“Uncharted” sembra più un videogioco che non un film

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La battuta migliore suona a vuoto, all’uscita dall’anteprima di Uncharted in una Milano notturna imbruttita ancora dalla pandemia e dal clima instabile: «Sembra più un videogioco che non un film».

La forza e la debolezza estrema di Uncharted, il film diretto da Ruben Fleischer con protagonista il duo composto da Tom Holland e Mark Wahlberg al quale fanno da contorno la modesta Sophia Ali, un ottimo Antonio Banderas e l’esplosiva Tati Gabrielle, è tutta qui. È un film di quelli grossi, tratto da un videogioco. E se fare film dai videogiochi o addirittura dalle attrazioni dei parchi divertimento può essere una buona idea (vedi il successo di Jack Sparrow e de I pirati dei Caraibi), quando nel testo originale c’è troppa trama può diventare una complicazione. Ma qui bisogna fare un passo indietro e rimettere a posto un po’ di cose.

Innanzitutto, il casting di questo film. Conosciamo tutti Tom Holland perché questo è il suo momento: Spider-Man sta facendo furore, l’attore si è fidanzato con la co-protagonista del suo veicolo per la fama (Zendaya), ha creato una “magic couple” da far impazzire qualsiasi rotocalco dall’Artide all’Antartide ed è alla ricerca di una affermazione definitiva che gli consenta anche di far cassa con poca fatica.

Conosciamo tutti anche Mark Wahlberg, che ha esattamente il doppio degli anni di Holland (è nato il 5 giugno del 1971 contro il 1 giugno del 1996 di Holland, cioè 50 contro 25 anni), qualche centimetro in più e un successo che pareva essersi bloccato con la pandemia. Nel 2017 Wahlberg fu l’attore più pagato d’America, ma nel 2020 sembrava già sull’orlo del dimenticatoio, che per una star è peggio della bancarotta. Infine, Antonio Banderas, che si muove lentamente nel cinema, portando una maschera strana, indefinibile, fatta di una gentilezza antica e di una forza evaporata: a tratti sembra quasi l’ultimo Marcello Mastroianni, invecchiato e senza più il suo Federico Fellini.

Di questo film si era iniziato a parlare addirittura nel 2008, quando il produttore israeliano Avi Arad aveva immaginato che si potesse fare qualcosa come – se non meglio di – Tomb Raider, il franchise con Lara Croft/Angelina Jolie che macinava successi, e di Resident Evil, che dal 2002 stava diventando un affare di famiglia tra l’autore e regista Paul W. S. Anderson e la protagonista nonché sua compagna nella vita Milla Jovovich.

Il film doveva essere un veicolo per portare sullo schermo la serie di videogame più importante per l’affermazione della PlayStation di Sony. Anzi, di PlayStation 3 e PlayStation 4, che devono buona parte del loro successo alla potenza di fuoco dei cinque titoli (quattro più un prequel) della serie Uncharted. E qui c’è il vero problema. Perché, paradossalmente, quando si dice che Uncharted (il film) sembra quasi un videogioco, in realtà gli si sta facendo un complimento.

La saga di Uncharted, che segue le avventure del cacciatore di tesori Nathan Drake, è un romanzo popolare fatto e finito, esattamente come lo era Tomb Raider, ma anche come sono certe narrazioni a fumetti dal passo forte e deciso, tipo Largo Winch, o romanzi d’azione come la serie del Professionista di Stephen Gunn, alias Stefano Di Marino. Avventura, esotismo, azione, più o meno violenza.

Nei videogiochi la struttura narrativa semplifica l’intreccio (relativamente, in realtà) per far emergere l’elemento performativo, che sia esso l’azione piuttosto che il puzzle e il ragionamento logico. Alla fine, però, si costruisce un universo più o meno coerente con una narrazione storicizzata, che prosegue nel tempo creando una serie continua di rimandi e allusioni alle precedenti avventure. Serve a dare un senso di identità e di partecipazione ai giocatori o ai lettori/spettatori.

Se pensiamo a quanto J.K. Rowling abbia lavorato su questo in maniera esemplare e sempre coerente, capiamo parte del fascino che Harry Potter è riuscito a esercitare su almeno tre generazioni di preadolescenti e adolescenti. (Qui invece falliscono molte produzioni statunitensi soprattutto di tipo seriale, che prendono alcuni elementi degli esordi di una narrazione e li portano all’estremo, trasformando personaggi e situazioni in maniera spesso grottesca nel disperato tentativo di dire «ehi, abbiamo una storia anche noi»).

Torniamo a Uncharted. Nei videogiochi la storia c’è, i personaggi anche. Anzi, sono due degli elementi forti della serie. Negli episodi sono riusciti a costruire caratterizzazioni molto ben fatte sfruttando motion capture e recitazione di attori di serie B (cioè non famosi) per dare ancora più profondità all’intreccio della storia. Credibili sino alla fine, come capita ad esempio in quelle serie tv fenomenali che hanno attrici e attori mai visti prima ma perfetti per la loro parte.

