
Quando, nel febbraio 1992, Kathleen Turner annunciò i cinque candidati al premio Oscar per il miglior film del 1991, La bella e la bestia fu il primo titolo della cinquina, e la sua candidatura venne accolta da una breve ma calorosa ovazione della sala, al contrario degli altri quattro film successivi. Era la prima volta che un film animato con tecnica tradizionale veniva nominato per il premio più importante, e sarebbe stata anche l’unica, negli oltre 90 anni di storia degli Oscar. La candidatura era il lieto fine, imprevisto e tutt’altro che scontato, di una lavorazione tra le più tormentate del canone Disney.
Basato sull’omonima fiaba francese (nella versione scritta da Jeanne-Marie Leprince de Beaumont), La bella e la bestia racconta la storia di Belle, una ragazza che finisce prigioniera della Bestia, principe trasformato in una creatura mostruosa da una strega che lo ha punito per la sua arroganza. Il castello della Bestia è popolato dalla servitù reale, tutta trasformata in oggetti antropomorfi. Per rompere la maledizione, Bestia dovrà trovare il vero amore. E l’intero castello, capitanato dal candelabro Lumiere, farà di tutto affinché Belle si infatui del padrone.
L’idea di adattare La bella e la bestia l’aveva avuta già Walt Disney dopo il successo di Biancaneve e i sette nani, anche se esiste un solo disegno che testimonia una qualche forma di ragionamento attorno all’ipotesi di un film, ed è un disegno dell’illustratore danese Kay Nielsen, in forze alla Disney negli anni Quaranta.

Una lavorazione complicata
A metà degli anni Ottanta, Jim Cox, che aveva lavorato alla sceneggiatura di Bianca e Bernie nella terra dei canguri, scelse di sviluppare la favola dopo aver letto il titolo da una lista di idee che lo studio aveva in incubazione. Scrisse un soggetto in cui furono stabiliti alcuni punti fissi: l’ambientazione francese, il padre di Belle inventore e il castello incantato, ispirato dalla versione cinematografica della favola diretta nel 1946 da Jean Cocteau.
Insoddisfatto, Jeffrey Katzenberg, presidente dei Walt Disney Studios, chiamò a lavorare sul copione Linda Woolverton, aspirante sceneggiatrice che aveva scritto un libro per ragazzi e lavorato ad alcune produzioni per i più piccoli (Ewoks, Cip & Ciop agenti speciali e una sceneggiatura, mai realizzata, con protagonista Winnie The Pooh). Nel frattempo, chiese a Richard Williams, che aveva diretto le animazioni dell’acclamato Chi ha incastrato Roger Rabbit, di lavorare al film. Williams rifiutò per dedicarsi a un progetto che covava da anni, The Thief and the Cobbler, ma raccomandando un suo pupillo, Richard Purdum.
Purdum, insieme al produttore Don Hahn, iniziò a lavorare all’estetica e agli storyboard con un piccolo gruppo di disegnatori. Ma quando i dirigenti videro una prima versione della storia bocciarono la direzione intrapresa. Lo stile, realistico e barocco, la narrazione inamidata, la storia cenerentolesca incentrata sui guai finanziari della famiglia di Belle: era tutto fin troppo vecchio stile, persino per una favola.
Purdum, in disaccordo con lo studio, si fece da parte. Nel 1989, Katzenberg reclutò Howard Ashman e Alan Menkel, che avevano appena terminato i lavori sul fortunatissimo La Sirenetta, per trasformare il progetto in un musical. Ashman e Linda Woolverton elaborarono un soggetto di cinque pagine con delle idee molto chiare sui personaggi, meno sulla trama, e dei punti dove inserire le canzoni (“personaggio entra nel castello, viene accolto dagli oggetti – canzone qui?”).

