio. Ma vengo da una famiglia di persone coinvolte direttamente nella chiesa. Il padre di mia madre e suo fratello erano entrambi pastori luterani e da bambino ho saltuariamente frequentato la chiesa.

In effetti vedo un legame tra quello che faccio io, cioè raccontare storie sul mondo e sul ruolo che abbiamo in esso, e quello che faceva mio nonno. La sua vocazione era quella di alzarsi in piedi di fronte a una congrega ogni settimana per leggere e interpretare delle storie – nel suo caso quelle della bibbia – cercando di individuare un significato per i suoi parrocchiani per poi giungere a delle conclusioni su ciò che è importante nella vita, su come dovremmo trattarci l’un l’altro e su qual è il significato della vita.

Lui avrà pensato che alcune di quelle storie fossero vere, almeno quando era più giovane, mentre io no. Ma ci potremmo essere trovati d’accordo sul fatto che fossero affascinanti, ricche di significato, strane, e che in molti modi siano storie che stanno alla base del nostro mondo. Per me le storie su Dio e gli dèi sono un gran modo per discutere su (come lo definivi tu stesso prima) il nostro piccolo rapporto umano con il resto dell’universo.

Quindi sì, Dio e l’idea di Dio appaiono abbondantemente nel mio lavoro, nonostante io non sia credente. Le storie sugli dèi mostrano un certo parallelo con come funziona il processo creativo. In quanto autore dei miei libri, quindi in un certo senso figura divina per i miei personaggi, io faccio fare e dire loro delle cose, metto ostacoli sul loro percorso, li punisco arbitrariamente. E questa è un’altra cosa divertente e strana con cui si può giocare realizzando storie.

Qual è stata la difficoltà maggiore nel realizzare una storia con così tanti personaggi di cui quasi tutti animali?

Be’… gli uccelli sono tutti quasi uguali, il che non è una condizione ideale in un medium come il fumetto. All’inizio ho giocato dando loro dei piccoli segni distintivi, ma la cosa non mi è sembrata giusta. Quindi poi sono passato a usare i loro nomi come titolo dei capitoli, oppure ho fatto in modo che spesso si presentassero col nome. Entrambe le soluzioni hanno finito per funzionare discretamente. Poi i dettagli dei loro volti contano un po’ meno e in genere i volti sono la cosa più difficile da rendere bene. Altrimenti il numero dei personaggi non sarebbe così complicato da gestire. Per me erano come persone normali.

Il fumetto a cui sto lavorando adesso, che si intitolata Tongues, ha una struttura dei personaggi e delle trame leggermente più complicata, quindi è più difficile da gestire. Il lavoro su Big Questions deve avermi preparato più di ogni altra cosa.

Avere così tanti protagonisti animali che si comportano un po’ come persone è stato un modo per affermare che noi e gli animali siamo uguali o in realtà hai voluto mostrare più fiducia nei secondo che nei primi?

Mi sento di poter dire che i personaggi animali non sono in realtà esattamente degli animali. Rappresentano aspetti di cosa vuol dire essere umani… e ovviamente, un essere umano è in parte anche un animale e fa parte di tutta la natura. Ma, ad ogni modo, gli uccelli non sono davvero degli uccelli, sono controfigure che interpretano il modo di relazionarci con il mondo. E probabilmente hanno modi più umani anziché tipici degli animali, dal momento che io non sono mai stato un uccello e non so proprio cosa ciò comporti.

I personaggi degli uccelli e quelli umani agiscono su due (o forse di più) livelli diversi. Gli umani per gli uccelli sono come delle divinità, ma tra di loro gli uccelli sono molto umani, imperfetti e inquieti. E per il pilota gli uccelli sono una specie di rappresentazione di quanto il mondo, o come magari diresti tu la natura, può essere insensato e fastidioso.

Ricordo di aver visto una tua mostra all’edizione del 2008 del festival BilBOlbul. Ebbi l’impressione che i tuoi fumetti nascessero da un processo spontaneo di improvvisazione. È così? Come lavori alle tue storie?

Non ricordo quali lavori fossero in mostra quell’anno, ma di certo non è sbagliato dire che quello che faccio nasce dall’improvvisazione. I miei lavori più rifiniti, come Big Questions, sono quasi sempre nati da piccoli esperimenti sui miei sketchbook, che a loro volta sono, sì, improvvisati.

Poi ci sono improvvisazioni che offrono più possibilità di altre e si evolvono in libri. Ma a quel punto entrano in gioco un bel po’ di editing e di riflessioni, prima che il lavoro sia finito. Quindi direi che gli inizi siano frutto di improvvisazione, il resto un po’ meno.

big questions anders nilsen

Leggendo la tua postfazione ho avuto l’impressione che tu abbia iniziato a fare fumetti quasi per caso. Prima eri un appassionato? Cosa leggevi?

Prima di diventare autore di fumetti ero comunque un grande appassionato. Da ragazzino leggevo un sacco di fumetti Marvel, roba tipo X-Men e Daredevil. Ma anche Tintin e Asterix. Poi, crescendo, sono andato alla ricerca di cose più particolari ed elaborate. Volevo scoprire quali fossero le varie possibilità che poteva offrire il fumetto. E quindi scoprii cose come Weirdo, Raw, World War 3 e Moebius. E dopo mi sono imbattuto anche in Love and Rockets, Yummy Fur, Jason Lutes e tutto quel tipo di fumetti.

Quando ho frequentato il college ho praticamente messo da parte i fumetti per concentrarmi su un lavoro artistico maggiormente orientato alle gallerie e ai musei, come pittura, installazioni, oggetti trovati e così via. Ma finita la scuola credo che ormai il fumetto fosse profondamente incastonato nelle mie ossa. Così ho finito per tornare a gravitarci attorno, e lui si è preso la mia vita.

E adesso quali sono i fumetti che ti ispirano?

Guardo ancora a Hergé. Moebius per me è una grande influenza. Ma poi mi piace molto John Pham per i suoi colori e il design dei suoi libri. Adoro i fumetti astratti di Cynthia Alphonso. Mi piace molto il lavoro Marion Fayolle e quello di Marijpol. 

Col tuo nuovo fumetto – Tongues – sei tornato a fare autoproduzione. Quali sono le ragioni dietro questa scelta?

Il settore della piccola editoria alternativa americana non supporta più la serializzazione come succedeva un tempo, ma a me piace molto far uscire singoli numeri di una serie, specialmente se si tratta di lavorare a qualcosa di più ampio respiro. Trovo essenziale avere scadenze regolari e frammentare il lavoro in porzioni più piccole.

Inoltre, vendere io stesso i libri mi permette di tirare su qualche soldo per pagare l’affitto mentre lavoro alla storia. Alla fine verrà raccolto e un editore lo distribuirà nel mercato vero e proprio, ma autoprodurre i vari capitoli mi permette di campare mentre il libro ancora non è completo. Inoltre mi permette anche di fare una sorta di prima bozza del libro.

Con Big Questions ho avuto modo di tornare indietro e fare qualche cambiamento qua e là quando ho aggiustato la storia per la raccolta. Mi aspetto di poter fare allo stesso modo con Tongues

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