
Tra le nuove serie sfornate da Bonelli negli ultimi mesi, 10 ottobre di Paola Barbato e Mattia Surroz è forse quella più difficile da inquadrare, quella più sofisticata e più “rischiosa”, per la profondità dei temi e dell’approccio. Un titolo che, partendo da un layout vintage che richiama una tipica ambientazione USA degli anni Cinquanta (con annessa citazione da Norman Rockwell in quarta di copertina), sviluppa un’idea sicuramente audace, che non sfigurerebbe in una puntata della serie fantascientifica Black Mirror.
In copertina, un bambino dall’aria sconsolata tiene in mano un manifesto dal tono quasi religioso, che recita «La morte è mia amica, e cammina con me!». Appeso al collo del ragazzino è visibile uno strano amuleto bianco che, come scopriremo, tiene registrata tutta la sua vita, comprese le informazioni relative alla sua prossima morte. Perché, in questo mondo perfetto, ogni individuo ha una data di “scadenza”: un momento preciso, programmato sin dalla nascita, in cui la vita deve interrompersi, nel nome di un equilibrio superiore.
Una distopia, o forse un’utopia, nella quale l’umanità ha raggiunto un tale grado di evoluzione da sconfiggere le malattie, l’inquinamento, la guerra, la disparità tra ricchi e poveri. In questo mondo perfettamente in equilibrio, tutto è regolato preliminarmente, compresa la vita. Non si muore più per caso: non si muore sul lavoro, o in famiglia, o affogati in mare, o per Covid. Anche il suicidio non sembra contemplato.
L’idea della Morte è complicata da maneggiare. Come scrive Vitaliano Trevisan in I quindicimila passi, «In ogni cosa, in ogni essere vivente, in ogni situazione, in ogni opera d’arte degna di questo nome incombe la presenza della morte». Scriverne è complicato, perché – quando non è semplicemente la scintilla che accende un motore narrativo – la morte riguarda il nostro stare nel mondo. La morte segna il nostro confine, il limite invalicabile del nostro desiderio. Non è qualcosa da cui ci si può liberare, o ribellare, non è un’opinione o una fake news. Come dice Trevisan, è una cosa che ci riguarda sempre.
L’intuizione della sceneggiatrice Paola Barbato è molto potente, nella sua semplicità, perché immagina che il controllo sociale, che ad oggi si estende all’ambito del lavoro e ormai anche in parte del tempo libero, possa abbracciare anche il diritto di vita e di morte dell’individuo. Il mondo qui rappresentato è un eterno “memento mori”, una natura morta costantemente volta a ricordarci la nostra finitezza. È la fine degli spoiler: sappiamo che moriremo tutti.

Se da duemila anni la società ha imparato a nascondere l’idea della morte, l’ha relegata in ambiti e riti specifici con la promessa di una vita migliore, eterna, nell’aldilà, questa nuova distopia mette invece la Morte in copertina, prima di ogni altro valore o spinta sociale: prima del denaro, del lavoro, della libertà, di Dio.
Come una nuova religione, la Morte sviluppa le sue narrazioni e le sue regole. Le nascite sono regolamentate, e ogni individuo viene programmato per morire a una data età: 3, 11, 26, 38, 57, 70 anni. Altra regola: nessuno è a conoscenza della propria data di scadenza. L’enzima che ci ucciderà viene inserito durante il concepimento in modo casuale, ed è studiato per scattare il giorno del nostro compleanno, provocando una dipartita indolore e puntuale. Questa consapevolezza ci stimola a fare meglio e ci rende felici e produttivi.
Il compleanno, quando coincide con possibili date di scadenza, è un evento particolarmente importante da celebrare: il “funerale” prevede l’utilizzo di una carrozza speciale che serve a portare al cimitero l’ipotetica bara. Infatti questo mondo perfettamente green non prevede automobili, solo carrozze trainate da cavalli, silenziose e ecologiche. Il segno di Mattia Surroz descrive con precisione questo piccolo paradiso borghese, fatto di villette con giardino che ospitano famiglie eleganti, ordinate, senza macchie apparenti.
Surroz (che si occupa anche dei colori) è bravo a unire il realismo delle situazioni e degli scenari a una dinamicità e un’espressività quasi da cartoon. La provincia americana degli anni Cinquanta è lo spazio immaginario ideale per questo Eden a rovescio, una specie di Mad Men ripulito in cui il Trapasso ha preso il posto della Pubblicità.
Ma non tutto va come previsto, ovviamente, e si intravedono crepe profonde in questo mondo perfetto. Richie Walls, il ragazzino che abbiamo visto in copertina, il giorno 10 ottobre compirà 11 anni, ma i suoi genitori non gli hanno ancora organizzato il funerale. Sono rimasti sconvolti dalla scomparsa del primo figlio Douglas, “scaduto” proprio a 11 anni. La madre, troppo fragile, non è pronta ad affrontare un nuovo lutto in famiglia, e il padre per proteggerla tende ad allontanare la fonte di possibili ulteriori traumi.

L’unica figura che offra a Richie un po’ di ascolto è il vicino di casa, il signor Wilford Cole, un uomo solo che attende a sua volta la scadenza lo stesso 10 ottobre. Non si è mai sposato, non ha fatto carriera, si è preso cura di sua madre finché è morta. La certezza di morire lo ha accompagnato per tutta la vita, finché non è rimasto solo e incapace di vivere. Wilford Cole non ama la morte, anzi: l’amicizia forzata con la morte gli ha impedito di conoscere la vita.
È attraverso l’insoddisfazione di Cole che iniziamo a intravedere i segnali di un piano di fuga, lo sviluppo di un progetto vago di liberazione dal destino segnato che capiremo meglio, forse, nei prossimi episodi. Tramite lo sguardo del piccolo Richie, ben caratterizzato dal segno espressivo di Surroz, veniamo a conoscenza della vita di Cole, del suo stare nel mondo: forse proprio questa comune vicinanza con il momento della morte rende più facile parlarne.
Cole aspira a una libertà che non sembra avere a che fare con la morte (è impossibile liberarsi della morte terrena), ma piuttosto con la solitudine. La salvezza che cerca è forse un modo per non essere mai più solo.
Difficile parlare della morte, dicevamo. Più il tema è alto più si rischia di scivolare nella banalità, nella semplificazione, creando facili parallelismi con la nostra realtà di ansia pandemica o, peggio, cadendo nell’errore che fa Cole quando crede che la morte si possa nascondere, o fuggire. Nei prossimi episodi vedremo come Barbato e Surroz porteranno avanti questo discorso complicato: quale libertà cercano i ribelli come Wilford Cole? Quale mondo immaginano?
La sensazione è che il “memento mori” descritto in questo mondo impeccabile lasci il posto a un più edificante “memento vivere”: ricordati di vivere ogni giorno, cogliendo la bellezza di un mondo imperfetto e imprevedibile. Sarebbe un buon auspicio, tutto sommato.
10 ottobre 1
di Paola Barbato e Mattia Surroz
Sergio Bonelli Editore, novembre 2021
cartonato, 72 pp., colore
16,00 € (acquista online)
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