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RecensioniClassicDivertirsi con le "Cavie umane" di Osamu Tezuka

Divertirsi con le “Cavie umane” di Osamu Tezuka

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Nella fluviale produzione di Osamu Tezuka, il dio dei manga, ci sono varie anomalie e parecchie eccezioni. Quando ad esempio si prende in mano questo volume corposo, Cavie umane, ci si trova davanti non solo una raccolta inedita di raconti brevi di fantascienza, western e thriller, ma una vera e propria porta verso un altro mondo, parallelo a quello dell’Osamu Tezuka istituzionale.

Un mondo che stupisce, colora, sorprende perché alla fine è uno strepitoso gioco sui generi, un modo dell’autore per continuare a sfogare la sua passione per la narrazione in tutte le sue forme. E per la sua quasi proverbiale capacità di prendere e far suoi generi molto distanti tra loro, trasformandoli in qualcosa di coerente e al tempo stesso diverso e sorprendente.

In quasi quattrocento tavole, questa raccolta ha messo assieme (nel lontano 1979, quando fu originariamente pubblicata) poco meno di una ventina di racconti che tratteggiano il lavoro di un Tezuka apparentemente minore e a volte quasi fuori fuoco rispetto alla sontuosa serialità a cui ci ha abituato con le sue altre produzioni, ma che invece rivela una potenza e una continua capacità di generare idee su idee che sorprende e quasi atterrisce.

Dal punto di vista narrativo qui sono raccolti giochi, abbozzi di idee e trattamenti di idee che ripercorrono i grandi generi codificati da altri mezzi di comunicazione (soprattutto il cinema) declinandoli lungo alcune delle tematiche ricorrenti in questo prolifico narratore: si va dalla scoperta dell’altro allo scontro con il tradimento e la viltà, quelle cioè che Tezuka considerava colpe profonde della natura umana. E poi il costante inseguire il fantastico, il comico (con quello spirito irriverente e un po’ folle che costantemente irrompe nella vignetta rompendo il quarto muro e creando effetti parodistici e oggi particolarmente stranianti) e il fantascientifico. Tezuka è pronto a guizzare, in maniera impossibile da prevedere, e sorprendere il lettore, tavola dopo tavola.

Per una volta però non voglio parlare qui solo delle tematiche o della capacità affabulatrice di Tezuka, perché abbiamo avuto molte altre occasioni e il futuro ce ne riserverà ancora molte (sono 400 le opere canoniche dell’autore giapponese, delle quali solo una parte piuttosto ristretta è stata sinora pubblicata nel nostro Paese). Valga tuttavia la considerazione che anche negli spazi stretti Tezuka riesce sempre o quasi a “chiudere il cerchio narrativo” in modo soddisfacente, mostrando un livello di professionalità che può essere capito solo alzando il velo sull’attività commerciale dell’autore, che ha messo a sistema un meccanismo quasi industriale di sfruttamento di quell’infinita miniera che era la sua fantasia.

Come i padri della nostra commedia all’italiana che attraversa il nostro cinema dagli anni Cinquanta sino a tutti gli anni Ottanta (lo dico solo perché ho guardato un film di Totò poche ore fa e ne sento ancora l’eco nel fondo della mente), Tezuka era un artigiano che doveva produrre per vivere, in entrambi i sensi. Era infatti spinto dal bisogno economico ma anche da quello esistenziale, oltre che dalla constatazione a cui era giunto presto che in realtà non sapeva fare nient’altro così bene come raccontare e disegnare storie. E soprattutto che non era interessato a fare altro, motivo per cui riusciva a trasformare la sua nevrosi narrativa in carburante per la micidiale potenza del suo afflato creativo.

Guardiamo invece il tratto e come questo diventa sorprendentemente protagonista della narrazione: in particolare due storie della raccolta, cioè SOS dallo spazio e Pallottole nella prateria. Nella seconda Tezuka ci proietta in un West che ha appena vissuto lo scontro fra nordisti e sudisti, in un’America che ricorda da vicino una fantasia di Cocco Bill e al tempo stesso la densità di un film muto. Quello di Tezuka diventa così in maniera molto rapida un western spietato ma anche surreale, in cui i cattivi hanno i black hat, i cappelloni alti e neri che oggi danno il nome agli hacker, mentre i buoni si riconoscono dall’abbigliamento e dal portamento oltre che dalla rettitudine morale. E tutti sparano e si fanno male in maniera surreale salvo che poi muoiono davvero.

In questo west ci sono vignette deliziose in cui nella cupezza di una storia sempre più dura c’è dinamismo, ci sono inquadrature sorprendenti e soprattutto cavalli che sembrano volare, sospesi come neanche Trottalemme ai tempi d’oro. Gli amici si trasformano in nemici e poi di nuovi in amici, il tema della redenzione è centrale ma lo è altrettanto quello della rappresentazione di un mondo fantastico di celluloide trasformato in fumetto che è sta a metà tra la fantasia letteraria sul vecchio West cinematografico e il gioco che i bambini mettevano in scena una volta usciti dal vecchio cinema di provincia dove avevano visto i loro eroi americani confrontarsi tra buoni e cattivi (e poi tutti contro gli indiani, all’epoca decisamente cattivi).