Dopo il rifiuto di altri registi, lo studiò offrì il film a Kirk Wise e Gary Trousdale, due animatori che avevano da poco fatto coppia per dirigere dei segmenti d’animazione dell’attrazione di Disney World Cranium Command. «Noi eravamo molto in fondo alla lista dei candidati» avrebbe raccontato Wise. «Cranium Command era stato un progetto problematico che risolvemmo in fretta e che fu considerato un successo. Credo che il loro pensiero fosse stato: “abbiamo un altro progetto problematico che va risolto in fretta, forse dovremmo provare con loro”.»
Wise e Trousdale ebbero l’incarico di consegnare il prodotto finito entro la stessa data che era stata fissata per Purdum, l’autunno del 1991, solo che a i due restava appena un anno e mezzo di tempo. In un tempo record, la trama fu stravolta, diventando il film che conosciamo oggi. A causa delle tempistiche strettissime, tutto il gruppo fu costretto a sacrificare la propria vita privata per non sforare le consegne. Trousdale dovette assentarsi dalla cena del Ringraziamento per andare a dirigere un turno di doppiaggio, e non era raro che Katzenberg mettesse in agenda incontri con la troupe alle sei di mattina (avrebbe fatto anche di peggio qualche anno dopo: per Aladdin, organizzò una proiezione di prova la vigilia di Natale).
In più, il rapporto tra Woolverton e il resto del gruppo non fu dei più facili: Woolverton non aveva dimestichezza con il processo di realizzazione di un cartone e si aspettava che ogni sua parola venisse animata fedelmente, invece di essere rielaborata dal gruppo degli story artist (quelli che disegnano sotto forma di storyboard il film), portando a continui scontri che furono appianati solo in parte – la sceneggiatrice non è mai comparsa assieme agli altri autori nelle svariate celebrazioni che si sono svolte nel corso degli anni, a dimostrazione di qualche ruggine mai sciolta. Tuttavia, il suo contributo portò alla nascita di una protagonista che, rispetto alla Ariel de La Sirenetta, è un personaggio più rotondo e coerente.
Ispirata dalla Jo March di Piccole donne interpretata da Katharine Hepburn, Belle è un’appassionata lettrice che veste d’azzurro in un paese colorato d’autunno e che incappa nella storia d’amore più che averlo come unico obiettivo di vita. Il suo sogno, come recita la canzone d’apertura Belle, è quello di vivere un’esistenza più ricca di esperienze rispetto a quella dei suoi concittadini. Secondo Woolverton, inizialmente la ragazza avrebbe dovuto coltivare il sogno di diventare un’esploratrice, ma gli scontri con la produzione – che avrebbe voluto una Belle più conforme agli stereotipi di genere – portarono al compromesso, passivo ma intellettualmente stimolante, della letteratura come passione dominante.
Moderno eppure artigianale
Di tutto La bella e la bestia, rimane impressa soprattutto la scena del ballo tra Belle e la Bestia, vestiti rispettivamente con un abito giallo e un completo blu reale, sulle note di Beauty and the Beast (in italiano È una storia sai). Mentre ascoltiamo la canzone, la cinepresa compie un movimento elegante che, dal soffitto della sala tempestato di affreschi e di un imponente lampadario, scende fino a girare attorno ai due personaggi, persi nel loro innamoramento. Questo abbraccio tra lo spettatore e i protagonisti fu possibile grazie alla creazione di uno spazio digitale in cui una cinepresa virtuale era libera di muoversi – al contrario della regia che contraddistingue l’animazione tradizionale, costretta alla bidimensionalità.

Sulla carta, La bella e la bestia sarebbe dovuto essere un film con importanti innesti di animazione al computer. Come racconta Jim Hillin, supervisore degli effetti speciali, i realizzatori erano infatti partiti con l’idea che tutto il castello, toccato dalla magia della strega, fosse in grafica computerizzata, ma dovettero ridimensionare le loro ambizioni quando furono messi di fronte all’evidenza che il team degli effetti speciali – composto da cinque persone – non avrebbe potuto gestire una tale mole di lavoro.
