«Arte!» Questa è la risposta che avrete se mai chiederete ad Alfredo Castelli un commento sull’Omino Bufo, l’opera più importante firmata dal suo pseudonimo, il Pitore di Santini sul marciapiede.

Il Castelli fumettista ha due facce. Una più seria – o meglio, più presentabile – con cui firma Martin Mystére, gli Aristocratici, l’Ombra, i saggi sul fumetto di inizio Novecento; l’altra, il lato oscuro, con cui riempie fogli di scarabocchi e battute demenziali.
L’Omino Bufo ne è l’emblema. Strisce disegnate malissimo, impregnate di umorismo che non fa ridere, contornate da omini che ne ridono a crepapelle. Giochi di parole da quattro soldi che Castelli non si sforzava nemmeno di disegnare in modo canonico, come aveva invece fatto per Scheletrino. Per la sua prima creatura, pubblicata nel 1965 in appendice a Diabolik, infatti, aveva cercato di imitare lo stile di Giorgio Rebuffi, fumettista creatore di Tiramolla e Pugaciòff, senza però grandi risultati: «A cercare di disegnare come Rebuffi senza saper disegnare viene una schifezza – ci ha confessato – e tanto vale disegnare già male».

Eppure, nella sua follia e anarchia, l’Omino Bufo ha uno stile molto chiaro. Castelli usava delle regole precise per i giochi di parole, simili a quelle dei classici vignettisti umoristici. Semplicemente, scriveva cose più sceme.
Ovviamente dalla striscia è assente tutto ciò che può ricordare il bel disegno. Non ci sono sfondi, chiaramente. Nessun tentativo di anatomie, non dico realistiche, ma nemmeno costanti tra una vignetta e l’altra. Quando compaiono personaggi famosi, come Mike Bongiorno o Vittorio Gassman, non sono minimamente riconoscibili, e sono necessarie didascalie o cartellini per permettere ai lettori di identificarli.

Nonostante questo, il disegno, nella sua esibita bruttezza, ha una certa regolarità: ne è la prova che qualche anno fa sono riusciti addirittura a produrre una statuina dell’Omino Bufo!
Mistero bufo
Come moltissime grandi invenzioni, anche quest’opera così geniale nacque per caso, esattamente 50 anni fa sulle pagine del Corriere dei Ragazzi. Castelli, allora venticinquenne, ne era il redattore tuttofare: teneva rubriche, revisionava testi, decideva i titoli delle nuove serie, si assicurava che il giornale andasse in stampa come previsto.
Un giorno, probabilmente all’inizio del 1972, controllando l’impaginato della rivista prima che andasse in stampa, si accorse che la testata della rubrica delle barzellette dei lettori si era scollata «dal trasparente su cui si montavano le pellicole [per la stampa] – ci ha raccontato Castelli – perciò la pagina stava uscendo senza titolo. Le cose allora erano più lente di adesso: per riscrivere il titolo, rifare il trasparente, rincollarlo lì sopra, ci voleva un sacco di tempo. Sicché ho disegnato direttamente io la pellicola, per così dire, sulla cosiddetta carta da ingegnere, quella semitrasparente. Una piccola striscia bufa dove c’era la memorabile battuta di un messicano che ausculta una noce e poi dice “Avete sentito il silensio della noce”, e l’ho messa al posto della testata».

C’è però un mistero legato a questo momento fondamentale della storia del fumetto italiano: non è chiaro dove sia stata pubblicata la striscia. Non se ne trova traccia sul Corriere dei Ragazzi dei primi mesi del 1972, né sul Corriere dei Piccoli del 1971 – prima che la testata cambiasse nome – o dell’inverno 1972, quando era un inserto del Corriere dei Ragazzi.
Giovanni Gaddoni, che ha compilato accurate cronologie del giornale del periodo, consultato direttamente da Castelli, ipotizza «che sia forse stato pubblicato in uno dei tanti altri inserti ed allegati di quei mesi, di cui non esiste che io sappia una precisa cronologia». Un’altra possibilità è che sia uscita solo su parte della tiratura, perché nel frattempo la testata fu recuperata e messa al suo posto, e che Castelli, Gaddoni e il sottoscritto abbiano soltanto copie “corrette”.
Castelli è certo, però, che la striscia sia uscita tra il gennaio e il marzo del 1972 perché, nonostante l’autore e la redazione non le avessero dato alcuna importanza, al Corriere iniziarono ad arrivare lettere entusiaste, insieme a moltissime battute “bufe” disegnate anch’esse con uno stile approssimativo. I lettori avevano capito il gioco e volevano farne parte.
Così, sul numero 14 del 2 aprile 1972, l’intera rubrica Tilt – realizzata da Castelli con Bonvi e Daniele Fagarazzi – fu sostituita da due pagine di battute surreali disegnate malissimo. L’avviso (o meglio, “aviso”) in apertura recitava: «I disegnattori e gli seneggiattori di Tilt sono in siopero, perciò la rubbrica è stata afidata a dei pitori che disegnavano santini sui marciappiedi» (sic).
Non solo l’Omino Bufo si impadroniva dello spazio di cui, negli anni successivi, sarebbe diventato uno dei protagonisti, ma nasceva anche lo pseudonimo del Mr. Hyde dello sceneggiatore milanese.

