
All’inizio di novembre del 2019 i lettori giapponesi hanno trovato su Shūkan Young Jump il “manga della nostalgia” di Jun Mayuzuki, già nota ai lettori italiani per Come dopo la pioggia (Star Comics). Come altro definire Kowloon Generic Romance, da noi pubblicato da J-Pop? È la nostalgia, non l’amore o l’elemento del mistero, l’ingrediente della storia ambientata in un pezzo quasi metafisico e oggi non più esistente di Cina-Hong Kong: una terra di nessuno lasciata per quarant’anni nella più completa anarchia, cioè la città murata di Kowloon.
Una breve digressione, poi torniamo a Mayazuki e al suo notevole lavoro. Kowloon Walled City, nacque come antichissimo forte durante la dinastia Song per vigilare sul commercio del sale, quando ancora l’Europa stava affogando nell’Alto Medio Evo, nel 1898 fu data in affitto dall’Imperatore cinese agli emissari della regina Vittoria, a capo dell’Impero britannico. È parte dei Nuovi Territori nella penisola di Kowloon, nella baia di Hong Kong. Durante gli anni successivi, per uno scherzo della storia, la città murata rimase fuori dalla giurisdizione sia cinese che inglese, trasformandosi in un complesso urbano totalmente anarchico e dominato dalle Triadi cinesi. Questo pezzetto di Kowloon, grande come due campi da calcio, si è letteralmente costruito da solo per germinazione spontanea e incontrollabile, con file di appartamenti sovrapposti e al di fuori di qualsiasi regolamentazione e pianificazione urbanistica.
Alla fine degli anni Ottanta del ventesimo secolo la città murata contava 33mila residenti ufficiali (e forse altri 10mila mai registrati), cosa che l’ha resa il singolo posto più densamente popolato al mondo. Non poteva durare. Tra il 1987 e il 1993 è stata demolita dagli inglesi, un ultimo colpo di belletto prima di restituire Hong Kong alla Cina. Da allora al suo posto c’è un parco.
Da sempre, soprattutto per gli stranieri (sia asiatici che europei), la città murata è stata una meta pittoresca e, dopo la sua distruzione, fonte di nostalgia e reminiscenze di vario genere. Due fotografi, Greg Girard e Ian Lambot, hanno passato cinque anni documentando minuziosamente i mille aspetti della città murata quando ancora era un crocevia di vite e di storie. All’inizio senza conoscersi, poi lavorando assieme e conquistando lentamente anche la fiducia dei residenti. Sino a che, nell’aprile del 1993, hanno dato alle stampe quello che è considerato uno dei più bei libri di fotografia urbana di sempre: City of Darkness: Life in Kowloon Walled City.
Il libro, data l’epoca, è nato esclusivamente con tecnologie analogiche (dagli scatti fotografici su pellicola sino alle lastre per la stampa delle singole pagine) ed è rimasto in catalogo per venti anni. Un “long seller” come pochi. La prima edizione di 1.800 copie è finita in 18 mesi, poi ne è seguita un’altra di 3.000, e poi un’altra ancora di 1.800, facendo crescere in modo lento ma costante il totale, per due decenni. Non ha reso ricchi i suoi due autori, ma li ha trasformati in due santi protettori del reportage urbano.
City of Darkness è la storia di un insediamento urbano anarchico e globalizzato, sul crinale di una trasformazione epocale, punto di incrocio tra Oriente e Occidente, di mescolanza, testimone della costante ricerca di un altro modo di vivere, forse non migliore ma sicuramente diverso. L’incarnazione di un’allegoria perfetta per raccontare il futuro dell’umanità con lo sguardo giapponese di Mayuzuki che, con il suo lavoro, trascende completamente il piano anastatico e si allontana decisamente dalla Kowloon “storica”.
La sua è una città murata molto discutibile dal punto di vista filologico: è più un quartiere di una Tokyo densamente abitata. Ma un quartiere in cui si intrecciano due storie d’amore e un numero particolarmente rarefatto di persone, che viaggiano sul filo dell’incapacità di esprimere i propri sentimenti (uno dei temi portanti dei manga da sempre) ma anche dell’impossibilità di ricordare, del bisogno di una vita minimamente stabile in un universo finto, artificiale, costantemente in evoluzione anche contro la loro volontà.
Kujirai e Kudo sono monadi, soggetti e oggetti psichici chiusi in se stessi e incapaci di mettersi in relazione con il resto del mondo, ma percepiscono lo stesso che qualcosa sta cambiando forse per sempre, che qualcosa non torna, che qualcosa è profondamente diverso dall’ideale di vita minima che vorrebbero interpretare. Soprattutto Kujirai, più esposta sia con un corpo di cui non è apparentemente consapevole (concessione al pubblico maschile più voyeur ma anche metafora di una incapacità di percepirsi e al tempo stesso delle insicurezze esistenziali non solo femminili) sia con una costante mutazione della realtà attorno a lei, peggio che in Matrix o in The Truman Show.
Spettacolare per come è giocata in sordina, piano, quasi impercettibile, è la sua inspiegabile “guarigione” dalla miopia astigmatica (male che affligge tipicamente gli asiatici: una sorta di epidemia che tocca il 95% dei giapponesi, cinesi e coreani) che le fa lasciare gli occhiali. Poi rimessi però per non esporsi e diventare “diversa”, uscendo dal guscio del conformismo che la tiene vicina a Kudo.
Ci sono molte cose che si possono trovare dentro Kowloon Generic Romance, il “manga della nostalgia” di Jun Mayuzuki, incluse alcune tavole di una rarefatta bellezza, quasi soffocanti nella mancanza di senso e direzione, improvvisi abissi in cui tutti sprofondano per poi riprendere dopo una pagina di cesura. Non arriverà probabilmente a toccare alcuni mostri sacri degli ultimi anni come Billy Bat, di cui abbiamo parlato diffusamente e che ha potuto giocare su più piani contemporaneamente una bellissima partita artistica ed espressiva, ma lo stesso arriva molto lontano, almeno viste le premesse dei primi volumi. Una buona lettura.
Kowloon Generic Romance 1 e 2 (serie in corso)
di Jun Mayuzuki
traduzione di Ilaria Melvi
J-Pop, 2021
brossura, 184 pp., b/n
6,50 € a volume (acquista online)
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