di Alì Raffaele Matar

C’è un’orfana taciturna che vive in un villaggio dalle leggi ataviche. Si chiama Elga e sogna di incontrare una donna lupo che tutti temono senza averla mai conosciuta. C’è un giovane adolescente che si nutre di silenzi, mentre vaga per lande notturne in compagnia delle stelle, tra energumeni e ragazzine dalla lingua lunga. Si chiama Cosmo e cerca i paradossi del mondo. C’è un disgraziato di mezza età che si ritrova ad assistere all’incanto del parcheggio multipiano di una fredda zona industriale, popolata da razzisti e speculatori. Si chiama Zolfo e cerca un nome. C’è un disegnatore di Modena che con qualche goccia di inchiostro ha dato vita a personaggi capaci di percepire una dimensione che va al di là di quella visibile. Si chiama Marino Neri e cerca di interpretare il nostro tempo con quello strumento complesso chiamato fumetto.
Dal folklore di Re dei fiumi e La coda del lupo all’esistenzialismo di Cosmo e L’incanto del parcheggio multipiano, si ravvede un cambio netto di stile, di forma, di respiro. C’è il passaggio dalla campagna alla periferia urbana, la costanza nel descrivere le incomprensioni della società e la voglia di trasmettere messaggi politici o, semplicemente, umani. Quanto è soddisfatta la “scimmia dell’inchiostro” del percorso fatto in questi anni?
Nel suo manuale di zoologia fantastica, Borges descrive la “scimmia dell’inchiostro” come un piccolo animaletto ghiotto e paziente; beve l’inchiostro rimanente di scrittori (e io immagino anche di disegnatori) ogni fine giornata di lavoro. È un’immagine che evoca una certa insaziabilità. A volte il percorso che ho fatto mi sembra molto coerente, altre volte ho l’impressione di perdermi.
Davide Reviati, autore e amico che stimo, parlando del mio lavoro, disse che ero passato dalla mitologia (riferendosi ai primi libri) al racconto epico, spostando la mia attenzione sempre più verso le vicende degli uomini. Devo dire che non ho la lucidità per giudicare ciò che ho fatto in questi anni e forse è meglio così. Mi lascio guidare dall’urgenza del racconto, un po’ come fa l’insaziabile scimmietta che non può fare a meno di ingurgitare inchiostro.

Elga e Fucsio, Cosmo e Ofelia, Nuno, Zolfo e Jamal – un nome, quest’ultimo, che in lingua araba significa “bellezza”. Appare chiaro quanto conti per te trovare il nome perfetto per ognuno dei protagonisti delle tue storie. D’altronde, anche L’incanto del parcheggio multipiano scandisce l’importanza del nome “con tutto quello che si porta dietro”.
Ne L’incanto del parcheggio multipiano la questione del nome è fondamentale, perché è il dono che compie Zolfo per redimersi e liberare un altro invisibile: Jamal. Porre l’attenzione su una cosa semplice e scontata come il nome significa dare un volto alle persone e alle cose per toglierle dall’indistinto.
In generale, nel linguaggio del fumetto basato sostanzialmente su sintesi, il nome contribuisce a delineare un personaggio tanto quanto la sua fisionomia. Se trovi un nome adatto, il personaggio acquista una piccola scintilla di vita in più, come una pennellata ben assestata che ne scolpisce i lineamenti. Un autore può giocare con i nomi dei propri personaggi, donar loro qualche sfumatura in più e lasciare che sia il lettore a scoprire la cosa.
Insieme alle atmosfere oniriche, ricorre nella tua poetica narrativa il tema dell’infanzia difficile, argomento cardine anche dell’opera omnia di Taiyo Matsumoto, che hai ammesso di amare. Al di là delle imposizioni editoriali e del layout della tavola, quanta distanza noti tra i poeti del fumetto occidentale e quello orientale?
Mi sembra che nel fumetto giapponese ci sia più coraggio nell’affrontare l’interiorità dei personaggi spesso descritti senza prese di posizione morali. Questo non avviene solo nei gekiga ma anche in un’opera complessa come La fenice di Tezuka o nel fantascientifico Akira di Otomo. Penso sia un tratto peculiare di quel tipo di cultura, dove il senso del tragico è ancora molto presente.
Nei fumetti di Taiyo Matsumoto poi convivono diversi registri che un autore occidentale farebbe fatica a far coesistere con tanta abilità: c’è onirismo e realismo, innocenza e crudeltà. Questo restare “sul margine” è la cosa che più mi interessa della narrazione che viene dal sol levante, non solo nei fumetti. A parte queste differenze, trovo molto proficuo il dialogo silenzioso a distanza e penso che alla fine i punti di contatto siano più d’uno, anche tra autori che lavorano da un capo all’altro del mondo.