Un paio di centinaia di pagine prima invece Tezuka, nel racconto SOS dallo spazio, affronta un tema fantascientifico altrettanto classico e altrettanto vicino alla visione cinematografica che il cinema statunitense in bianco e nero ha saputo darne a cavallo della Seconda guerra mondiale. Qui però entrano le influenze anche e soprattutto delle daily strip di Flash Gordon, Buck Rogers, Brick Bradford e (in Gran Bretagna) Dan Dare. Come una spugna o un imitatore svelto, Tezuka fa suoi gli stilemi del genere e li rivisita altrettanto rapidamente, per renderli diversi, solo suoi.

L’ambientazione fantascientifica in questo racconto offre lo spazio per inquadrature più azzardate, per angoli prospettici deformati. Il tutto è finalizzato a far trasparire una sensazione di “diversità” rispetto a un fumetto tradizionale: nel futuro anche la linea già di suo pulita di Tezuka si ripulisce ulteriormente, e il verismo che contraddistingue ad esempio i suo racconti western diventa più concreto e al tempo stesso alieno, distante. Forse meccanicamente, ma comunque in maniera assolutamente centrata, Tezuka alza, sposta e deforma l’inquadratura e apre a una regia da film psicologico che ricorda in alcuni passaggi in maniera sorprendente la nouvelle vague e in particolare il modo con cui Alfred Hitchcock sapeva costruire l’ansia e la tensione da una scena all’altra. L’elemento psicologico diventa dominante e pervasivo.

C’è spazio per spiegare il fenomeno della relatività quando si viaggia alla velocità della luce, ma anche di intessere un’idea per il racconto (con il suo finale a sorpresa) che proprio sulla relatività, cioè “sull’idea” scientifica costruisce la parte fantastica. Lo fa con un disegno che diventa un cursore, a volte quasi un bozzetto per costruire le quinte di una ambientazione sempre meno sontuosa e studiata, ma sempre più concreta e che mira al bersaglio.

Una triade ridotta all’osso (personaggio, ambientazione, effetto psicologico dell’inquadratura) che sembra forse meccanica ma che viene in realtà portata avanti con grande maestria e scioltezza. L’autore è naturale, non si sforza, e il passo della storia rimane fluido e assolutamente genuino. La storia è meccanica perché si deve intravedere la sua struttura narrativa in quanto fa parte dell’effetto che deve provocare.

Tezuka ha chiarito subito il suo intento, settato il tono anche visivo del racconto e adesso mira a costruirne l’arco narrativo con mano ferma e una certa fretta: è il tipo di storia che si basa sul tempo e sulla velocità di esecuzione, non può distrarsi e tentennare altrimenti non funziona più. Questo accade a differenza e in contrasto con il western, che invece ammette digressioni, allungamenti, pause, cambi di passo, perché rappresenta la sontuosità di un genere narrativo fantastico che sposa la vastità di una narrazione di frontiera per modulare la sua storia.

Sono due esempi (e pure limitati) per accennare alla incredibile capacità affabulatoria di Tezuka, come ormai ci troviamo a sottolineare tutte le volte che apriamo un nuovo volume della ormai corposa serie pubblicata in Italia. In questo caso però la vis creativa di Tezuka non è legata soltanto all’aspetto più completo (e a tratti schematico) dell’autore, che serializza e fa crescere lavori di complessità crescente ma in questo periodo (gli anni Settanta) è anche legata a stilemi ricorrenti: dalla denuncia sociale alla ricerca di alcuni temi particolarmente complessi per la società giapponese come il femminismo e il suo antagonista, cioè la trasformazione del corpo della donna (soprattutto molto giovane) in oggetto.

Invece, qui c’è divertimento, c’è escapismo, c’è il desiderio di portare avanti con gusto una narrazione legata alla singola idea (SOS dallo spazio) o alla progressione di un’idea attraverso un arco (Pallottole nella prateria) che però è quasi una maniera, quasi un voler giocare a far rima, una specie di improvvisazione jazzistica sopra a determinati standard che provengono e sono legati molto spesso (come nel caso del western) alla cultura americana.

Qui non c’è la denuncia sociale di alcune opere di Tezuka (pensiamo ad esempio a Barbara), il sogno fantastico e mitologico di Il falco e la colomba, ma neanche il gusto del narrare che aveva caratterizzato l’opera del periodo precedente del mangaka, cioè quegli anni Sessanta in cui sono nati La principessa Zaffiro e Kimba.

Qui c’è invece un susseguirsi quasi sincopato di idee e di ambientazioni, ognuna delle quali potrebbe tranquillamente essere considerata la capostipite di un intero genere: ad esempio, il primo racconto della raccolta, Il grande Zeo, potrebbe essere da solo la scintilla per un intero filone di film in cui un Kaiju, un mostro gigante, distrugge la città. Ma un filone in cui il Kaiju è contemporaneamente un mostro e un robottone, per poi trasformarsi repentinamente e sorprendentemente in qualcosa di completamente diverso. Qualcosa capace di aprire per un attimo una finestra su panorami infiniti che però viene subito e bruscamente chiusa. Questa era la grandezza di Tezuka, anche nelle piccole cose.

Cavie umane
di Osamu Tezuka

traduzione di Roberto Pesci
J-Pop, giugno 2020
brossura, 490 pp., b/n
14,00 € (acquista online)

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