Il casting fatto da Naughty Dog è ottimo. La società di sviluppo di Santa Monica, in California, che sta dietro alla serie non è nuova a questi successi: aveva già creato Crash Bandicoot, la prima mascotte della PS1, ed era addirittura stata acquistata da Sony a suon di milioni per la volontà di non rischiare di perdere l’esclusiva del suo gioco di punta dell’epoca. I successi di The Last of Us e Uncharted non hanno fatto che dimostrare l’ottima scelta fatta dai dirigenti di Sony.

Uncharted si gioca come un tempo si sarebbe potuto leggere una serie di romanzi di Emilio Salgari oppure, per meglio dire, un lungo romanzo di Charles Dickens pubblicato a puntate su un quotidiano dell’Ottocento: una specie di Circolo Pickwick. Quello che intendo dire non è che la serie di videogiochi di Uncharted abbia la capacità critica per la società contemporanea che aveva il lavoro di Dickens (o lo stesso peso letterario, se è per questo) ma che generi un tipo simile di affiliazione e quindi di attesa quando si preparano i nuovi capitoli del gioco.

Se l’uscita di un nuovo fascicolo del feuilleton di Dickens era una specie di evento, con le famiglie che si trovavano nei cortili attendendo che chi aveva i mezzi per comprare il giornale tornasse per leggerlo a chi non ne aveva la possibilità, così anche la pubblicazione di un nuovo capitolo delle avventure di Nathan Drake, erede di Sir Francis Drake, è l’evento atteso nei soggiorni e nei salotti dagli adolescenti, desiderosi che un qualche amico possessore di PlayStation acquisti il titolo attorno a cui riunirsi.

Arriviamo al film. La storia è una rimasticatura di quella di Uncharted, ed è corretto che sia così, anche se viene il sospetto che molto è stato fatto per dare spazio più che altro a Tom Holland e al tipo di immagine e personalità che porta sullo schermo (e dovrebbe fare attenzione: quando un promettente attore fa la parte del barman acrobatico salta un piccolo squalo bianco e finisce come Tom Cruise in Cocktail: poi ci vogliono trent’anni per ricostruirgli una carriera). Wahlberg sembrava un impiccio ma si rivela un attore molto più dotato per questo tipo di film di quanto la sua incapacità di recitare con un range accettabile lasciasse immaginare (Wahlberg ha solo due espressioni, tre se si mette anche il cappello).

Delude invece Sophia Ali, ma non possiamo indicare troppo chiaramente perché, dato che faremmo spoiler della trama (comunque: è una triglia). Delude leggermente Banderas, che però ha sempre un guizzo di luce ambigua in fondo agli occhi (grazie al suo losco passato con Pedro Almodovar, quello sì che è un regista che fa cinema) e che nei duetti con Tati Gabrielle aiuta l’attrice ad arrivare dove francamente ben poche Bond Girls avrebbero mai sognato di arrivare.

Posso invece dire solo “bravá”, con l’accento francese, alla giovane attrice di San Francisco, che ha già al suo attivo un po’ di cose di rilievo, come Le terrificanti avventure di Sabrina e The 100, ma ancora non aveva messo in scena la grande duttilità del suo sguardo. Gabrielle riesce a tirare fuori espressioni complesse ed emozioni genuine, quelle tre volte che deve recitare la parte della cerbiatta stupita. Se un giorno le scriveranno una parte degna di questo nome, vedremo veramente di che stoffa è fatta.

Uncharted è un vero reboot cinematografico di un videogioco? Un po’ sì, dicono, ma non troppo. L’effetto è compromesso da un eccesso strano: troppo realismo e al tempo stesso troppa finzione, che si mescolano con effetti stranianti. Non aiuta la trama, che procede per salti logici. A tratti entrando in una scena sembra quasi di aprire una pagina della Settimana Enigmistica con il lapis in mano chiedendosi: «Vediamo un po’ come si può fare a risolvere anche questo puzzle». Le emozioni hanno la consistenza di bolle di sapone ma le ambientazioni sono super studiate e fatte molto bene, anche se vengono consumate con la velocità di un telefilm più che con quella di una produzione cinematografica.

In generale, si avverte un vuoto profondo, quasi un senso di inutilità, oltre a qualche errore strategico, tipo voler far procedere la trama a suon di puzzle logici da risolvere inframmezzati da qualche inseguimento-lotta-sparatoria, neanche fosse una sceneggiatura di Dan Brown. E se uno volesse trovare un senso, una chiave di lettura, un’idea di fondo di questo film, rimarrebbe profondamente deluso. Alla domanda: «Ma alla fine, di che parla veramente il film di Uncharted? Qual è l’idea? Qual è il messaggio?» la risposta è che non c’è. Perché? Be’, perché «sembra più un videogioco che non un film».

Antonio Dini, giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. La sua newsletter si intitola: Mostly Weekly.

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