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“Cowboy Bebop” di Netflix è qualcosa di cui si poteva fare a meno

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Sebbene sia sbagliato affrontare l’analisi di un’opera mettendola a raffronto con quella che l’ha ispirata, nel caso del Cowboy Bebop prodotto da Netflix è impossibile procedere altrimenti. La serie-live action è infatti ispirata all’anime di Shinichiro Watanabe del 1998, visto da noi su MTV. E il risultato, dopo i dieci episodi che compongono l’ipotetica prima stagione, è deludente. Anzi, diciamo pure terribile. 

Per chi non sapesse di cosa si stia parlando, Cowboy Bebop è la storia, ambientata nel futuro, di un eterogeneo gruppo di cacciatori di taglie: Spike, dall’oscuro passato; Jet, ex poliziotto; Faye, intenta a scoprire qualcosa di più su chi è veramente. Tutti finiranno in una spirale che coinvolgerà lo stesso Spike, la sua nemesi Vicious e la donna di cui è profondamente innamorato, Julia. 

Nel 1998, Cowboy Bebop segnò il punto di svolta della carriera del suo creatore, Shinichiro Watanabe, e delineò il corso di ciò che è nota come Nuova Animazione Seriale, un momento storico in cui gli anime televisivi hanno contribuito a una rivoluzione estetica e narrativa in grado di avere effetti anche in altri settori, in particolare quello cinematografico. Sull’importanza e l’unicità della serie animata rimando all’articolo che scrisse Marco Andreolotti in occasione dei suoi vent’anni

Curato da André Nemec e Chris Yost, il “reboot” di Netflix fatica a staccarsi dall’originale ma allo stesso tempo tenta di essere qualcosa di unico e nuovo, con risultati a tratti imbarazzanti. Proviamo allora ad affrontare il discorso mettendoci nei panni di due ipotetici spettatori: uno non ha mai visto la serie giapponese, l’altro sì.

Nel primo caso, lo spettatore si trova di fronte a un prodotto discreto. Nulla di eccezionale, una serie come tante che prova a mescolare generi e suggestioni, frullando il tutto in un mix di post-moderno con effetti speciali altalenanti e una brutta regia. I personaggi hanno una loro profondità ma niente che possa rimanere nella memoria dello spettatore medio per più di una settimana. 

Ci sono alcune trovate narrative interessanti, un sagace mood che alterna sarcasmo e dramma, un non so che di pulp che ricorda a tratti Tarantino, un cattivo psicopatico malamente interpretato e che non fa paura neanche per sbaglio. C’è un accompagnamento musicale molto riuscito ma è un elemento isolato, che non si integra con la storia. E ci sono le immagini, che sembrano essere messe lì appositamente con l’intento di stupire il fruitore. 

Nel panorama contemporaneo della serialità, Cowboy Bebop è un titolo ben al di sotto della media a cui siamo abituati, che finirà presto nel dimenticatoio o, coerentemente con la politica Netflix, che sarà cancellato solo dopo una stagione. E come in tanti altri casi non sapremo mai che fine farà Spike, Vicious, Julia, Jet o Faye. Fine.

Nel secondo caso, quello in cui lo spettatore conosce la serie animata, purtroppo, va ancora peggio. Qui, la consapevolezza della povertà che ammanta l’operazione Netflix emerge con forza. Perché si capisce come i pochi elementi salvabili siano derivativi dell’opera di Watanabe. Situazioni, musiche, immagini: tutto è riproposto fedelmente (in maniera quasi filologica nel combattimento finale fra Spike e Vicious, corrispondente alla quinta puntata dell’anime). 

Dove la serie live-action di Netflix decide di distaccarsi, proponendo un’alternativa, fallisce miseramente. [INIZIO SPOILER] Vicious è uno psicopatico con problemi gravi derivanti dal rapporto malato con il padre, scadendo nello stereotipo e privandolo di quel fascino misterioso e inquietante che invece aveva nell’anime. Anche Julia prende una strada diversa, ma senza un senso logico, la rivelazione finale sembra più una necessità da colpo di scena che un’esigenza narrativa. [FINE SPOILER]

Essere un reboot di un’opera fondativa e importante non sempre è da considerarsi un malus. Tutto sta a capire l’onestà intellettuale con cui ci si approccia a tale operazione. Il Watchmen di HBO, pur partendo da istanze evidenti molto vicine al fumetto di Moore e Gibbons, ha avuto il coraggio di muoversi da quell’universo per riflettere, in una forma funzionale, sulle complessità del presente, proprio come aveva fatto il fumetto decenni prima. 

In questo caso, oltre a esserci evidenti limiti tecnici e qualitativi, c’è anche il vuoto di idee che, inevitabilmente, palesano le intenzioni unicamente commerciali dell’opera: sfruttare l’importanza e la bellezza di un’opera esistente per replicarne il successo. Il problema di Cowboy Bebop, dunque, non è solo nel modo in cui si pone ed è realizzata, ma è la concezione stessa a minarne drammaticamente la riuscita, il principio fondante. Qualcosa di cui il mondo poteva fare a meno.

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