20 fumetti da ricordare usciti nel 2002

2002: l’anno in cui in Italia e in undici altri Paesi europei entrò in circolazione l’Euro, ma anche dell’Editto Bulgaro dell’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi nei confronti dei giornalisti Enzo Biagi, Michele Santoro e del comico Daniele Luttazzi, nonché dell’ultima gara del trottatore italiano Varenne, tra i cavalli più vincenti della storia.

Ma – in ambito fumettistico – il 2002 fu anche l’anno della scomparsa di due grandi disegnatori come John Buscema e Jorge Zaffino, oltre che dell’uscita di alcuni fumetti di cui ci ricordiamo come se fossero stati pubblicati ieri (e in alcuni casi può risultare vero, visto il ritardo che a volte avviene tra le edizioni originali straniere e quelle italiane, senza contare il mercato delle riedizioni).

Per rinfrescare la memoria abbiamo voluto selezionare 20 pubblicazioni a fumetti del 2002 che ancora oggi, nonostante gli anni trascorsi, la redazione di Fumettologica non riesce a dimenticare. Non (solo) i migliori, non (solo) guilty pleasure, ma quelli più indicativi della nostra memoria, un po’ perché davvero rappresentativi di quell’annata editoriale, un po’ perché la loro influenza si è estesa ben oltre il solo 2002. Chissà: li ricorderemo ancora tutti tra vent’anni? E voi?

Fables, di Bill Willingham, Mark Buckingham e altri

fumetti 2002 fables

I personaggi delle fiabe e del folklore tradizionale hanno da tempo abbandonato le loro terre natie per trasferirsi nel nostro mondo. Battezzata la loro comunità clandestina come Favolandia hanno scelto come nuova casa una serie di lussuosi complessi residenziali di Manhattan. Tutti i protagonisti impossibilitati a mimetizzarsi tra la gente – i Tre Porcellini, per esempio – hanno preferito spostarsi verso Albany, organizzandosi in una sorta di enorme fattoria. Da questo presupposto gli autori Bill Willingham e Mark Buckingham hanno costruito una lunga serie – 150 numeri, senza contare i vari spin-off – in grado di unire i generi più crudi con una reinterpretazione spietatamente realistica dei personaggi di fantasia.

Nel primo arco narrativo, per esempio, vediamo il Lupo Cattivo indagare su un ferale omicidio. Il cattivo delle favole per eccellenza, forte della sua capacità di trasmutarsi in umano e ormai redento dai suoi crimini passati, deve capire chi è il vero assassino di Rosarossa. L’uxoricida seriale Barbablù o lo sterminatore di giganti Jack? Nel secondo arco narrativo Weland il fabbro deve invece gestire una rivolta alla fattoria, dagli sviluppi da thriller quanto mai imprevedibili.

Fables arrivò sugli scaffali delle librerie statunitensi nel 2002, un momento particolarmente propenso per le riletture realistiche di miti e leggende. Solo l’anno prima Neil Gaiman vinceva tutto il possibile con il suo American Gods, inaugurando un vero e proprio filone narrativo che dura ancora oggi grazie a titoli come The Wicked + The Divine. Fables fu più sanguigno e crudo, senza troppi fronzoli. Gran parte del fascino della lettura deriva da scoprire come i personaggi di letture prevalentemente legate all’infanzia abbiamo trovato il loro posto nel mondo degli adulti. Totalmente scritta da Bill Willinhgham e disegnata per la gran parte da Mark Buckingham – 110 albi su un totale di 150 – la serie ha raccolto negli anni qualcosa come 14 Premi Eisner Awards, diventando una delle serie più insignite di sempre del prestigioso premio.

Una menzione va alle cover disegnate da James Jean, all’epoca ventitreenne neo-laureato presso la School of Visual Arts di New York e ora pittore affermato nel mondo dell’arte e della moda. Se il tratto secco e ben definito di Buckingham si sposava alla perfezione con le crude sceneggiature di Willinhgham, l’apporto del disegnatore taiwanese risultava fondamentale per restituire a tutta l’operazione un legame forte e indissolubile con un mondo etereo e totalmente di fantasia.

(Marco Andreoletti)

Il gatto del rabbino, di Joann Sfar

fumetti 2002

Ad Algeri viveva un rabbino. Viveva con sua figlia, un pappagallo e un gatto. Questo, ogni notte, usciva sui tetti e vagava per la città. «Se i gatti potessero parlare, racconterebbero cose incredibili» diceva la ragazza al micio. «Questo uccello parla in continuazione, e non ha niente da dire. E questo gatto che passa le sue notti sui tetti resta sempre in silenzio.» Un giorno, però, il gatto si mangiò il pappagallo, e da allora iniziò a parlare.

Questo è lo spunto iniziale della serie che Joann Sfar porta avanti per Dargaud da 20 anni e 11 volumi. È uno dei best seller del mercato francese (nel 2015 il sesto albo, il primo dopo una pausa durata 9 anni, aveva avuto una tiratura di 100mila copie), e dalla serie nel 2011 è stato tratto un lungometraggio animato co-diretto da Sfar stesso. 

Una storia che è un po’ una favola, un po’ un racconto sapienziale, un po’ una lunghissima barzelletta ebraica, per la quale l’autore ha attinto direttamente alle sue radici. Lui discende, infatti, dal lato paterno da una famiglia ebrea sefardita algerina molto religiosa, e da quello materno da una ebrea askenazita ucraina decisamente più laica. Sfar attinge a entrambe le loro anime per il suo fumetto, intriso di religione e cultura ebraiche, viste però con uno sguardo decisamente distaccato. Quello di un fumettista francese laico. O di un gatto filosofo.

