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Intervista a Takehito Moriizumi

di Ali Raffaele Matar

takehito moriizumi orecchio non dimentica coconino

Un viaggio in India. Cibi piccanti, voci incomprensibili, un amore nato e finito per caso. Eppure, l’orecchio non dimentica. Una proposta di matrimonio, ombre cinesi, traslochi e lo scorrere inesorabile del tempo. Eppure, l’orecchio non dimentica. Sono storie e frammenti di memorie lontane, di uomini e donne comuni, quelle che si susseguono nella raccolta di racconti nostalgici intitolata L’orecchio non dimentica.

Opera d’esordio di Takehito Moriizumi, vero poeta grafico che si muove nel campo del fumetto più sperimentale, lontano dai tradizionali canoni del manga, ma impregnato di una sensibilità tipica dei migliori artisti nipponici, L’orecchio non dimentica si contraddistingue nel panorama manga per le sue storie oniriche, flautate, sospese in un limbo spazio-temporale che si poggia sulle linee tratteggiate dai suoi pennelli.

In occasione della recente pubblicazione da parte di Coconino Press della sua opera, abbiamo colto l’occasione per intervistare l’autore. Takehito Moriizumi ha raccontato i suoi esordi e le sue influenze, parlando apertamente del suo approccio al lavoro e spiegando la sua poetica, definita “dell’assenza”, che deriva in parte da un attento studio del cinema. E confessa la sua passione per i film e i fumetti italiani.

Il primo dettaglio che salta agli occhi, guardando le tue tavole, è lo stile etereo e raffinato che contraddistingue le tue illustrazioni. Uno stile che ricorda vagamente quello usato da Emmanuel Guibert per La guerra di Alan. Un unicum, rispetto allo stile conformista della maggior parte dei manga commerciali. Cosa provi quando i lettori e i critici si focalizzano più sul tuo stile che sulle tue storie?

Lo stile di disegno è come lo stile di un romanzo: basta leggere una riga, a volte, per riconoscerne l’autore. La stessa cosa vale per il fumetto. È bello capire di chi è un‘opera osservando solo le immagini.  Per me è un bene che io sia tanto legato al disegno. È forse per questo che i miei disegni appaiono “originali”.

Da che ho memoria, ho sempre amato disegnare. Da bambino, frequentavo lo stesso corso di disegno di Sayoko Kakekake (Vola, Sayoko, vola – uno dei racconti de L’orecchio non dimentica) ma, verso gli undici anni, i miei genitori mi hanno costretto a lasciare quel corso e, alla fine, ho smesso di fare pratica. A venticinque anni, ho ripensato a quanto mi piacesse disegnare e ho ripreso in mano le matite. Ho subito disegnato fumetti. Non mi accontentavo di realizzare una sola illustrazione. Anche realizzare un quadro, a volte, è una gioia immensa. È questo il motivo per cui continuo a disegnare a mano. Dopotutto, è divertente.

Il bello non sta nel tirare fuori un’immagine dalla testa: nel disegnare, ci sono istanti in cui accade qualcosa di inaspettato che va oltre l’immagine che avevo in mente. È grandioso. Nel mio caso, seguo una tecnica particolare: mischio l’acqua all‘inchiostro e con uno stuzzicadenti (o delle bacchette) lo estendo per disegnare i dettagli. Il bello è che non ho alcun controllo sul risultato finale. Questa mancanza di controllo va al di là delle mie intenzioni ed è irresistibilmente interessante. Sarebbe fantastico se i lettori potessero apprezzare il tratto distorto e le imprecisioni non volute, così come la forza e la debolezza delle linee.

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Una copertina di “Comic Beam” illustrata da Moriizumi

Sei tra le firme di punta di Comic Beam, rivista che ospita le opere di autori particolarmente interessanti che realizzano manga pregni di riferimenti occidentali – come Thermae Romae di Mari Yamazaki, ispirato agli antichi romani, le opere lowbrow di Atsushi Kaneko, che non nasconde il suo amore per Lynch, e Emma di Mori Kaoru ambientato nell’età Vittoriana – anche i tuoi lavori sono intrisi di cultura occidentale. Come mai in Giappone gli autori ricercano questi riferimenti occidentali, mentre fuori molti fanno “euro-manga”, copiando il cosiddetto “stile manga”?