Poi pensarono di realizzare l’attacco dei lupi, e la conseguente fuga di Belle, con sfondi digitali, con l’intento di girare una sequenza viscerale e movimentata. I primi test non diedero però risultati positivi e l’attenzione del team si spostò su altre due scene: il ballo di Belle a della Bestia e lo scontro finale tra la Bestia e Gaston. Hillin assicurò ai registi soltanto il completamento della prima sequenza, che diventò alla fine l’unica candidata – anche se ci sono inserti di animazione al computer durante tutto il film, non così vistosi.
Wise e Trousdale commissionarono un dipinto della sala da ballo così da poter avere un riferimento visivo per la resa delle superfici e dissimulare la natura computerizzata dell’ambientazione. Fu un lavoro di grande perizia tecnica, perché in parallelo gli animatori dovevano disegnare i personaggi. James Baxter, animatore con uno spiccato animo tecnico, animò la coppia, mantenendo la prospettiva e i volumi sempre coerenti, e dando l’illusione che i corpi siano ancorati al pavimento, un compito difficile quando la telecamera si muove nello spazio.
Qualora i computer non fossero riusciti a gestire nemmeno quell’unica scena, i tecnici avevano pronto un piano di riserva: Belle e la Bestia avrebbero danzato al buio, illuminati da un occhio di bue che li seguiva nel movimento, permettendo comunque una certa dinamicità della ripresa. Invece, grazie al contributo di tutti, la sequenza andò in porto, diventando una delle più memorabili del film.
La bella e la bestia è un film tecnicamente moderno eppure artigianale, in cui Disney non aveva ancora preso le misure del processo produttivo. Complice anche il breve periodo di lavorazione, alcune delle animazioni lasciano a desiderare, e i personaggi di contorno non sono graficamente coerenti tra una scena e l’altra (questo perché venivano animati da chiunque stesse lavorando a quella scena e non c’era un supervisore, una squadra apposita o dei modelli condivisi, tutte cose che Disney avrebbe implementato con i film successivi). Questo non significa che, nel complesso, sia animato male, anzi, la Bestia, supervisionata da Glen Keane, è una delle grandi prove attoriali dell’animatore.
Non solo gli autori trovarono la quadratura tra un design mostruoso e uno che comunicasse umanità, mischiando gli occhi umani con la testa di un bufalo, il manto leonino, le corna caprine, le orecchie da mucca e la bocca da cinghiale, ma Keane fu in grado di far recitare il personaggio infondendo tutta la gamma di emozioni richieste dal copione. Il suo pezzo forte resta però un’altra scena: la trasformazione in umano, che doveva essere una trasformazione fisica con la forza evocativa di una trasformazione spirituale.
Keane disse che quello «era il momento che aspettavo da tutta la lavorazione, non vedevo l’ora di animarla, come un dolce a fine pasto. Il problema fu che mi ritrovai a lavorarci all’ultimo, era come se il ristorante stesse chiudendo e io avessi solo cinque minuti per gustarmelo». L’animatore riuscì a strappare una deroga al produttore Don Hahn e si mise a studiare la copia de I borghesi di Calais, gruppo di sculture di Rodin conservate al Norton Simon Museum di Pasadena, e i Prigioni, un gruppo di statue in stile non finito scolpite da Michelangelo.
La produzione fu attraversata dalla malattia di Ashman, che stava combattendo da alcuni mesi con l’aids. Mentre lavorava a La bella e la bestia, le sue condizioni si aggravarono e, sempre più fragile, costrinse il gruppo di lavoro a visitarlo a New York, dove viveva, per lavorare al film. Solo in pochi però sapevano della malattia – il paroliere temeva di essere stigmatizzato, o che qualcuno vedesse di cattivo occhio la sua associazione al marchio Disney. Con fatica, Ashman fece in tempo a completare le canzoni e a supervisionarne la registrazione, per poi morire nel marzo 1991. Nel documentario Howard Alan Menkel disse che la lavorazione rappresentò «un contrasto così forte, la gioia e la magia di quei testi e il fatto che Howard stesse guardando in faccia la morte all’età di 39 anni».