Adeso si ride!
L’Omino Bufo tornò due volte nel 1972, in un Tilt in agosto e per una vignetta sotto Natale. Ma già dal primo numero dell’anno seguente diventò una presenza fissa sul giornale, occupando il posto che gli spettava per nascita, ovvero la testata della pagina delle vignette.

Fu lì che, dopo qualche settimana di rodaggio, la striscia prese la forma che ne avrebbe decretato il successo: una vignetta che introduce l’argomento, un paio di svolgimento nonsense, infine un “aviso” che svela l’orrendo gioco di parole. A chiudere, solitamente, un omino che dice «Che bufo!» – da cui il nome della serie – o che dichiara serissimo «Io non rido mai».
La loro presenza, già dalla primissima apparizione nel 1972, secondo Castelli fu fondamentale alla riuscita della strip. «C’è una doppia ragione per ridere: primo, l’orrido gioco di parole; e secondo, l’ironia nello smontare il gioco di parole dicendo “Che bufo! Che bufo!”». Il lettore non ride tanto per la battuta quanto per l’omino che la legge e ride.
Questa formula, solo superficialmente cretina, ebbe un sincero successo presso i lettori. I tormentoni dell’Omino Bufo venivano ripetuti alla nausea dai ragazzini – e ricordati ancora oggi a 50 anni di distanza, come sa chiunque abbia un padre lettore del Corriere dei Ragazzi – che, non contenti, continuavano a mandare le loro sciocchezze alla redazione e spesso se le vedevano “disegnate” e pubblicate.

Francesco Artibani, che ha raccolto il testimone dell’Omino Bufo negli anni Novanta, spiega così questo successo:
«L’umorismo del Pitore di Santini è fatto di battute e giochi di parole che tutti – magari senza dirlo – fanno o hanno fatto e dunque ritrovarlo su carta è liberatorio, ti fa sentire meno solo, parte di una comunità di mentecatti anonimi che si ritrovano per ridere scuotendo la testa per la scemenza appena letta. L’Omino Bufo fa sentire i suoi lettori migliori dell’autore e questo, se ci pensiamo, non succede mai.»
Anche Castelli è della stessa idea: «Credo che avesse avuto un buon successo perché non metteva in soggezione il lettore. È disegnato come lo poteva disegnare un lettore: proprio male! Senza sapienza disegnatoria».
Le conseguenze furono il ritorno continuo del Pitore di Santini su Tilt, il diario scolastico “bufo” del 1974-1975 allegato al giornale, il calendario del 1975 (365 caselle piene di sciocchezze, uno spettacolo!) e la presenza dell’Omino Bufo in molte pagine del Corriere dei Ragazzi con cui non c’entrava nulla. «Piaceva molto a Francesconi, che era il direttore – ricorda Castelli – e allora mi faceva illustrare piccole rubriche, libri, eccetera. Battutine bufe e un omino che diceva sciocchezzine, accanto, ad esempio, alla recensione di un libro, per alleggerire sia graficamente sia testualmente la pagina.»
Inoltre, ricorda ancora l’autore, il suo contratto prevedeva un compenso fisso come redattore e sceneggiatore, a prescindere da quante pagine scrivesse al mese. I disegni, perfino quelli dell’Omino Bufo, erano invece pagati a parte: quel personaggio era quindi anche un modo per arrotondare, e Castelli comprensibilmente non faceva nulla per limitarne la colonizzazione del settimanale.

Chiuso il Corriere dei Ragazzi nel 1976, l’Omino Bufo tornò nel 1984 sul mensile di Lupo Alberto, e ancora nel 1992 sul Cattivik pubblicato da Acme/Macchia Nera, fondata da Silver e da Francesco Coniglio.
Oltre alle ristampe delle strisce “storiche”, su quelle pagine il Pitore di Santini si espresse in nuove battute sullo stesso tono. Con il personaggio ritornò anche l’abitudine di coinvolgere i lettori, invitati ufficialmente a mandare idee per la serie. Ancora una volta, i lettori apprezzarono, e uscirono diverse strisce firmate da altri “pitori” e ridisegnate dal maestro.

Pasagio di testimmone
In quegli anni collaborava con Macchia Nera un giovane sceneggiatore, con ambizioni mai sopite di disegnare fumetti, di nome Francesco Artibani. Era un fan di Castelli e del suo Omino Bufo, conosciuto su una collezione di Corriere dei Ragazzi «che girava in casa, regalo di un cugino più grande che si era liberato della sua collezione. In seguito, leggendo l’Eureka gestita da Castelli e Silver, ho potuto conoscere meglio la poetica del geniale Pitore di Santini ma ricordo – sempre negli anni Ottanta – una storia a fumetti serializzata sulle pagine del quotidiano Il Messaggero da una serie di autori straordinari. Una di quelle pagine era proprio opera di Castelli, realizzata con il suo stile bufo. È stato un imprinting progressivo».
Quando terminarono le strisce del Pitore originale, Coniglio propose ad Artibani di continuare la serie. «Così ho fatto delle prove, prima cercando di imitare maggiormente il segno di Castelli e poi, piano piano, trovando uno stile più personale – sia nel disegno che nei contenuti – ma sempre cercando di rispettare (almeno spero) l’opera suprema del Pitore.»