Nel primo volume, ad esempio, il rabbino vieta al gatto di frequentare la figlia, che la bestia adora, perché un gatto parlante non è un buon ebreo. Inizia quindi a istruirlo, a insegnargli la Torah e il Talmud, finché il micio non si impunta e pretende di fare anche lui il Bar Mitzvah come tutti i giovani ebrei. Il padrone lo porta così dal proprio maestro, e tra questo e il gatto scoppia una diatriba filosofico-teologica su gatti, Bibbia e tradizioni religiose. Il risultato è che l’animale non avrà il suo rito, ma potrà tornare a stare con la ragazza a patto di fingere di non poter più parlare.

Sfar racconta questi episodi con il distacco di un non religioso che sorride degli aspetti più barocchi della tradizione, e al tempo stesso con il rispetto e l’affetto di chi ne comprende l’importanza per i suoi personaggi (o i suoi antenati). Non c’è alcun senso di superiorità da parte dell’autore nei loro confronti. E questo gli permette di raccontare, con dolce ironia, senza alcuna retorica, esempi di vicinanza, tolleranza, comprensione tra persone di etnie e religioni diverse. 

È il caso dell’incontro tra il rabbino e un sufi, un mistico islamico, diretti entrambi sulla tomba del sant’uomo Messaoud Sfar. Mentre i due umani fanno amicizia, e trovano un terreno comune nella propria religiosità, il gatto del rabbino e l’asino del sufi litigano, contendendosi l’appartenenza religiosa del santone che venerano.

(Alberto Brambilla)

Barbara, di Moto Hagio

Moto Hagio è tra le fondatrici del Gruppo dell’anno 24, il collettivo di autrici che a partire dagli anni Settanta rivoluzionò il fumetto giapponese per ragazze introducendo tematiche audaci e idee moderne. Con il suo lavoro, Hagio ha da sempre ampliato i confini dello shojo manga, facendolo spesso sfociare nel fantastico e nella fantascienza, come successo anche in Barbara.

La protagonista della serie è Aoba, un’adolescente che si trova in coma fin da quando a nove anni fu trovata insieme ai genitori morti, in un contesto alquanto violentp e truce: la madre aveva ucciso il padre prima di suicidarsi, ma i cuori dei genitori erano stati rinvenuti all’interno dello stomaco di Aoba.

Nel coma, la ragazza abita una specie di mondo onirico chiamato Barbara, che sembra influenzare il mondo reale e nel quale si trova anche Kiriya, un giovane a lei sconosciuto nella realtà. Oltre a questi elementi di mistero, a infittire la trama si aggiungono un singolare scienziato impegnato nella ricerca del segreto dell’eterna giovinezza e una razza aliena ormai estinta.

Barbara, pubblicato in Italia in 3 volumi da J-Pop nel 2020, fu realizzato da Hagio quando aveva cinquantatré anni ed era un’autrice ormai nel pieno della maturità artistica, ancora capace di imporsi con standard narrativi ed estetici elevati.

(Valerio Stivè)

Y: L’ultimo uomo, di Brian K. Vaughan e Pia Guerra

fumetti 2002 y ultimo uomo

Yorik Brown è un ventenne appassionato di escapismo, molto imbranato e altrettanto insicuro. Figlio di un professore universitario e di Jennifer Brown, rappresentante dell’Ohio al governo, il ragazzo sembrerebbe indirizzato a una vita tutt’altro che emozionante. Se non che, da un momento all’altro e senza nessuna reale spiegazione, si ritrova a essere l’ultimo mammifero di sesso maschile della Terra. Il caos successivo alla catastrofe, ribattezzata come la Piaga, lascia il mondo a pezzi. Ben presto le superstiti penseranno a organizzarsi per rimettere in piedi la società. E Yorik, senza volerlo, si troverà al centro di macchinazioni internazionali. 

In Y: L’ultimo uomo ci sono sparatorie, morti inaspettate, crudeltà e cliffhanger da manuale. E anche temi scottanti trattati con studiata disinvoltura, un fiume inestinguibile di dialoghi ficcanti e una buona dose di politicamente scorretto. Eppure, riassumendolo ai minimi termini, non è che un lungo racconto on the road dove i protagonisti si ritrovano sballottati ai quattro angoli del globo all’inseguimento di volta in volta di un nuovo MacGuffin. Poco importa se si tratta di un laboratorio o di una fidanzata, l’importante è muoversi, mettere in scena nuovi personaggi e farli parlare un sacco.

L’intera vicenda fu una scusa perfetta per permettere allo scrittore Brian K. Vaughan una profonda e sentita disamina del mondo femminile. All’epoca lo sceneggiatore era non troppo noto, il suo picco erano stati venti numeri di Swamp Thing,  ma da lì a qualche anno – e grazie proprio a serie come Y: L’ultimo uomo – sarebbe diventato una delle voci più celebrate del fumetto seriale statunitense. In questa epopea post-apocalittica erano già presenti tutti gli aspetti più salienti della sua poetica, che sarebbe esplosa definitivamente da lì a un paio d’anni.