Un’idea folle e audace
Il 29 settembre 1991 era la notte d’apertura della 29esima edizione del New York Film Festival. E gli spettatori – cinefili e critici scafati abituati a vedere le opere di Leos Carax, Atom Egoyan, Theo Angelopoulos e Krzystof Kieslowski – stavano per assistere a una proiezione unica nel suo genere. Gary Kalkin, uno dei responsabili del marketing di Disney, aveva avuto l’idea, folle e audace, di proiettare La bella e la bestia in una versione incompleta. Il film era nelle fasi finali di lavorazione, con più della metà delle scene ultimate e altre in varie fasi di produzione.
Alcune erano a malapena abbozzate, di altre esistevano solo dei concept art con i dialoghi doppiati, e di altre ancora, incluso il climax finale, c’erano solo le animazioni a matita, non rifinite e in bianco e nero. Si potevano vedere le macchie di caffè e gli appunti degli animatori (“il cucchiaio va colorato come fosse nuovo”, “chiamare Debby all’interno 4”). A ogni cambio di inquadratura, il film si trasformava in un disegno statico, in un’animazione abbozzata o in una scena vibrante di colori, dando l’impressione di essere una ricombinazione sperimentale di media visivi. Mutava, evolveva e regrediva come un’adolescenza zizgante.
Inoltre, il fatto che il lavoro fosse in fieri toglieva la patina cartoonesca e permetteva al pubblico, quello più prevenuto rispetto al linguaggio dell’animazione, di guardare il film con meno preconcetti possibili, scoprendo quanto fossero complesse queste produzioni, quanta arte ci fosse al loro interno e quanto laborioso fosse il processo decisionale. Proprio per questo, la versione del film proiettata al festival di New York conteneva scene non finite che in realtà erano già state completate, per aumentare quel sapore di work in progress.
I dirigenti Disney erano convinti della qualità del film, sapevano che nessuno l’avrebbe odiato e che al massimo qualche commentatore l’avrebbe trovato discreto e si sarebbe domandato il perché di quella proiezione. Due anni prima, La Sirenetta aveva portato gloria e onori allo studio, ma il successivo lungometraggio, Bianca e Bernie nella terra dei canguri, era stato un flop di pubblico e critica. La bella e la bestia sarebbe stato il banco di prova per capire se La Sirenetta era stato un bellissimo incidente o l’inizio di una nuova fase. Nessuno ebbe nulla da ridire e il debutto in società del film fu accolto con grande entusiasmo. Kirk Wise ricordava nel documentario Il risveglio della magia che il pubblico «applaudì come se fosse stato uno spettacolo dal vivo a Broadway».
«Fu un momento rivelatorio» disse Gary Trousdale. «Capimmo che forse avevamo qualcosa di grosso tra le mani.» L’esperimento calcolato diede il via a un passaparola tra addetti ai lavori e stampa capace di portare La bella e la bestia, come una specie di profezia che alimentava sé stessa, a ottenere la candidatura all’Oscar per il miglior film, primo e unico caso per un lungometraggio in animazione tradizionale. Il primato fu raggiunto grazie alla fattura del film, che sorprese tutti, e al lavoro di convincimento della macchina promozionale Disney.
Dopo La bella e la bestia molti altri film furono ingegnerizzati puntando all’Oscar (Pocahontas, Il gobbo di Notre Dame) ma nessuno di loro centrò l’obiettivo. Non erano abbastanza belli, abbastanza acclamati, abbastanza di successo, o con le canzoni giuste. Le stelle si sarebbero allineate solo per altri due cartoni, in digitale però, Up e Toy Story 3, ma da quando esiste la categoria-ghetto “miglior film d’animazione”, le candidature (per non parlare delle vittorie) in quella di miglior film sono miraggi consolatori.
Tutto ciò non toglie nulla alla qualità delle pellicole, ma è indicativo, un po’ come succede per i fumetti quando finiscono oggetto del discorso pubblico, di quanto siano ancora considerati un’espressione artistica con l’asterisco, un linguaggio con il “per il suo genere” alla fine. “È un bel film, per il suo genere.” La bella e la bestia, per un momento, fece sperare agli appassionati che l’animazione sarebbe diventata, per tutti, bella, senza genere.
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