
Ci sono due modi possibili per raccontare Eternals, il ventiseiesimo film dell’universo cinematico Marvel entrato nella sua quarta fase, e al tempo stesso non fare spoiler. Il primo è dire che è un bel film con alcuni punti deboli e che “apre” definitivamente la Marvel “facile” – quella di Thor, Capitan America e Iron Man – ai livelli più elevati ed esoterici della grande narrazione dei comics americani.
Con questo film si esce definitivamente dai territori già visti e rivisti delle storie che tutti conosciamo anche senza aver visto una singola tavola dei fumetti Marvel, per entrare al piano di sopra, nel privè degli addetti ai lavori. Altro che Guardiani della Galassia. Non a caso il cast di questo film vede una sentita iniezione di A-Level Talent, soprattutto Angelina Jolie. Perché, a parte il fatto che la Jolie vuole la sua fetta del nuovo mondo fatto di film di supereroi con superattori? Semplice. Bisogna stabilire un legame forte con il pubblico, e questo accade perché per la Marvel, signore e signori, si sta facendo un affare complicato. E se ve lo scriviamo qui su Fumettologica, dove non ci risparmiamo certi spiegoni che neanche Wikipedia nei suoi giorni migliori, dovete crederci.
L’altro modo per raccontarlo è dire che si tratta di un film sui dogmi e il senso della vita. La risposta più umana che chiunque si può dare crescendo e uscendo dalla sua famiglia di origine, o dopo una separazione o un lutto: vai fuori e fatti una vita. Vivi la vita che vuoi, cerca il senso e trova il modo di essere felice. Ricorda cosa fai, rendilo degno di essere ricordato. Una ambizione non da poco. Ma voglio provare un’altra strada.
Questo è un bel film, corale come i film degli Avengers, con i suoi “guizzi”, con una atmosfera non troppo cupa e invece una cinematografica computazionale (come altro descrivere la totalità degli effetti visivi che sono alla fine il film stesso?) di altissimo livello. Certo, è Marvel e non Shakespeare, però si permette di giocare a tanti livelli diversi. Un esempio è l’incontro tra Ikaris e Dane Whitman, il fidanzato di Sersi, il “signor nessuno” per eccellenza. Cioè tra Richard Madden e Kit Harington, divenuti famosi per il ruolo di fratellastri in Il trono di spade. Nell’incontro fra i due volano battute che sono, nella miglior tradizione del vaudeville postmoderno, dei double entendre per strizzare l’occhio al fan più colto. Non parliamo poi di un paio di scene con Angelina Jolie e il cameo (forse) di Brad Pitt. Cose così, insomma.
Però possiamo raccontarla anche come una gigantesca metafora sull’evoluzione della storia culturale novecentesca della Cina continentale. Dopo la rivoluzione e la Seconda guerra mondiale il Partito comunista cinese si trovava nella difficile posizione di dover dominare un paese grande quanto un continente, abitato da centinaia di milioni di persone, con etnie, lingue, culture profondamente diverse (non tutti uguali, come sembrano a noi occidentali). Un problema che fu affrontato da Mao e dai suoi in vari modi, incluso in quello della lingua scritta, che poi era l’unico elemento che unificava la Cina imperiale.
La lingua scritta, gli ideogrammi, non sono legati alla fonetica e in Cina venivano e vengono usati da popolazioni che se parlano non si capiscono ma se scrivono si intendono in un attimo. E, come ci insegnano i libri di George Orwell – che non a caso pensava alla Cina e all’Unione Sovietica quando nel 1948 ha scritto 1984 (e di certo non a Google o a Facebook) – è plasmando la lingua in una neolingua che si cambiano le menti in profondità. Perché la lingua organizza i pensieri e rende le nostre coscienze quel che siamo. In questo fu la creazione del cinese semplificato, che massacrò una lingua millenaria ricchissima e molto espressiva, piena di nouances e di significati di primo, secondo, terzo, quarto e talvolta quinto livello. Con il vantaggio però che poi ci si capiva tutti, facendo anche partire un percorso di alfabetizzazione (ideogrammatizzazione?) che ha coinvolto alcuni miliardi di persone e ancora va avanti.
