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Mondi POPTelevisione"Non siamo più vivi" fotografa le storture della società contemporanea

“Non siamo più vivi” fotografa le storture della società contemporanea

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Dopo il grande successo di Squid Game, su Netflix è ora disponibile Non siamo più vivi, una nuova serie tv sudcoreana che sta riscuotendo un notevole interesse. Anche in Italia, dove al momento è la serie più vista sulla piattaforma di streaming.

Non siamo più vivi è tratta da un fumetto, un webtoon intitolato Now at Our School di Joo Dong-jeun, pubblicato dal 2009 al 2011 in 130 capitoli. I webtoon sono i fumetti digitali coreani che stanno facendo numeri impressionanti sia in termini di vendite che di ispirazione per film e serie tv.

La storia è piuttosto semplice: un gruppo nutrito di ragazzi, ragazze, ma anche adulti cerca di sopravvivere a un’apocalisse zombi che esplode, improvvisa, nella scuola della città di Hyosan. Sopravvivere diventa una sfida quasi impossibile, quando orde di morti viventi ti inseguono per mangiarti o quando, improvvisamente, il virus che ha dato il via all’apocalisse decide di mutare.

Non siamo più vivi è una serie composta da dodici episodi, tutti mediamente lunghi (si va dall’ora alla quasi ora e mezza). Quindi la sua fruizione si discosta da quella di serie più sintetiche, in cui il binge watching diventa elemento funzionale. Qui, la durata è anomala. Eppure, il coinvolgimento e la struttura narrativa sono pensati per tenere col fiato sospeso lo spettatore.

In Non siamo più vivi c’è un po’ di tutto. C’è soprattutto una mitografia legata al genere horror e alla figura degli zombi in particolare, che qui viene rispettata e, talvolta, tradita. In generale c’è una grande attenzione per quelle che sono le direttrici del genere, che solitamente puntano a creare un senso claustrofobico generato dalla costante minaccia che perseguita i protagonisti. La serie, in tal senso, eccelle nel saper inventare situazioni intriganti, momenti con cui mettere in difficoltà il gruppo, che comunque riesce sempre a trovare il modo di reagire e di sopravvivere, anche quando sembra impossibile. 

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Quando si parla di zombi è impossibile slegare il discorso da una riflessione più politica e sociale. La figura moderna di questi morti viventi è nata a fine anni Sessanta con George A. Romero, regista di La notte dei morti viventi e, più avanti, di alcuni titoli che hanno influenzato enormemente l’immaginario zombesco: Zombi, Il giorno degli zombi, La terra dei morti viventi e anche il più recente Le cronache dei morti viventi

Romero, più di altri autori, è stato in grado di usare la figura del morto vivente in chiave strettamente politica e sociale, vedendo in questo essere che perseguita a replicare i gesti quotidiani senza comprenderne il motivo (ma spinto da una gran fame) l’icona più riuscita dell’uomo contemporaneo figlio del capitalismo.

Gli zombi sono sempre stati fonte di grandi riflessioni sulla Storia e sulle idiosincrasie della modernità, anche quando non erano raccontati dallo stesso Romero. Esempi recenti e riusciti sono 28 giorni dopo di Danny Boyle (la cui velocità dei morti viventi ha ispirato Non siamo più vivi) o lo splendido e misconosciuto Il serpente e l’arcobaleno, film diretto da Wes Craven (il papà del Freddy Krueger di Nightmare), con cui il regista ha interpretato in chiave allegorica e horror il regime haitiano. 

Non si sottrae da questo discorso Non siamo più vivi. È evidente sin da subito che la serie racconti le grandi difficoltà dei giovani in un ambiente, quello scolastico, che dovrebbe essere inclusivo e accogliente e che spesso e volentieri è il territorio di una guerra quotidiana fatta di competizione, bullismo, cattiveria, emarginazione, arrivismo. Il mondo raccontato nell’incipit della serie è già morto, solo che non lo sa ancora. 

Il modo in cui la serie mette in scena la spietatezza dei rapporti nell’ambiente scolastico espleta le intenzioni concettuali di una serie che, dietro al genere e all’intrattenimento, racconta molto del presente. E ciò che emerge, alla fine dei dodici episodi, è tanto sconsolante quanto vero: Non siamo più vivi fotografa il definitivo scollamento fra le giovani generazioni e il sistema (politico, sociale, militare, educativo).

Nella serie è poi possibile trovare molti elementi di similitudine – dall’ambientazione scolastica ad alcuni temi di stampo etico e sociale – con altri fumetti, in particolare il manga High School of Dead, scritto da Daisuke Satō e illustrato da Shōji Satō, edito in Giappone da Kadokawa Shoten e pubblicato anche in Italia da Planet Manga.

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La messa in scena, i cliffhanger, la rappresentazione dell’ambiente, le sequenze d’azione e il modo di dare profondità ai personaggi della serie tv devono molto ai manga. Per esempio nella costruzione del quadro dell’immagine in alcuni momenti cruciali, così come nell’uso del fuori campo, delle pose di alcuni personaggi e della rappresentazione degli scontri, che assomigliano molto di più a quelli dell’universo fumettistico che della Settima Arte.

Non stupisce, quindi, che Non siamo più vivi affascini soprattutto chi dialoga quotidianamente con gli stessi media da cui la serie tv prende spunto: il fumetto, ma anche i videogiochi. E sotto questa luce che è possibile giustificare alcune forzature narrative che, talvolta, emergono nel corso della storia.

La serie dura troppo e si dilunga nella seconda parte, ma conserva tutta la crudeltà e la lucidità nel rappresentare le storture della società contemporanea. Una società malata genera mostri, e solo i giovani, che hanno vissuto sulla loro pelle l’insensibilità e il disinteresse del mondo adulto, possono ricostruire la base per un mondo migliore. A partire dall’accettazione del diverso e dell’altro da sé.

Leggi anche: “The House”, il film in stop motion da vedere su Netflix

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