Nella storia del manga, non si può ignorare che le strisce americane, i film di Hollywood e la Disney abbiano avuto forte influenza su Tezuka (Il padre del manga moderno). Il fumetto giapponese non è affatto originale e non sarebbe esistito senza influenze straniere. Il manga si è diffuso durante il boom economico grazie alle riviste di manga, note per essere di facile lettura, studiate per spingere a comprare il numero successivo, la settimana dopo.

C’è un treno sulla linea Yamanote a Tokyo dove la distanza tra le stazioni è di circa due minuti. Per questo, nelle riviste come Shonen Jump, i manga sono concepiti in modo che un episodio possa essere letto di fermata in fermata. Ci vogliono due minuti per leggere un capitolo di Dragon Ball o di Capitan Tsubasa (Holly e Benji). È questa la leggibilità media di un manga commerciale. È naturale, gli autori di manga mainstream hanno subìto influenze dall’estero. Otomo, Taniguchi e Urasawa sono chiaramente influenzati da Moebius che è francese. E lo stesso vale per Miyazaki.

Penso sia ovvio che, a loro volta, artisti d’oltreoceano siano attratti da talenti come Tezuka, Otomo e Miyazaki. Questo accade non solo nei fumetti ma in ogni campo artistico. Ad esempio, Kurosawa ha imparato molto dai film di John Ford e Spielberg, a sua volta, è stato influenzato dai film di Kurosawa. L‘arte supera i confini nazionali. Mi sono imbattuto una volta in un manga africano. L’autore amava i manga, si percepiva. Le vicende erano ambientate in una scuola giapponese anche se i personaggi e le ambientazioni restavano africani.

Per me, si è trattata di una scoperta interessante. Per quell’autore, le scuole giapponesi non sono che luoghi di fantasia. Sono certo, quindi, che i manga ambientati in Europa disegnati da giapponesi possano sembrarvi strani. Tuttavia, anche questa è una delle peculiarità del manga. Non credo si possa negare. Piuttosto, tali commistioni concedono molte libertà. Penso alla casa dove vivono Satsuki e Mei nel film Totoro di Miyazaki, una casa a metà tra lo stile giapponese e quello occidentale, talmente ben combinata da sembrare familiare.

In Giappone esiste proprio uno stile apposito che lo delinea, “l’architettura eclettica giapponese-occidentale”. Così, da sempre, mescoliamo cose estranee alla nostra cultura. Personalmente, adoro i fumetti stranieri. Ne leggo molti. A pensarci bene, il primo fumetto a cui mi sono appassionato è stato Father and Son di E.O. Plauen. Avevo circa dieci anni. Verso i vent’anni, sono partito in Europa portandomi dietro solo uno zaino ed è stato allora che sono rimasto stregato da Piero di Baudoin, che avevo trovato in una libreria francese. Amo Sharaz-De di Sergio Toppi, tradotto anche in giapponese. Penso di esserne stato molto influenzato.

Comic Beam valorizza l’individualità degli autori, più di ogni altra rivista di manga. Ammetto di amare molti degli autori che pubblica, come Atsushi Kaneko, Mari Yamazaki, Kaoru Mori, Ranjo Miyake, Mayuka Okuyama, Chisumi Yasunaga, Suehiro Maruo, Yoko Kondo, Naoto Yamakawa, Gin Miyoshi… Sono tutti grandi artisti. Mi piacerebbe parlare di ciascuno di loro.

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La locandina del film “Hanagatami”

Al pari di Atsushi Kaneko, anche tu nutri un fascino per il cinema. Hai illustrato varie locandine, come quella di Hanagatami, il penultimo film di Nobuhiko Obayashi, regista di fama internazionale noto per House (1977). Difatti, leggendo i tuoi fumetti, si ha la sensazione di guardare un film sperimentale. Quanto ha contribuito il cinema alla tua carriera di artista?

Penso di aver imparato più dai film e dai romanzi che dai manga. In un film, ci si chiede sempre cosa si può mostrare in una inquadratura. Registi classici come Kurosawa e Hitchcock, per esempio, sono per tutti uno scrigno di idee. Ti fanno capire in che punto serve puntare le luci, dove sistemare i personaggi e come il tempo può modificare le emozioni. Certi classici restano ancora oggi insuperabili. Non sprecavano mai neanche una scena e, per questo, sono molto educativi.