A fare da contraltare a una scrittura ricca e straripante troviamo le matite di Pia Guerra. Lo stile semplice e pulito della disegnatrice, fatto di anatomie realistiche e scelte lontane da ogni forma di spettacolarità gratuita, dona a tutta l’opera un’atmosfera intima, perfetta per accompagnare i ricchi dialoghi e i lunghi monologhi della sceneggiatura. L’inusuale miscela tra due voci così distinte ci ha consegnato uno dei fumetti statunitensi più rappresentativi delle ultime decadi, sospeso – in puro stile Vertigo – tra maturità, moderne influenze televisive e amore per un linguaggio popolare e sempre legato al piacere dell’evasione.

(Marco Andreoletti)

Rainbow, di George Abe e Masasumi Kakizaki

Rainbow è un seinen manga ambientato in un carcere minorile. Pubblicato in Giappone dal 2002 al 2010 e raccolto in 22 volumi, ha vinto nel 2005 il Premio Shogakukan nella categoria generale. Ambientato nel 1955, racconta di sei ragazzi tra i 16 e i 17 anni che vengono rinchiusi nella stessa cella, la numero 2 del blocco 6 del riformatorio speciale Shonan, per i motivi più disparati (tentato omicidio, atti di violenza, truffa, furto). Lì, incontrano quello che diventerà il loro mentore e protettore, il diciottenne Rokurota Sakuragi, detto “fratellone”. Iniziano così le orribili traversie di questo gruppetto di ragazzi, messo in ginocchio da un secondino sanguinario al soldo del perverso dottore del riformatorio, che non perde occasione per sodomizzare a turno i malcapitati.

Disegnato con un tratto molto efficace e dettagliato da Masasumi Kakizaki, Rainbow è scritto da George Abe, classe 1937, personaggio incredibile, la cui vita è stata a dir poco movimentata: ex bambino prodigio, ha vissuto una gioventù tra Giappone ed Europa tra studio e lavoro, prendendo poi una piega turbolenta. A soli 19 anni fu accusato di furto, tentato omicidio e porto d’armi illegale. Si fece due anni di prigione e poi iniziò una carriera decisamente malavitosa. Ne combinò di ogni, dal tirare di boxe a spacciare metanfetamine, fino a diventare un membro della Yakuza. Entrò e uscì di prigione più volte, finché non scelse di darsi una regolata e iniziò a raccontare la propria vita: a fine anni Ottanta il suo primo libro diventò un bestseller da cui fu tratto un film, e la sua carriera decollò.

Nella sceneggiatura di Rainbow, George Abe ha riversato naturalmente tutte le esperienze vissute in carcere. Il risultato è un manga spietato, che non risparmia nulla al lettore e che non teme di calcare la mano su tematiche come l’abuso, il suicidio, l’omicidio, la violenza in genere. Tematiche forse non proprio originali (il fumetto riporta alla mente tanti film carcerari dalla stessa impronta, primo fra tutti Sleepers) ma di certo sempre capaci, se ben trattate, di tenere il lettore incollato alle pagine (o allo schermo).

(Federica Lippi)

Macanudo, di Liniers

Macanudo è uno fumetto nato già piuttosto maturo sin dall’inizio, anche grazie al fatto che si sviluppava attorno a un approccio talmente libero da non avere regole o parametri. L’unico punto fisso formale di Macanudo sta nel fatto di essere una striscia; brutalmente parlando, nel senso di estendersi per lunghezza, fondamentalmente.

Una striscia, ma non necessariamente suddivisa nelle classiche quattro vignette di una giornaliera, come comunemente intesa. In una vignetta lunga unica, o addirittura ventiquattro piccoli riquadri (è successo, in un episodio), ai personaggi di Liniers succede di tutto, non c’è un contesto fisso, né tanto meno un cast limitato che interagisce, bensì soltanto una lunga fila di personaggi irregolarmente ricorrenti (una bambina, un gatto nero, l’autore stesso, gente qualunque, Picasso).

A garantire longevità e simpatia nel pubblico casuale è stato proprio quello che poteva apparire come un difetto, ovvero l’assenza sia di continuità che di coralità. In un certo senso si tratta di una regola contemporanea. Quella di Macanudo è una comicità istantanea, quasi da meme, che non richiede associazioni mentali particolari e spesso gioca con luoghi comuni universali, con un approccio irriverente verso le regole tradizionali del gioco creativo della striscia di cui già sopra. Anni, fa, il nostro Matteo Stefanelli scriveva sul suo blog che Liniers “giogioneggia” e gestisce con fare giocoso il mezzo espressivo della striscia, e il suo successo sta principalmente in questo.

Il disegno di Liniers è doverosamente semplice (al servizio di inquadrature spesso fisse), anche se gli va riconosciuta densità e varietà, soprattutto nella composizione, mentre aspira a una plasticità apparentemente reminiscente dell’insegnamento di Jacovitti, senza mai avvicinarsi però alla vivace tridimensionalità di quest’ultimo.

(Valerio Stivè)

L’ombra delle torri, di Art Spiegelman

L’11 settembre 2001 Art Spiegelman era a Manhattan, dove vive. Era per strada a pochi isolati dal World Trade Center quando il primo aereo si schiantò sulla torre nord. In casa a chiamare disperatamente la scuola della figlia, proprio sotto le Torri Gemelle, quando si schiantò il secondo. Insomma, l’autore di Maus fu uno dei milioni di newyorkesi che visse in prima persona il terrore, l’ansia, la tragedia del più grande attentato terroristico agli Stati Uniti.

Il 24 settembre, insieme alla moglie Françoise Mouly, dedicò alle Torri una celebre copertina del New Yorker, rivista di cui lei è art director. Apparentemente del tutto nera a lutto, era in realtà stampata con due inchiostri con opacità differenti, così che sotto la giusta luce apparissero le silhouette dei due edifici.

