
Da quando è stato definito “L’ultimo intellettuale” da L’Espresso, il fumettista Michele Rech in arte Zerocalcare ha acquisito, suo malgrado, l’autorevolezza per parlare di qualsiasi argomento. Sempre, ovviamente, nel suo modo un po’ sfuggente, da eterno ragazzo di Rebibbia capitato un po’ per caso nel dibattito, ancora incredibilmente inconsapevole del successo che gli gravita intorno da molti anni ormai. Con quel suo parlar romanesco che abbassa comunque il livello del discorso e l’alter-ego Armadillo sempre al suo fianco a sfotterlo bonariamente, casomai qualcuno pensasse che stia prendendosi troppo sul serio.
Non so fino a che punto chi lo segue lo consideri davvero un guru, e fino a che punto quella copertina su L’Espresso voleva davvero incoronare il fumettista in questo ruolo un po’ difficile, antipatico più che scomodo, o suonare piuttosto come una provocazione. Un campanello d’allarme rivolto soprattutto a chi, intellettuale, per professione o vocazione, ci si sente davvero ma – al contrario di Zerocalcare – non agisce per nulla sulla realtà, non costruisce un pensiero, non fa vendere libri e giornali.
A proposito di intellettuali, viene in mente un paragone un po’ azzardato con uno che invece non rifiutava questo ruolo e anzi lo rivendicava drammaticamente, uno di quelli più citati dai boomer novecenteschi come me, e spesso a casaccio: in un celebre pezzo uscito sul Corriere della Sera nel novembre 1974, dal titolo “Il romanzo delle stragi”, colui che fu per davvero l’ultimo intellettuale di questo Paese, Pier Paolo Pasolini, esprimeva in modo chiaro la sua posizione e al contempo la sua frustrazione, la sua condanna di vedere tutto, di riconoscere le connessioni della realtà che stava vivendo, senza poter di fatto agire su nulla. «Io so», diceva Pasolini. «Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.»
Invece, il nostro ultimo intellettuale fumettaro non solo non ha prove, né indizi, ma ribadisce con chiarezza il fatto di non sapere nulla. Ecco, Zerocalcare non sa. Abbiamo imparato ad accettare la sua simpatica inadeguatezza, la sua incapacità di distinguere la realtà dei fatti, se non attraverso la sua lente distorta, il suo immaginario tardo-adolescenziale che produce comicità e identificazione.
Lo abbiamo imparato dai suoi disegnetti, dai suoi libri e dalla serie su Netflix: che si tratti della guerra in Siria o del suicidio di una sua amica di gioventù, Zerocalcare (o meglio il personaggio che prende il nome di Zerocalcare, all’interno delle storie prodotte dall’autore Zerocalcare) si troverà sempre a disagio, incapace di focalizzarsi sulla realtà, «cintura nera di come si schiva la vita», col medesimo approccio con cui da autore rifiuta di essere chiamato intellettuale, o di riconoscersi come fumettista di successo.
Lo ribadisce anche nella sua storia più recente, Strati, uscita da qualche giorno su L’Essenziale, il settimanale dedicato all’Italia della redazione de L’Internazionale. Zerocalcare legge, come tutti noi, su un giornale la vicenda di Ugo Russo, un ragazzo di quindici anni ucciso a Napoli dopo un tentativo di rapina, con una pistola giocattolo, ai danni di un carabiniere fuori servizio. Decide di raccontare questa storia, di mettere le cose in ordine: va a trovare il padre di Ugo Russo e ci riporta la sua testimonianza. E mentre lo leggiamo non possiamo fare a meno di immaginare, attraverso la nostra voce, la voce di Zerocalcare che doppia la voce del padre di Ugo Russo, come succedeva con tutti i personaggi nella serie tv di Netflix.
Strati di voci che si sovrappongono, strati di immaginari che si confondono uno sull’altro, a ricostruire una storia che non ambisce tanto a creare una verità, ma piuttosto un’immagine nitida, un disegno coerente, una rassicurante narrazione pop. La verità richiede di essere compresa, di essere saputa. Ma Zerocalcare non sa nulla: il suo lavoro non è capire la realtà, è immaginarla. O meglio provare, attraverso i suoi disegni, a rappresentare la realtà per i suoi lettori.
Tutta l’opera di Zerocalcare si basa su questo conflitto tra il suo immaginario (frutto a sua volta di strati di immaginari esterni: i programmi televisivi, i videogiochi, le merendine, Aranzulla o Marie Kondo) e la realtà che lo circonda, che gli chiede attenzione e lo obbliga ad aprire gli occhi: le strade di Rebibbia, o di Kobane, di Brescia o di Napoli.
Leggendo la notizia della morte di Ugo Russo sul trafiletto del giornale, il personaggio Zerocalcare costruisce una prima narrazione che è ovviamente fallace, perché basata su un immaginario distorto: i malviventi in un vicolo, i genitori morti di Bruce Wayne, i cattivi di Gomorra. Nella pagina successiva, la narrazione si sposta invece sulla percezione del fatto da parte dell’opinione pubblica: gli scarsamente attenti (quelli che «non gliene frega un cazzo») o gli incarogniti (quelli che «se lo meritava»).
Zerocalcare deve andare di persona nei luoghi dei fatti, deve guardare negli occhi i personaggi delle sue storie, per tradurre questo suo immaginario in qualcosa di reale, per sconfiggere una narrazione che lo porta sempre verso lo stereotipo. La sera della rapina è descritta come in una «fiction italiana di mamma Rai», i dialoghi sono inverosimili e mal scritti: l’unica ricostruzione che risulta attendibile è quella fatta dal padre di Ugo Russo. Fino all’evento decisivo, l’unico che non deve essere immaginato perché è indiscutibile: i tre colpi di pistola sul corpo di Ugo Russo, il suo cadavere trovato per terra, vicino al motorino, dietro al cassonetto della spazzatura, a otto metri dalla macchina del carabiniere.
Questo è il fatto, mentre tutto ciò che avviene prima o dopo o intorno al fatto, è narrazione, è una cattiva fiction scritta da sceneggiatori mediocri. Strati di narrazioni si accumulano a depistare le indagini, a tracciare percorsi immaginari, a collocare i buoni da una parte e i cattivi dall’altra. Il lavoro di Zerocalcare è il tentativo di superare il conflitto tra questo immaginario, che è anche il nostro, e la complessità del reale. Il suo lavoro da disegnatore, ovvero da produttore di immaginario, è molto diverso – molto al di sotto o molto al di sopra – di quello dell’intellettuale: non sondare la verità, ma lavorare sui meccanismi della finzione, sulle distorsioni che guidano i nostri giudizi, che cancellano i fatti o li trasformano in cattiva fiction.
Zerocalcare non sa nulla, non ci dice alcuna verità: ma traccia i segni di una storia che non sembra fatta per essere raccontata. Una storia “senza buoni né cattivi” che, forse, non interessa a nessuno. Non è nel suo segno, pop e rassicurante, che si trova la verità, ma più giù, in profondità, sotto strati e strati di cattiva immaginazione. Attraverso il suo segno, e il suo sguardo e la sua voce, questa storia ambisce a diventare vera.
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