
The House, disponibile su Netflix, è un’opera antologica che raccoglie tre mediometraggi animati della durata di circa mezz’ora l’uno, realizzati con la tecnica dello stop motion o animazione a passo uno. I nomi dietro questo progetto così affascinante e atipico sono Emma de Swaef e Marc James Roels, Niki Lindroth von Bahr, Paloma Baeza, quattro giovani cineasti belgi che hanno proposto le loro storie attraverso le tecniche che utilizzano abitualmente e concentrandosi su un argomento in comune.
Si inizia con il primo episodio, che si svolge in un ipotetico Ottocento, dove a una famiglia di animali antropomorfi, povera e con una casa decadente, è offerta un’abitazione sfarzosa da parte di un architetto misterioso e mefistofelico. Il secondo episodio ha un’ambientazione contemporanea: un topo finisce la ristrutturazione della suddetta abitazione, ma nel cercare di venderla cade vittima dell’infestazione di insetti e dell’ossessione per quel luogo che pare avere un potere malefico. Il terzo episodio si svolge in un futuro in cui un’alluvione ha coperto di acqua ogni cosa. Sopravvive la casa, all’interno della quale vi abitano dei gatti. La proprietaria vorrebbe finire i lavori ma senza soldi non sa come fare. Nel frattempo, l’acqua si alza sempre di più.
L’animazione a passo uno, nonostante l’evoluzione di altre forme animate (CGI in primis) continua a conservare un fascino tutto suo e, fortunatamente, ad avere una piccola fetta di mercato. The House, in particolare, è figlio di una lunga tradizione che passa attraverso la mastodontica opera di Jurij Norštejn, uno dei maestri del cinema d’animazione russo, autore di Il riccio nella nebbia e Il racconto dei racconti.
The House si ispira tanto alle atmosfere sognanti e a tratti fiabesche di Norštejn, quanto al perturbante cinema animato di Jan Švankmajer, altro maestro indiscusso della stop motion di derivazione surrealista, simbolo della scuola ceca. O anche ai fratelli Quay, tra i più importanti registi inglesi di animazione a passo uno, che hanno ispirato anche David Lynch.
Cito questi nomi non a caso perché The House è, a ben vedere, sintesi di queste suggestioni, portate però su un piano di linguaggio e messa in scena più vicino alla sensibilità dello spettatore contemporaneo. Nonostante sia un film affascinante – a suo modo poetico e allo stesso tempo disturbante – The House difficilmente avrebbe potuto avere una distribuzione sensata, specie in questo periodo, quindi lode a Netflix per aver avuto il coraggio di produrlo.
Pur essendo tre storie diverse, con personaggi diversi (umani o animali che siano), contesti scenografici e temporali differenti, le tre storie che compongono The House sono accomunate dai temi che affrontano oltre che dalla presenza della casa, comun denominatore che è simbolo di ossessione, l’ossessione per un luogo stabile, caldo, in cui potersi sentire protetti e amati. Ma è possibile un luogo simile in un mondo in cui tutto tende a sgretolarsi, ad atomizzarsi, in cui la Storia e la società fanno pressioni tali da restituire all’homo contemporaneus una sensazione persistente di solitudine e smarrimento?
Nel primo episodio, And Heard Within, A Lie is Spun (E dentro di me, si intesse una menzogna), due genitori anelano alla casa perfetta, indice di benessere e sicurezza. Ma si dimenticano di ciò che conta davvero, le loro figlie che si trovano a vagare nei corridoi onirici e infiniti, fino a trovare una via d’uscita, una fuga che è speranza. Per la scelta fotografica, l’uso dei colori e del set, questo episodio è forse il più riuscito, ci sono echi di Lynch, ma anche inaspettatamente di Kubrick, nella presenza ingombrante di una carrozza nel mezzo di una stanza come l’astronave nella stanza arredata in stile impero di 2001: Odissea nello spazio, passando per Shining (la cui fuga di Danny sotto la neve è citata nel finale dell’episodio).
Il secondo episodio, intitolato Then Lost is Truth, that Can’t be Won (Perduta è la verità che non si può vincere) è invece il più debole. Nella storia di un uomo ossessionato e del suo ritorno allo stato brado, si racconta il lato negativo dell’ossessione, quello che ci porta a perderci, a dimenticare la felicità. Sin da subito gli autori suggeriscono che la fuga non è da intendersi come scappatoia ma come soluzione: è una frattura, una presa di posizione, un accettare le cose e andare avanti.
Ed è da questo concetto – che è anche il fulcro dell’intero film – a prendere le mosse il terzo episodio, quello conclusivo, intitolato Listen Again and Seek the Sun (Ascolta di nuovo e cerca il sole). Le sfumature comico-sarcastiche si fanno più accentuate, si riducono gli elementi inquietanti e perturbanti, ma predomina un senso nostalgico di speranza verso il futuro, un desiderio poetico di apertura. Nella storia diretta da Paloma Baeza, si compie il cerchio iniziato con le due bambine in fuga in un contesto di fine, apocalittico, con l’acqua che, in seguito a un’alluvione, ha ricoperto tutto.
Partire da lì, dalla consapevolezza del dolore e del cambiamento come paradigma per la felicità: è questo che sembra suggerire The House di Netflix, opera intrigante, visivamente meravigliosa e molto più contemporanea di quanto possa sembrare.
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