Fu l’inizio di un’elaborazione della tragedia da parte del fumettista che prese forma in 10 tavole a colori, in grande formato, che iniziarono a essere pubblicate nel 2002 sul settimanale tedesco Die Zeit. Sarebbero dovute uscire una a numero, ma la loro realizzazione prese molto più tempo del previsto, e il progetto si trascinò per oltre un anno.

Le tavole furono un libero sfogo dell’autore, che mischiò i ricordi dell’11 settembre alle sue emozioni e al giudizio spietato nei confronti della presidenza americana («Terrorizzato in egual misura da Al-Qaeda e dal governo del suo Paese» si legge in una vignetta), cosa che ne complicò la pubblicazione in patria. Spiegelman trasfigurò la materia del suo racconto tramite una lente molto particolare, alla quale è sempre stato affezionato, ovvero le strip di inizio Novecento. Bibì e Bibò, Fortunello, Arcibaldo e Petronilla diedero così volto e voce alle sue riflessioni. 

«Subito dopo l’11/09/01 molti si sono rifugiati nella poesia. Altri hanno cercato sollievo nei vecchi fumetti dei quotidiani.» Non è un gioco di maschere, come quello che aveva utilizzato in Maus, quanto proprio un cercare in un passato più semplice le parole che gli erano venute a mancare per il trauma. Come se Krazy Kat, Little Nemo o gli Upside-Down potessero sostituire la sua voce di newyorkese “cosmopolita radicato” con ancora dietro le palpebre l’immagine degli scheletri in fiamme delle Torri.

(Alberto Brambilla)

Gotham Central, di Ed Brubaker, Greg Rucka e altri

fumetti 2002 gotham central

Gotham Central fu tra i primi esperimenti (riusciti) pensati per avvicinare al fumetto gli appassionati di serie TV. Gotham Central infatti voleva essere una sorta di procedural alla NYPD – New York Police Department (senza dimenticare CSI, che aveva esordito solo due anni prima) a fumetti, con l’inserimento di supereroi e supercriminali, ma con un profondo realismo. Da lì quindi la scelta di un disegnatore dal tratto fotorealistico come Michael Lark, per esempio, o la volontà di dare il più possibile una prospettiva meno “pacchiana” ai criminali storici di Gotham, che alla fine sembrano quasi poter esistere nella vita di tutti i giorni. E poi c’era la suddivisione in cicli di storie ben definibili, cosa oggi molto comune, ma per l’epoca ancora tutta da sperimentare.

Grazie soprattutto alla raffinata qualità della scrittura di Rucka e Brubaker – in grado di uscire sulla distanza piuttosto che sul breve delle singole storie – la sfida fu vinta, tanto che Gotham Central faceva fatica nelle classifiche di vendita dei singoli albi, ma andava molto bene in quelle relative ai volumi. E il modello – strutturale e narrativo –  della serie si impose su tante altre successive, anche su quelle più mainstream. La sua influenza sul fumetto americano degli anni Zero è stata così importante che oggi è talmente tanto assimilata da essere poco evidente. E forse rende anche meno fresca la serie (che resta comunque sempre appassionante e meritevole di rilettura), a distanza di diversi anni.

Inoltre, non presentando personaggi di grosso rilievo nel proprio cast, la serie poteva permettersi di far ruotare i protagonisti e, soprattutto, di vederli morire in modo definitivo. A differenza delle collane mainstream, la morte era davvero dietro l’angolo, ma non era mai gratuita o a effetto, ma presentata dagli autori quasi come ovvia e “normale”, in un ambiente come quello di un distretto di polizia in una città popolata da criminali pazzi e agenti corrotti.

La cosa curiosa è che, paradossalmente, la serie tv Gotham – andata in onda fra il 2014 e il 2019 e liberamente ispirata a Gotham Central – abbia poi preferito caratterizzarsi più come un brutto fumettaccio, nonostante avesse pronto un fumetto su cui basarsi in modo pedissequo, senza se e senza ma.

(Andrea Antonazzo)

Cento demoni, di Lynda Barry

Lynda Barry è un’apprezzata insegnante di scrittura creativa e un’autrice di culto del fumetto underground americano, nota anche per le parole del suo amico Matt Groening (il creatore dei Simpson), che qualche anno fa la definì «forse la mia più grande fonte di ispirazione».

In Italia purtroppo i suoi fumetti sono quasi del tutto inediti, e l’abbiamo finora potuta leggere solo sulle pagine della rivista Linus, con la traduzione del suo pluripremiato Cento demoni (One Hundred Demons) fra il 2005 e il 2006. Opera centrale nella sua carriera, è un racconto autobiografico articolato in diciassette storie brevi incentrate principalmente sugli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, che l’ha portata a vincere l’Eisner Award per il miglior fumetto nel 2003 – prima donna della storia a ricevere il premio.

Cento demoni è disegnato con un tratto elementare e colori accessi, uno stile che a un primo sguardo potrebbe risultare infantile ma che in realtà è molto studiato: Barry guarda tanto alla sintesi di autori come Charles Schulz quanto all’espressività di Robert Crumb, e il suo lavoro è completamente teso a comunicare più cose possibili nella maniera più semplice possibile.

