
Oops, Mamoru Hosoda did it again. Un altro film magnifico, un altro spettacolo mozzafiato, una goduria per gli occhi e per lo spirito. Belle è il titolo internazionale di Ryu to sobakasu hime, ovvero “Il drago e la principessa con le lentiggini”, settimo lungometraggio del regista, trionfatore al festival del cinema di Cannes nel 2021, dove pare abbia ottenuto quattordici minuti di applausi (più del film di Nanni Moretti, per dire), che per chi monitora l'”applausometro” significa un risultato sorprendente, da top ten storica.
Il film, che arriverà nei cinema italiani questa primavera, narra la storia di Suzu, liceale abbastanza disastrata, fortemente segnata dalla scomparsa della madre, avvenuta quando aveva solo sei anni. Da allora non riesce più a cantare, sua grande passione, e vive chiusa in se stessa, quasi non rivolgendo parola al padre. Un giorno, dopo l’ennesima crisi, decide di crearsi un avatar dentro U, un social network con cinque miliardi di iscritti che è una sorta di mondo parallelo in grado di rivelare la vera interiorità delle persone.
Qui assume l’identità di Belle (inizialmente solo “bell” perché “suzu” in giapponese significa “campanella”) e diventa una cantante dal successo planetario. Presto però sulla sua strada arriva il “ryu” del titolo originale, ovvero “il drago” o “la bestia”, un personaggio oscuro che i sorveglianti di U vogliono eliminare. Belle stringerà con lui un rapporto complicato. Ma qual è la vera identità di questo mostro, dal mantello pieno di lividi e dall’aspetto spaventoso?
Basta qualche momento dopo la comparsa del personaggio-drago per pensare che il film possa essere una rivisitazione molto libera de La bella e la bestia, o perlomeno del suo adattamento Disney. Le rose e la scena del ballo sono un déjà-vu straniante e inaspettato, in cui però il film non si esaurisce, e va ben oltre la storia che tutti già conosciamo. Il regista confessa di essere un grande amante della fiaba originale francese del Diciottesimo secolo, e il suo è un vero e proprio omaggio, tanto a quella quanto al classico Disney.
Non solo. Un’altra ispirazione importante proviene dal racconto del 1942 Storia di un poeta che si trasformò in tigre di Atsushi Nakajima, tratto da una leggenda cinese del 1300, in cui il protagonista si trasforma a causa dell’orgoglio e dell’arroganza che albergavano in lui. La “bestia” è dunque solo una sfaccettatura dell’animo umano e non la sua controparte negativa da eliminare.
L’impianto è simile a quello di Summer Wars (film del 2009 dello stesso Hosoda), soprattutto nella creazione di un mondo virtuale parallelo sconfinato e deflagrante, abitato da legioni di pupazzetti kawaii e cascate di colori. Che poi, a pensarci, è la stessa cosa che accade anche in The Boy and the Beast (2015), in cui parte della storia si svolge nel regno da cui proviene la bestia del titolo. I temi cari a Hosoda ci sono tutti, dunque: un/una giovane protagonista in crisi, una dimensione parallela che scorre accanto a quella reale e soprattutto la ricerca della propria identità.
Mai come stavolta, con il pretesto delle maschere (vere e proprie, in questo caso) create dai social network, Hosoda sviscera il complesso dualismo essere/apparire, ribaltando però il senso comune, che vuole che internet sia solo il luogo della forma e mai della sostanza. U è un mondo in cui la minaccia più grande è essere “unveil”, ovvero disvelare la propria origine, la vera identità umana, ma è anche un meccanismo in grado di rivelare l’io nascosto delle persone e far emergere quello che giace in profondità, che sia positivo o negativo.
Una lettura affascinante del medium internet, che Hosoda non demonizza ma dipinge, alla fine dei giochi, come il luogo in cui c’è chi confessa il proprio dolore e c’è chi porge una mano al prossimo per alleviarlo, quel dolore. Come in Summer Wars, la realtà virtuale è solo il pretesto per mettere in moto il processo di crescita della protagonista, che si ritrova ad affrontare i suoi demoni e a doverli superare, anche per il bene altrui.
Lo stesso regista ha dichiarato: «Tante opere mostrano internet come una distopia, perfino Chaplin in Tempi moderni si mostrava spaventato dal progresso, quando compare qualcosa di nuovo è facile andare all’attacco. Io credo che ci sia bisogno di dare speranza alle giovani generazioni e mostrare che esiste un utilizzo positivo della rete. Internet può dare fiducia in se stessi, può rivelare problemi tenuti nascosti dentro casa, può essere un megafono per chiedere aiuto».

Non tutto fila perfettamente, in particolar modo temi “nuovi” e purtroppo attuali come il cyber-bullismo e la violenza domestica sono trattati in maniera forse troppo sbrigativa. Ma la scrittura del film impressiona, tanto per la scorrevolezza quanto per la spontaneità. Al punto che forse la scena più memorabile non è tra quelle ambientate nello sgargiante mondo di U, ma un esilarante scambio tra amici – in fermo immagine – dentro una banale stazione ferroviaria della banalissima cittadina di provincia in cui vivono i protagonisti.
La realtà sorprende più dei mondi fantastici creati dalla tecnologia. Speriamo che la traduzione e l’adattamento italiani si rivelino all’altezza. Altrettanto importante è la componente musicale. Belle è pur sempre una cantante, e la colonna sonora del gruppo Millennium Parade incarna alla perfezione lo spirito del film, trascinando il pubblico quando deve trascinare e incantandolo quando deve incantare.
Visivamente impressionante, il film mescola tecnica tradizionale e CGI e impiega con arguzia la grafica dei social e dei videogiochi, riuscendo a sovrapporre i linguaggi con naturalezza. Lascia letteralmente a bocca aperta l’esplosione di luci e colori di U, che ricorda la dimensione onirica e le parate di pupazzi di Paprika, il capolavoro dello scomparso Satoshi Kon. Il castello della bestia fa tornare alla mente quello errante di Howl e forse non è una coincidenza. Proprio Hosoda sarebbe dovuto essere il regista di quel film Ghibli, ma lasciò la produzione nelle fasi iniziali (dopo essere stato arruolato nientepopodimeno che dal leggendario deus ex machina dello studio, Toshio Suzuki) perché riteneva incompatibile la sua visione con quella del capo dei capi, Miyazaki.
Quello che all’epoca sembrò un fallimento epocale, è stato la sua fortuna. «Se avessi fatto Il castello errante di Howl come voleva Studio Ghibli, credo che la mia carriera sarebbe finita. Quando ho lasciato il progetto hanno pensato tutti che non avrei più combinato nulla, ma è stato un bene che sia riuscito a fare le cose a modo mio, invece che farle nel modo in cui voleva Miyazaki.»
Considerando che nel 2006, due anni dopo Howl, uscì La ragazza che saltava nel tempo, film per cui Hosoda fu definito “il nuovo Miyazaki”, direi che è stato decisamente un bene.
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