Il cambio di autore era evidente, nonostante le strisce fossero ancora firmate dal Pitore. L’Omino Bufo di Artibani è disegnato decisamente meglio di quello di Castelli: a volte, addirittura, nelle vignette ci sono accenni di sfondi. Le battute, invece, erano sempre dello stesso, infimo livello.
Presa la mano con il personaggio, entrato cioè nell’ottica di abbandonare buon gusto e umorismo raffinato, il fumettista romano iniziò a sfornare strisce su strisce per circa 10 anni, fino al 2001. Una mole notevole di materiale, sufficiente, insieme a quelle di Castelli, a riempire due volumi di un’edizione integrale pubblicata da Panini qualche anno fa (e attualmente fuori catalogo).
Ma la vera novità portata da Artibani fu la fusione tra i due personaggi di Castelli, Omino Bufo e Martin Mystère, che diede origine su Cattivik alla serie I grandi enigmi di Martin Mystère Bufo. Si trattava di storielle da due pagine, ovviamente demenziali e che si concludevano con un orrido gioco di parole.

Il maggiore spazio rispetto alla striscia dava all’autore la possibilità di sviluppare maggiormente “la trama” e creare nuovi tormentoni, come il protagonista che zittisce continuamente il suo aiutante Java. Poteva inoltre disegnare vignette più grandi e dettagliate – alcune sembrano disegnate quasi bene – e addirittura utilizzare mezza pagina per una finta copertina in stile Bonelli, con tanto di titolo che puntualmente non aveva riscontro nella storiella.
«La formula delle microavventure – con tanto di frontespizio bonelliano – mi dava l’occasione per esagerare ancora di più con le bizzarrie, i personaggi assurdi e qualsiasi trovata surreale mi passasse per la testa» ricorda Artibani. «Nei primi tempi sottoponevo a Coniglio le varie proposte e lui approvava e bocciava ma subito dopo mi hanno lasciato totalmente libero e ho sempre apprezzato molto la fiducia e l’incoscienza, non l’ho mai ritrovata da nessuna altra parte.»
Eredità bufa
Terminata l’esperienza su Cattivik, Artibani non ha abbandonato l’Omino Bufo, ma ha continuato a portarlo avanti sul suo profilo Facebook «ogni volta che mi viene in mente una cosa abbastanza stupida ma buffa». Le strisce si sono ridotte alla vignetta conclusiva, gli omini che commentano sono diventati due mosche, ma il gioco, il tono, lo stile, l’idiozia sono sempre quelli.
La firma è sempre quella del Pitore di Santini, pseudonimo collettivo coltivato da lui, Castelli e dalle decine di lettori che hanno contribuito. Se e quando Artibani si stuferà di usarlo, magari passerà la matita a qualche altro disegnatore. Il Pitore, sostiene infatti, «è un po’ come l’Uomo Mascherato, c’è sempre qualcuno pronto a prendere il suo posto. Per quello che mi riguarda c’è spazio per tutti e non penso che finirebbe a coltellate in un vicolo male illuminato. E in ogni caso, prima di uscire la lama, vorrei evidenziare che i diritti dell’Omino Bufo sono comunque di Alfredo Castelli: questo tenderei a non dimenticarlo mai».

Chissà che questo nuovo autore non stia già disegnando cose bufe, magari dopo essersi formato su uno dei molti “fumetti disegnati male” nati negli ultimi decenni. Se l’Omino Bufo è probabilmente il primo del suo genere – anche Castelli, espertissimo di strisce d’epoca non riesce a trovare un vero precursore -, appare oggi come il genitore del ricco filone che unisce umorismo a poca “sapienza disegnatoria”.
«Tutti discendiamo da lui» spiega Artibani. «O forse no, l’origine è ancora più lontana. È dai tempi delle grotte di Lascaux che c’è qualcuno che disegna “strano” ma riesce a farsi capire lo stesso.» Dottor Pira, Daw, Davide La Rosa, Maicol & Mirco, Sio sono tutti in qualche modo figliocci del Pitore di Santini, anche se il loro umorismo spesso funziona con meccanismi differenti.
Parlando di Sio, ad esempio, Castelli dice che il suo «sembra un linguaggio semplicemente cretino, e invece io ho visto con i bambini come certi nomi, certe situazioni li facciano morire dal ridere. A me non fanno ridere, ma di solito capisco dove dovrebbero far ridere», ammettendo che il motivo sia puramente anagrafico.
Al contrario, quasi sicuramente i bambini di oggi non si sbellicherebbero per una striscia come questa, come invece hanno fatto i loro coetanei del 1974:

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