I suoi personaggi sono spesso schiacciati dall’ingombro di didascalie e balloon, strabordanti di testo e dialoghi. Un contrappunto all’estrema voglia di libertà che traspare in ogni singola pagina del volume. Libertà comunicata sotto tutti i punti di vista, da quello sociale a quello identitario, fisco e personale. Il racconto di Barry è autenticamente intimo sia per la voce che dà ai suoi personaggi sia per la rappresentazione che fa di essi e dell’autrice stessa. I denti in fuori, i capelli “pazzi”, gli occhi strabuzzanti, le lentiggini copiose, i vestiti stropicciati, le mille sigarette. Perfino gli odori. Tutto è veritiero nell’affresco di Barry. E tutto scorre via, tra risate e dolore, tra un demone e l’altro, tra un collage e una vignetta nell’inchiostro giapponese usato dall’autrice per raccontarci la sua vita.

(Andrea Queirolo)

Ultimates, di Mark Millar e Bryan Hitch

fumetti 2002 ultimates

Alla fine degli anni Novanta, la Marvel stava combattendo contro la percezione comune che vedeva i suoi fumetti come una soap opera intricatissima. Gli eroi della Casa delle Idee avevano vissuto troppo e ormai si trascinavano dietro una continuity che non favoriva l’ingresso di nuovi lettori.

Nacque così l’idea di un parco testate che introducesse i personaggi Marvel al Ventunesimo secolo. Dopo il successo di Ultimate Spider-Man per mano di Brian Bendis e Mark Bagley, arrivò The Ultimates. Il progetto nacque come un aggiornamento degli Avengers a opera di Mark Millar e Bryan Hitch, che ripensarono il gruppo come se stessero mettendo in scena un blockbuster hollywoodiano in cui Nick Fury mette insieme una squadra di super esseri (o presunti tali) al soldo del governo, tra dissidi interni al gruppo e minacce extraterrestri, come la razza aliena dei Chitauri.

The Ultimates fu la collana simbolo non solo dell’iniziativa Ultimate ma di tutta la casa editrice, che all’alba del Terzo Millennio voleva proporsi come una realtà al passo coi tempi. Con il suo tono in bilico tra il serio e il faceto, l’impostazione filmica delle sceneggiature e del disegno (tavole, design dei costumi) contribuì a definire l’universo Marvel attuale e gli adattamenti prodotti dal loro dipartimento cinematografico.

The Ultimates era anti-fumettistico nelle dinamiche (Quicksilver e Scarlet Witch hanno uno strano rapporto ai limiti dell’incesto, Hank Pym ha seri problemi comportamentali, c’è un uomo che dice di essere una divinità nordica, che sia solo uno squilibrato?) ma folle e rutilante nell’esecuzione, con dialoghi pieni di riferimenti alla cultura pop dell’epoca – molto inusuali per un prodotto fumettistico – e uno stile spaccone, distante da qualsiasi verosimiglianza al reale.

Hitch illustrava queste sceneggiature con un approccio serissimo, ragionando molto sugli stacchi del montaggio e sugli spazi della vignetta, spesso rettangolari come il fotogramma di un film, quasi fosse un cinematografaro consumato. Dove Millar tendeva sempre all’esagerazione, Hitch riportava il tono della discussione a livelli dignitosi. Epici, colossali, scioccanti, ma sempre stilisticamente composti. Quasi come se Hitch stesse cercando di smussare le smargiassate di Millar. Tra costumi calati nel mondo reale, un racconto cinematografico e un Nick Fury ispirato alle fattezze di Samuel J. Jackson, The Ultimates fu la planimetria su cui si sarebbero costruiti i film dei Marvel Studios.

(Andrea Fiamma)

676 apparizioni di Killoffer, di Patrice Killoffer

676 apparizioni di Killoffer è il lavoro più rappresentativo di uno dei più importanti autori di fumetto alternativo francese, nonché co-fondatore de L’Association insieme a Lewis Trondheim, David B. e Jean-Christophe Menu. Arrivato in Italia solo nel 2017 per Coconino Press, è un fumetto breve contenuto in un albo di grande formato, dove trovano largo spazio tavole dalla costruzione audace ed elaborata.

In un racconto che unisce in egual misura quotidiano e surreale, tutto ha inizio quando Patrice Killoffer torna a casa da un viaggio in Canada e viene attaccato da una strana poltiglia che durante la sua assenza è germinata in cucina all’interno del lavello. Le stoviglie lasciate per giorni a crogiolarsi nella sporcizia hanno sviluppato una nuova forma di vita che attacca il malcapitato padrone di casa. 

Quella che segue, dopo un serrato monologo interiore, è una commedia degli equivoci che tracima nel dramma psicologico. Di lì a poco il protagonista scoprirà inoltre che in giro per Parigi esistono innumerevoli copie di se stesso.

Con 676 apparizioni di Killoffer, l’autore esplorò tutte le pulsioni più scomode, i desideri più reconditi e taciuti e le voci più profonde che agitavano il suo animo. Il suo fumetto è confessione, sperimentazione, autoterapia ed esercizio formale.Allo stesso tempo, 676 apparizioni di Killoffer fu un lavoro di rottura, uno schiaffo al trend dell’autobiografismo tanto in voga tra gli anni Novanta e i primi Duemila. «Volevo dire la mia sulla questione dell’autobiografia», ci ha raccontato in un’intervista, e lo ha fatto con un libro che per l’autore è allo stesso tempo celebrazione e negazione di sé.