Per esempio, in The Discarnates del regista Nobuhiko Obayashi, il protagonista versa del whisky a un amico che, nella scena successiva, gli confessa che sta uscendo con la sua ex moglie e, imbarazzato, lascia in fretta l’appartamento. Il bicchiere di whisky è posto in un angolo azzeccato dell’inquadratura. E anche se quel personaggio ha lasciato la scena, la presenza del bicchiere lascia un segno del suo passaggio.

Ricordo di essere rimasto colpito dal fatto che si possa trasmettere visivamente questo tipo di “assenza”. In questo modo, riesco a disegnare pensando di rendere ogni immagine significativa, senza sprecare vignette o battute. Fondamentalmente, mi ritengo un artista che lavora per “sottrazione”. Se ci sono dieci cose da dire, restringo il campo a tre. Con queste tre cose, riesco a esprimermi in modo da poter pienamente far comprendere le cose, non per dirne dieci, magari, ma sei o sette. Preferisco un lavoro nitido a uno ridondante. Sono felice di fare fumetti come se facessi film.

Fumetti, arte, cinema e letteratura: sembra che tu le abbia provate tutte. Hai realizzato di recente un manga tratto da un racconto di Murakami, La lucciola. Anche in Italia, da alcuni anni, stanno vedendo la luce volumi che contengono racconti di Murakami, accompagnati dalle illustrazioni di celebri artisti come Igort e LRNZ. Che sensazione provi a veder associati i tuoi disegni al nome di uno scrittore celebre in tutto il mondo come Murakami?

Per me, Murakami è un vero toccasana. Ammetto di non aver letto letteratura contemporanea giapponese finché non sono entrato all’università. Così, una volta, sono andato in libreria col pensiero di rimediare e ho preso dei libri di Murakami. Quando ho comprato e letto la sua prima opera, Vento & Flipper, ne sono rimasto scioccato. La lettura mi aveva talmente assorbito che tendevo a leggere un libro alla volta, quasi ogni giorno. Viaggiavo sempre con uno zaino in spalla, ai tempi dell‘università.

Ho letto Murakami girando il mondo: Norwegian Wood in Messico, L’elefante scomparso e altri racconti in Thailandia, L’uccello che girava le viti del mondo in Nuova Zelanda e Fiji e così via. A quei tempi, pensavo molto al futuro e non sapevo che tipo di adulto sarei diventato. Sono state le storie di Murakami a sostenermi e guidarmi. Il personaggio principale dei romanzi di Murakami è un individuo che vive nella convinzione che continuerà per la sua strada anche se dovesse perdere o soffrire. Ho pensato che avrei voluto essere un uomo del genere e, in questo senso, l’archetipo che appare nei romanzi di Murakami è diventato un modello per me. Sento come se mi avesse salvato. Che tipo di adulto sarei stato se non avessi letto i romanzi di Murakami? Non vorrei nemmeno pensarci.

Quando ho avuto il permesso per trasporre La lucciola in un manga, mi sono sentito estremamente felice di essere un mangaka. L’ho disegnato con quante più idee e pensieri possibili, pensando al me stesso universitario. Leggo di continuo libri e fumetti ma a volte ci sono momenti in cui non riesco a leggere nulla. Ad eccezione dei libri di Murakami. È strano, no?

Durante gli anni Ottanta, il leggendario musicista Ryuichi Sakamoto si è rivolto al fumettista italiano Igort per realizzare un fumetto. Se invertissimo i ruoli, con quale musicista o artista italiano vorresti collaborare?

La prima cosa che mi viene in mente se penso a un artista italiano è Mario Bava. Quando avevo vent’anni, guardavo molti film dell’orrore. A quei tempi, non mi provocavano nulla. Li guardavo per curiosità e semplice interesse. Ma quando ho guardato per la prima volta Reazione a catena, ho avuto paura già all’inizio del film. È inquietante e spaventoso, anche se inizia solo mostrando una donna su una sedia a rotelle che si muove in una villa. Mi ero chiesto cosa fosse quella sensazione che mi sconvolgeva. Sono riuscito a guardarlo fino alla fine, ma da allora qualcosa è cambiato e non riesco più a guardare film dell’orrore. Ho avuto un tale shock! Sfortunatamente, non potremmo collaborare essendo lui ormai morto, ma mi piacerebbe trasformare un‘opera di Mario Bava in un manga.