L’esempio della Cina è per dire che anche la Marvel ha fatto una cosa del genere, e si vede molto bene in Eternals. Nel caso della Marvel, infatti, è stata la trasposizione dei vari universi e multiversi dei comics nel Marvel Cinematic Universe a essere colpita da una semplificazione violentissima. Talmente forte che interi universi e intere categorie di significati sono semplicemente scomparsi. La grande semplificazione del Marvel Cinematic Universe ha anche ridotto la profondità dei personaggi, soprattutto le loro bassezze e le loro limitazioni o bruttezze, per renderli più palatabili e soprattutto comprensibili al pubblico del grande schermo e, sempre di più, anche a quello del piccolo schermo con le serie. Perché non crederete mica che basti fare una serie tipo WandaVision o Loki per poter dire che adesso ci sono personaggi Marvel “come nel fumetto”, vero? Ce n’è ancora di minestra da mangiare.
Però, al tempo stesso, sarebbe parziale limitarsi a dire che la grande semplificazione del Marvel Cinematic Universe è definitiva e appiattisce tutto, perché in realtà contiene anche i semi di un progressivo arricchimento e di una progressiva espansione e complessificazione. Siamo arrivati proprio a questo punto: il punto di svolta in cui si toglie il tappo e si scopre che il porto di Genova contiene molto più che Thanos e quattro alieni che saltellano su un asteroide assieme a Stan Lee. Molto di più che non dei “supereroi dei fumetti” come il cinema interpreta questo stereotipo. Molto di più, date retta.
La semplificazione era necessaria sia per far passare il filone dei film principali, e l’arco della storia che ha accompagnato i film degli Avengers sostanzialmente (La saga dell’Infinito), e per preparare una possibile espansione dell’universo andando a pescare tutto il buono e il meno buono che c’è nel magazzino Marvel. Una operazione figlia dell’enorme successo commerciale che ha generato budget mostruosi, che a loro volta hanno permesso di far lavorare attori sempre più importanti e quindi costosi (fondamentali per la riconoscibilità dei film) e dare spazio a effetti speciali e produzioni epiche.
Tutto questo per arrivare a un film come Eternals, che è il terzo della quarta fase e della nuova storia (ancora senza nome) dopo Black Widow e dopo Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli, ma prima del nuovo Spider-Man e della doppietta Doctor Strange e Thor che ci aspettano da qui alla prossima estate. Sappiamo che Marvel pianifica con un anticipo di 5-6 anni: praticamente mentre noi andiamo al cinema a vedere Eternals (andateci, vale la pena) Kevin Feige tutto da solo chiuso nella sua stanzetta come un novello Stan Lee scrive sul suo taccuino i titoli dei film fino al 2028 e quindi forse ben oltre la fase quattro.
In conclusione – e senza aver spoilerato – Eternals non è il film che vi cambia la vita ma è il film che cambia il passo alla serie del Marvel Cinematic Universe. Al di là dell’impatto sulla continuity dell’universo, dal punto di vista narrativo introduce la grande complessità, che costituisce la più grande scommessa fatta dalla Marvel e da Feige. Ricostruire la ricchezza e la complessità del mondo dei comics (che per ora proprio per questo sono paradossalmente esclusi dal continuum narrativo del Marvel Cinematic Universe) non attraverso cose troppo complicate in senso verticale ma aggiungendo storie e personaggi sino a che la complessità non si genera da sola.
Un po’, passatemi un’altra metafora, come i formicai, dove nessuna formica è in grado non solo di costruire ma neanche lontanamente di progettare o “pensare” l’idea di un formicaio, ma tutte le formiche insieme lo sanno pensare e fare grazie a comportamenti di intelligenza emergente.
Ecco, Eternals è questo: la scommessa che da una serie di storie sempre più ricche e articolate e legate tra loro, con personaggi che fanno archi psicologici e sviluppano tratti diversi da quelli iniziali (e addirittura invecchiano e alcuni muoiono) possa emergere qualcosa di più. Quando staccherete il biglietto del cinema per andarvi a godere nella saletta il film, e le due scenette-trailer conclusive (una post titoli principali e una in fondo in fondo, più importante ancora della prima, maledizione) è questo che vi dovrete chiedere: dal cinese semplificato sta emergendo un discorso ancora più ricco e sofisticato di quello che una volta si poteva scrivere e quindi pensare solo con il cinese classico?
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