(Valerio Stivè)

Intervista a Pasolini, di Davide Toffolo

fumetti 2002 pasolini toffolo

All’alba del nuovo millennio erano in tanti, tra lettori e autori, a lamentare una progressiva disaffezione verso il fumetto italiano, che si era contratto fino a smettere di produrre opere lunghe. Molte case editrici avevano chiuso i battenti o si erano ridimensionate. Tra i pochi in grado di contrastare questa tendenza c’era Davide Toffolo, fumettista e frontman dei Tre Allegri Ragazzi Morti.

«Ho cominciato a immaginare libri che potessero incontrare un pubblico diverso» ha spiegato Toffolo a Fumettologica. «Feci le biografie di Primo Carnera e Pasolini con un editore locale, Biblioteca dell’Immagine, che non pubblicava fumetti – ma che era interessato a storie e temi legati al Friuli – perché nessuno credeva a un formato di quel tipo.»

Il Pasolini di Davide Toffolo, originariamente intitolato Intervista a Pasolini, è la rappresentazione di un colloquio immaginario tra Toffolo e il Poeta. Li unisce sin dalle prime pagine il Friuli, regione cara e condivisa da entrambi. Nel libro di Toffolo Pasolini (apparentemente) non è morto, così appare e si confronta con l’autore. Le opere e il pensiero di Pasolini – tanto lucidi nell’osservare la realtà quando nell’anticipare ciò che ancora aveva da essere nella nostra società – sono tuttora vivi, quindi anche Pasolini lo è, misteriosamente, fugace e quasi mistico nella matura opera di Toffolo.

(Andrea Fiamma)

Zetman, di Masakazu Katsura

fumetti 2002 zetman

Dopo il successo travolgente di Video Girl Ai, uno degli shonen manga romantici più apprezzati di sempre, Masakatsu Katsura realizzò manga brevi e miniserie non del tutto riusciti, come DNA² e Shadow Lady. Dopo aver ritrovato la propria vena creativa con una nuova serie romantica intitolata I”s, con Zetman nel 2002 l’autore diede una vera e propria svolta alla propria carriera, cambiando genere e dedicandosi alla fantascienza.

Durata ben 20 volumi (pubblicati in Italia da Star Comics), Zetman prese ispirazione da una storia breve realizzata da Katsura nel 1994, pur vantando elementi e personaggi nuovi e attingendo a piene mani sia dalla fantascienza giapponese anni Sessanta e Settanta che dal fumetto americano di supereroi (su tutti il personaggio di Batman, come evidente dal nome).

Il manga racconta di un mondo in cui i Player, mostri che si battono come bestie per il divertimento sadico di uomini ricchi, un giorno si ribellano, fuggono e si mescolano alla gente comune, creando disordini. Per combatterli viene creato Z.E.T., un essere fortissimo e potente. Al centro della storia, che alterna momenti romantici ad altri particolarmente cupi e frenetici, ci sono le relazioni di un gruppo di giovani e gli scontri di alcuni di loro con i Player.

Zetman è stato serializzato fino al 2014 e ha visto Katsura sdoganarsi dall’immagine di autore legato a temi mielosi e adolescenziali, ma al momento, nella lunga carriera dell’autore rappresenta anche l’ultima esperienza importante, alla quale hanno fatto seguito ben pochi lavori a fumetti.

(Valerio Stivè)

La Dottrina, di Alessandro Bilotta e Carmine Di Giandomenico

dottrina bilotta feltrinelli fumetto

Pubblicato originariamente in quattro volumi da Magic Press tra il 2002 e il 2010 (e ristampato poi in volume unico da Feltrinelli nel 2019) La Dottrina è un’ambiziosa distopia che parte dai classici del genere per prendere ben presto una direzione inaspettata e destabilizzante. Si parte da un impianto che pesca tanto nel 1984 di George Orwell quanto nel V for Vendetta di Alan Moore e David Lloyd – ma ci sono richiami anche a Il Mondo Nuovo di Aldous Huxley – e prima della fine del volume ci si ritrova a disinteressarsi al worldbuilding per riflettere sulla potenza del linguaggio e sulla tentazione dell’immaginazione. Su quanto sia importante la complessità e il senso di smarrimento che ne consegue e, d’altra parte, pericolosa la semplificazione del mondo che ci circonda. Una serie di considerazioni articolate e mai banali, portate avanti sfruttando il linguaggio del fumetto e le sue meccaniche interne.

La Dottrina rappresenta alla perfezione la scrittura di Alessandro Bilotta. C’è un’idea forte di fondo, una marea di rimandi, un uso consapevole e smaliziato del mezzo e la volontà di raccontare una storia che non si limiti a quello che si trova sulla pagina. Carmine Di Giandomenico, co-autore e sodale di lunga data dello scrittore, rimpolpa ulteriormente il colpo portando le sue matite ricche e spigolose, dando così a tutto il mondo raccontato un look inconfondibile. Il disegnatore pesca tanto dalla spettacolarità della Image prima maniera quanto da Schiele, tenendo sempre bene in testa l’idea di creare un universo di fantasia solido e credibile.

Un fumetto complesso, ricco di simbologie, che si diverte a sparigliare le carte in più occasioni. Gli autori giocano con il lettore e arrivano a inserire anche una sorta di Guy Fawkes, ma le cose non sono così semplici come sembrano. L’obiettivo non è una consolatoria accusa a un regime totalitario – aspetto comunque presente ed esplicito – ma la presa di coscienza di quanto la complessità degli eventi possa essere difficile da cogliere e capire. Sono gli stessi personaggi a dirci che ci sarà sempre qualcosa che ci sfugge. Anche, e soprattutto, all’interno di un fumetto.