Hai lavorato per molti editori, sia in veste di illustratore che come autore completo. Influisce molto il ruolo dell’editor nello sviluppo di un’opera? L’uso del colore nelle tue ultime storie è stata una tua libera scelta o una pretesa editoriale per dare un tocco diverso al magnifico gioco di luci e ombre che caratterizza il tuo uso dell’inchiostro?
Ho sempre lavorato con bravi editor che entravano in punta di piedi nel mio lavoro, cercando di direzionarlo a seconda delle mie indicazioni o comunque sempre al servizio della storia. Ho iniziato a introdurre il colore nei disegni per l’illustrazione e solo dopo è entrato anche nei fumetti. In un racconto il colore diventa un ulteriore strumento narrativo ed è sempre stata una mia scelta a seconda del racconto o delle atmosfere. Devo dire che ultimamente mi sta tornando voglia di fare un libro totalmente in bianco e nero, magari il prossimo.
Negli ultimi anni, il mercato del fumetto in Italia ha visto una crescita quasi esponenziale, grazie al successo senza precedenti di Zerocalcare, i cui titoli hanno più volte scalato le classifiche dei libri più venduti in Italia. Ritieni che questa visibilità abbia giovato a tutto il settore, spingendo il fumetto anche nelle mani dei più prevenuti, o in fondo le cose non sono poi tanto cambiate?
A un livello molto superficiale lo fa, dopo un lungo periodo in cui il fumetto era entrato in una zona d’ombra, ogni elemento che porta visibilità è importante. D’altra parte però se si vuole fare del bene al fumetto bisogna anche iniziare a operare dei distinguo: non possiamo pretendere che Zerocalcare abbia il compito di trainare un intero settore.
Non ne faccio un giudizio di merito naturalmente, ma è una visione molto “liberista” della cosa: si lascia al mercato il ruolo principale. Anche perché se un lettore ricerca nei mei libri le stesse emozioni che prova nel leggere Zerocalcare rimarrà molto deluso. A questo punto occorre anche spiegare che il fumetto è un linguaggio complesso e con molte sfaccettature, come il cinema e la letteratura. Lo si deve fare nelle scuole, nelle biblioteche, nelle librerie, nei luoghi di cultura e non solo.

In un dialogo con Pietro Scarnera, hai detto: «Da bambino, il fumetto era il mio cinema». L’eco del cinema permea in un certo senso tutta la tua produzione: La coda del lupo profuma del cinema rurale di Ermanno Olmi e Alice Rohrwacher; L’incanto del parcheggio multipiano rimanda al cinema impegnato di Ken Loach e Kaurismaki, mentre Cosmo, sebbene si sviluppi su binari diversi, ricorda la trama di Gakko IV – l’ultimo tassello della tetralogia di Yamada Yoji dedicata ai deficit dell’apprendimento, che parla di un quindicenne problematico che, deluso dalla società in cui vive, decide di scappare di casa in cerca dell’albero più antico del Giappone. Quale delle tue storie vedresti più adatta per il grande schermo?
Ho un’idea “immersiva” del fumetto. Tutto deve scorrere senza che il lettore se ne accorga, come avviene in un film, dove sei catapultato direttamente nella storia. Forse per questo dentro i miei fumetti c’è sempre molto cinema. Per L’incanto del parcheggio multipiano mi sono state fatte diverse proposte e c’era l’idea di portarlo sul grande schermo, d’altra parte, per ambientazione e facilità di resa, si presta molto a essere tradotto in un film. Purtroppo il mondo del cinema è più complicato di quello del fumetto e il progetto per ora si è arenato. Contemporaneamente, un gruppo musicale assieme a un duo teatrale stanno lavorando su Cosmo per renderlo una performance tra recitazione, animazione e musica. Sono molto contento se qualcuno vede un possibile sviluppo oltre la carta delle mie storie.
Sei sensibile ai problemi che attanagliano il mondo. Lo dimostrano le iniziative di solidarietà alle quali hai partecipato negli anni, dalla raccolta fondi per Gaza a Matite per Riace. Non è da tutti.
Partecipo a queste iniziative con molta naturalezza e se posso dare il mio contributo anche attraverso qualche disegno o gli strumenti che so utilizzare lo faccio con molto piacere. È una cosa che farei comunque anche se non facessi il mestiere del disegnatore-fumettista.

Prossimamente per Oblomov Edizioni sarà pubblicata la tua ultima opera, La tempesta. Ci puoi dare qualche anticipazione?
La tempesta è un racconto che parla di perdita dell’innocenza. Protagonisti saranno un ragazzo, una coppia di mezza età, una casa su un lago, un quadro misterioso e appunto un temporale improvviso. In questa opera il lato onirico o comunque fantastico è più sfumato rispetto ai miei precedenti libri, anche se penso riecheggi nelle atmosfere e nei richiami della natura. Forse è il racconto più triste che ho disegnato e scritto, e anche se so che è un periodo dove si ha meno voglia di questo genere di narrazione, spero possa funzionare lo stesso quasi come un trattamento omeopatico.
Articolo originariamente pubblicato su Diari di Cineclub 100 e qui riproposto in una versione editata.
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