Per inciso, il regista Nobuhiko Obayashi avrebbe voluto usare come nome d’arte Mario Baba quando ha diretto House, il suo film d’esordio, per omaggiare Mario Bava. Alla fine, ha esordito con il suo vero nome, ma avrebbe voluto farsi chiamare così. A quei tempi, nessuno conosceva la parola horror in Giappone. Quei film venivano inglobati in un genere chiamato “mistero e illusione”. Anch’io preferisco questo termine. Se lo ricordate, anche la zia di House sta su una sedia a rotelle: è un omaggio a Bava.

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Visto quanto ami l’Europa, avrai apprezzato il fatto che i tuoi lavori stanno attirando l’interesse del pubblico francese e italiano. Gli italiani ora ti conosceranno con L’orecchio non dimentica. Chi è, secondo te, il lettore ideale delle tue opere?

Il mio primo viaggio in Italia risale al periodo in cui dovevo laurearmi. Il mio volo arrivava in Tunisia. Così, da lì, ho raggiunto la Sicilia in barca. Ecco perché la Sicilia è stata per me “la prima Europa”. Ricordo in quel momento di essere rimasto sopraffatto da un’enorme struttura in pietra. Credo fosse una chiesa, ma in ogni caso mi aveva sorpreso la sua grandezza. Dopotutto, in Giappone ci sono pochi edifici in pietra. Sbalordito, mi sono fiondato in un bar. Ho chiesto un panino e un caffè e sono uscito senza pagare. Avevo la testa per aria. Il barista allora mi ha inseguito. Avevo poche monete con me, quindi, con un sorriso lui mi ha detto: “Ne basta solo una”, e ha raccolto la moneta dal mio palmo.

Per me, l’Italia è questo tipo di paese: il travolgente paesaggio in pietra e le persone estremamente gentili. Quando ho rivisitato l’Italia nel 2016, quell’impressione non è cambiata. Quando sono diventato disegnatore di manga e ho pubblicato i miei lavori, non avrei mai pensato che sarebbero stati letti da persone all’estero. Soprattutto Francia e Italia sono paesi in cui ho molti ricordi. Mi sembra un sogno che una tale fortuna abbia raggiunto la mia vita.

Nel 2016, ho comprato tre fumetti italiani prima di tornare a casa. Tutti e tre erano editi da Coconino Press, quindi mi sento legato a questo editore. Vorrei ringraziare l’editore, il traduttore (Paolo La Marca) e tutti coloro che sono coinvolti nel processo di pubblicazione. Non posso fare a meno di attendere con ansia che L’orecchio non dimentica venga letto in Italia. Sebbene ci siano differenze nei caratteri e nei generi, le differenze individuali vanno al di là della nazionalità. Non tutti i giapponesi sono docili, obbedienti e ordinati. E non tutti gli italiani cantano con le braccia incrociate o lasciano tutto alle spalle per amore.

Penso che chi leggerà il mio volume abbia qualcosa in comune con me. Forse preferisce il silenzio al rumore, la pace alla guerra e ama essere sé stesso piuttosto che omologarsi. Spero sempre che la solidarietà vada oltre i confini nazionali. Ho un sogno quando si parla di un mio lettore ideale. Vorrei che un lettore mi dicesse: “Volevo leggere uno dei manga che ho trovato in casa e, tra tutti, ho scelto un manga di Moriizumi”. Sarebbe inaspettato. Voler leggere i libri e i manga dei tuoi genitori e ricordarli, leggendo i miei manga. Dopotutto, il modo in cui si incontra un’opera varia di volta in volta. E, anche in questo genere di cose, ritengo che il lettore tipico vada al di là del mio “controllo”, così come il mio stile supera le mie intenzioni e i miei gusti. Tutte queste cose non fanno che arricchirmi.

Articolo originariamente pubblicato su Diari di Cineclub 99 e qui riproposto in una versione editata.

Leggi anche: La recensione de “L’orecchio non dimentica”

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