(Marco Andreoletti)

Batman: Hush, di Jeph Loeb e Jim Lee

fumetti 2002 batman hush

All’inizio degli anni Duemila, il disegnatore Jim Lee era da poco arrivato in DC Comics, dopo che l’editore aveva rilevato la sua etichetta Wildstorm, fondata negli anni Novanta. Il suo desiderio era quello di lavorare alle sue personali versioni definitive dei personaggi bandiera di DC Comics, Superman e Batman.

Così, nel 2003, insieme a Jeph Loeb – sceneggiatore che aveva già firmato le celebri Batman: Il lungo Halloween e Superman: Stagioni e che all’epoca era attivo in Marvel – partorì Batman: Hush, saga in cui l’Uomo Pipistrello si scontra con una serie di nemici storici, dietro i quali si nasconde il misterioso Hush, machiavellico figuro che vuole uccidere l’eroe.

Con la sua trama da videogioco (con i vari “boss di fine livello” alla fine di ogni albo) e l’intreccio fondato sul mistero dell’identità del criminale, Batman: Hush non si sforzava più di tanto a nascondere la sua natura di “best of”, di scusa per disegnare tutti i personaggi più importanti del cast di Batman, condita da trovate tamarre come Superman comandato da Poison Ivy contro Batman con un anello di Kryptonite, con tanto di siparietto comico con Krypto il supercane, o Harley Quinn attrice del Pagliacci di Leoncavallo.

Pur accolto da un riscontro critico polarizzato, Hush fu un successo di vendite enorme per Batman, che fino ad allora ristagnava nelle vendite. Il capitolo finale della storia fu il più venduto dell’anno, con 235.122 copie (il secondo titolo, JLA/Avengers 1, ne vendette 191.014).

(Andrea Fiamma)

Paul ha un lavoro estivo, di Michel Rabagliati

Dopo aver realizzato una prima storia breve incentrata sul personaggio di Paul, fu con il graphic novel Paul ha un lavoro estivo (pubblicato in Italia da Coconino Press) che il fumettista canadese Michel Rabagliati dette il via a tutti gli effetti alla lunga serie composta da una decina di fumetti di auto-fiction che lo accompagna ancora oggi.

Con un segno delicato che si ispira in egual misura all’animazione americana degli anni Sessanta e ai vignettisti del New Yorker dello stesso periodo, Rabagliati raccontò una storia di formazione ambientata nel Canada degli anni Settanta. Paul, un adolescente del Quebec alter ego dell’autore stesso, durante un’estate affronta le sue prime esperienze professionali: dopo aver lavorato in una tipografia, il ragazzo diventa educatore in un campo estivo per bambini e non mancherà anche di sperimentare avventure amorose.

Sin da queste sue prime esperienze, Rabagliati si dimostrò un narratore raffinato che sapeva affrontare la vita di tutti i giorni esplorando una vasta gamma di emozioni intense e realistiche. La sua serie di graphic novel dedicati a Paul – di cui purtroppo in Italia è uscito soltanto questo libro – è diventata così una delle esperienze di auto-fiction a fumetti meglio riuscite di sempre.

(Valerio Stivè)

Spider-Man: Blu, di Jeph Loeb e Tim Sale

Spider-Man: Blu nacque sull’onda del successo di Devil: Giallo, una rivisitazione dei primi anni di storie del personaggio a opera di Jeph Loeb e Tim Sale, team creativo che aveva firmato opere molto apprezzate come Batman: Il lungo Halloween e Superman: Stagioni. Data la bontà di Daredevil: Giallo si pensò di creare una serie di opere a tema cromatico sempre realizzate da Loeb e Sale (sarebbero usciti poi anche Hulk: Grigio e Capitan America: Bianco).

L’idea di Loeb era quella di recuperare elementi dei personaggi che erano passati in secondo piano con il passare dei decenni. Il costume giallo e il rapporto con il padre, nel caso di Daredevil, il rapporto con Gwen Stacy per Spider-Man.

Spider-Man: Blu è un viaggio nostalgico nei momenti più importanti dei primi anni di carriera dell’Uomo Ragno, filtrati da una lente romantica e crepuscolare. È il giorno di San Valentino e Peter, sentendosi un po’ giù, registra una serie di cassette in cui, rivolgendosi a Gwen Stacy, le racconta i suoi anni giovanili e quanto la loro relazione lo formò come persona. Nel mezzo, l’amicizia con Mary Jane e Harry, e le zuffe con i cattivi Goblin, Kraven, Lizard e i primi storici nemici.

Spider-Man: Blu vendette molto bene, anche grazie al seguito degli autori e all’esposizione mediatica che il personaggio stava vivendo in quei mesi per via del film di Sam Raimi, tuttavia le pagine di Loeb e Sale rappresentano un bellissimo, indulgente e stucchevole esercizio di stile che non offre letture inedite del personaggio. Più che altro, come la cover di un bel brano musicale, fu un’ottima scusa per far disegnare a Tim Sale i migliori momenti della storia editoriale del personaggio. Stilizzati e grotteschi, i nemici di Spider-Man funzionano benissimo nello stile essenziale di Sale, mentre Peter, Gwen e Mary Jane hanno tutto il fascino di grandi attori del passato.

(Andrea Fiamma)

Eyeshield 21, di Riichirō Inagaki e Yūsuke Murata

Tra i manga sportivi più famosi degli anni 2000, Eyeshield 21 racconta le vicende di una squadra di football americano di una scuola superiore giapponese. Scritto da Riichiro Inagaki e disegnato da Yusuke Murata, è stato pubblicato da Shueisha sulla rivista Weekly Shōnen Jump tra il 2002 e il 2009 e poi raccolto in 37 tankōbon. Vale la pena ricordarlo anche solo per le circa 20 milioni di copie che i suoi volumi hanno venduto in patria, dove a discapito delle possibili apparenze il football è uno sport molto praticato.

Basta guardare la copertina qui sopra per rendersi conto dell’alta qualità del fumetto. Non è un caso che Yusuke Murata sia lo stesso disegnatore che un decennio più tardi ritroveremo a sorprenderci sulle pagine di un altro grande successo, One-Punch Man. Murata è un fumettista d’impatto, dal tratto personale e dettagliato che privilegia grandi splash page ricche di dinamismo. Un disegnatore perfetto per un manga sportivo che mette in scena corse, scontri, lanci di palla e fisici muscolosi. E infatti il fumetto si regge in gran parte sulle sue tavole, perché la storia non brilla certo di guizzi particolari: è il solito racconto di genere ricco di cliché, tra teen drama e azione (in questo caso sportiva).

Al centro della vicenda c’è un giovane dalle grandi doti atletiche ma fisicamente poco sviluppato che viene costretto controvoglia a entrare nella squadra di football della propria scuola nel ruolo di running back. Il tutto funziona nel più classico dei modi, tra un’escalation di partite sempre più difficili nel tentativo di vincere il torneo più importante. Attorno al protagonista ruota un cast corale, fatto di compagni di scuola e di squadra, insegnati, allenatori e, soprattutto, avversari di team rivali. Ed è quando si concentra sui personaggi e le loro caratterizzazioni che Riichiro Inagaki, in seguito autore di Dr. Stone, scrive le cose migliori. Altro fattore che rende il manga godibile ancora oggi a vent’anni dalla sua uscita.

(Andrea Queirolo)

30 giorni di notte, di Steve Niles e Ben Templesmith

Nei primi anni Duemila le icone dell’immaginario horror hanno vissuto una seconda giovinezza nei fumetti, diventati poi trampolini di lancio per franchise o iniziative più ampie. Se gli zombi sono rinati con The Walking Dead, i vampiri hanno trovato il successo grazie a 30 giorni di notte, serie scritta da Steve Niles e disegnata da Ben Templesmith, entrambi reduci dall’esperienza nella fucina di Spawn di Todd McFarlane.

La serie si svolge a Barrow, in Alaska, in una zona così vicina al polo della Terra che durante l’inverno il sole non sorge per 30 giorni. Nella serie, i vampiri, essendo vulnerabili alla luce solare, approfittano dell’oscurità prolungata per uccidere apertamente i cittadini e nutrirsi a piacimento. Lo sceriffo Eben Olemaun, dopo essersi iniettato del sangue infetto, diventerà l’unico baluardo della popolazione locale contro i vampiri.

Nata come idea per il cinema, fu ripensata dall’autore per una miniserie a fumetti per poi diventare, nel 2007, un film con protagonista Josh Hartnett. «Lo proposi come soggetto per il cinema per due o tre anni» ha ricordato Niles. «Mi dicevano soltanto che “sembrava Buffy l’ammazzavampiri” e quindi mi arresi. Poi mi chiamarono da IDW Publishing dicendo che volevano fare dei fumetti ma non avevano budget, quindi potevamo fare qualunque cosa volessimo. E io tirai fuori il progetto sui vampiri in Alaska. Quando uscirono le pubblicità per il primo numero, tutte le case cinematografiche ci chiamarono, perfino quelle che avevano già rifiutato il progetto.»

Forte di questo successo, 30 giorni di notte generò poi innumerevoli seguiti, spin-off e storie ambientate nello stesso universo, realizzate da autori come Matt Fraction, Kelly Sue DeConnick e Bill Sienkiewicz.

(Andrea Fiamma)

Global Frequency, di Warren Ellis e altri

Creata e scritta da Warren Ellis (Transmetropolitan, The Authority) per la Wildstorm di Jim Lee, Global Frequency vide avvicendarsi ai disegni grandi autori di quegli anni come Glenn Fabry, Steve Dillon, Jon J. Muth, Simon Bisley e Brian Wood, alle prese con storie di fantascienza dal gusto spiccatamente contemporaneo e moderno.

In 12 albi caratterizzati da episodi autoconclusivi, Ellis raccontò le avventure di un gruppo di agenti segreti specializzati ognuno in un campo diverso che vivono sotto copertura ed entrano in azione solo nel momento in cui sono richiamati d’emergenza attraverso un network apposito. Il loro obiettivo è quello di proteggere il mondo da minacce sconosciute alla gran parte della popolazione, che si manifestano all’improvviso.

Global Frequency fu tra le prime serie a fumetti americane a mostrare una struttura e temi assimilabili a quelle delle produzioni televisive dell’epoca, cosa che poi sarebbe diventata uno standard nel corso degli anni successivi, tanto da mostrare similitudini con produzioni degli anni successivi come Fringe o Person of Interest. Non a caso, ispirò successivamente anche un pilot, che però non ebbe mai seguito. Oltretutto, la serie di Ellis resta ancora oggi un fumetto d’azione appassionante e abilmente strutturato, con disegni che in ogni numero sono una gioia per gli occhi.

(Valerio Stivè)

Leggi anche:

Entra nel canale Telegram di Fumettologica, clicca qui. O seguici su Instagram, Facebook e Twitter.