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“Parigi, 13Arr.”: il dolore silenzioso del bianco e nero

Parigi 13Arr film recensione

Émile Durkheim è uno dei padri (se non il padre) della moderna sociologia: lo studioso francese nacque a Épinal, nei Volsgi, 15 aprile 1858 e morì a Parigi il 15 novembre 1917. Seguace di Auguste Comte (il creatore del Positivismo), Durkheim pose le basi e fece crescere un’area di studi che unì storia, filosofia, metodo scientifico e antropologia. Uno dei suoi lavori più famosi riguarda il suicidio. Intitolato semplicemente Il suicidio. Studio di sociologia e pubblicato nel 1897, lo studio mostra come nell’atto estremo di alcune persone, sicuramente riconducibili a una condizione soggettivamente infelice, si possano trovare anche dei fattori sociali che influenzano il comportamento degli individui.

Uno sopra tutti è determinante, e si chiama “anomìa”. È figlio della rottura degli equilibri nella società e dello sconvolgimento portato dalla trasformazione della vita che viene con la rivoluzione industriale. La trasformazione che accade quando masse crescenti di persone si trasferiscono dai villaggi della campagna nelle grandi città anonime e là si perdono, per sempre, gli uni ignoti agli altri dopo che da generazioni avevano vissuto in posti in cui tutti conoscono tutti.

A Durkheim non interessa e non crede al suicidio di tipo psicologico; ritiene che vi possa certamente essere predisposizione psicologica di alcuni al suicidio, ma la forza che determina il suicidio non è psicologica, bensì sociale. Un ruolo fondamentale infatti è la mancanza di regole (senza norme, da cui “anomìa”), cioè il vivere in un ambiente che scardina i valori e le regole della convivenza sociale: nelle grandi città moderne, alienati dal lavoro e dalla spinta ai consumi, si diventa anonimi, ci si perde, si torna individui soli e preda dei propri istinti, si perde il tessuto connettivo del villaggio o delle piccole comunità. Il vicino di casa dell’anonimo condominio di periferia è un perfetto sconosciuto. Questo induce una mancanza di regole che porta a una incompletezza dell’individuo la quale, in alcuni casi, conduce appunto al suicidio.

Senza fare spoiler ma dicendo chiaramente che non ci sono suicidi, tuttavia questo lungo giro attorno a Parigi, 13Arr. è quasi un sogno più che un ricordo. È forse la prima lezione di sociologia del corso di laurea in Scienze Politiche che ho seguito più di trent’anni fa ed è quello a cui torno a pensare mentre mangio – come tradizione vuole dopo un’anteprima in un anonimo cinema del centro di Milano – in un McDonald’s semideserto e meticcio come l’etnia di chi lo frequenta (me incluso). È notte, sono solo a guardare una strada vuota dalla finestra, versione postmoderna dei nottambuli di Edward Hopper.

Durkheim, penso, non a caso è francese. Mi chiedo se sia il primo a mettere a fuoco il tema dell’alienazione sociale e del rapporto oscuro tra città e campagna, industrializzazione e sradicamento. Non masse di proletari, non operai irriconoscibili, ma giovani invisibili che si accalcano a Parigi per cercare di trovare un futuro, studiando, lavorando, cercando di dare un senso a qualcosa che non ha senso. Fragilità che lasciano segni: ferite che non è chiaro se si possono rimarginare o renderanno per sempre sfigurati.

L’essere umano è uno strano animale. Di una visita ormai lontana e dimenticata nel bush australiano ormai ricordo solo l’immagine di una femmina di Koala e del cucciolo attaccato alla sua schiena. La pelliccia rovinata, graffiata, le cicatrici che si vedono chiaramente, un orecchio mezzo tranciato, i segni di tante battaglie. Per contrasto, tra vestiti alla moda e cura sociale del proprio essere, noi umani oggi abbiamo un corpo privo di ferite e di cicatrici. Se prendiamo altri mammiferi che vivono allo stato selvaggio, il pelo e la pelle sono tempestati di tagli e di ferite cicatrizzate più o meno bene, di piccole mutilazioni, di segni costanti di un logorio profondo, che consuma il corpo prima ancora che lo spirito.

Eppure, nella nostra vita sociale così ordinata e strutturata, sotto vestiti più o meno ben tenuti e corpi conservati in condizioni “ottimali” rispetto perlomeno ai precedenti 50mila anni di storia e preistoria dell’homo sapiens, si celano le carni dello spirito stracciate, tagliate, mutilate, ricucite alla meno peggio, violentate da emozioni velenose, da sensazioni agghiaccianti, da dolori talmente intensi da non emettere suoni e non far emettere urla. Come dice il pediatra ai neo genitori che portano a casa il neo-nato: «Non preoccupatevi se piange: è quando cade, sbatte e non piange più, ma vi fissa con gli occhi sgranati e non riesce a respirare che dovete preoccuparvi, fare qualcosa. E farlo velocemente».

Il terzo flash è il bianco e nero. All’avvio della proiezione di Parigi, 13Arr. (titolo originale: Les Olympiades), il film diretto da Jacques Audiard e basato sui racconti a fumetti di Adrian Tomine Amber Sweet e Morire in piedi, contenuti nel libro Morire in piedi (2015), e Hawaiian Getaway, contenuto in Summer Blonde (2002), c’è un attimo in cui penso alla schermata di blocco del mio iPad mini: un fotogramma di Manhattan (1979) di Woody Allen: è la scena in cui lui e Diane Keaton siedono su una panchina di Sutton Place e guardano lo skyline di New York e la volata prospettiva del Queensboro Bridge.

Il bianco e nero leggendario di quel film fu creato da Gordon Willis, il “principe dell’oscurità”, leggendario direttore della fotografia specializzato in bianchi e neri a pellicola. Il bianco e nero del direttore della fotografia del film di Audiard, cioè Paul Guilhaume, è completamente diverso: desaturato, a tratti quasi banale, mai sovraesposto, mai veramente nero e mai veramente bianco, perfettamente sposato con le geometrie dell’edilizia francese del dopoguerra di Les Olympiades, priva di graffiti ma devastata dal tempo e da un progetto alienante di compressione delle identità di così tante persone diverse in uno spazio cosi artificiale e cattivo.

Parigi, 13Arr. è un film duro, doloroso, dannoso. Ruota attorno a tre protagonisti. Due donne e un uomo. Tre razze diverse. Tre traiettorie che si intersecano con una silenziosa rabbia, paura e disperazione totalmente prive di altre manifestazioni emotive. Non c’è praticamente violenza fisica, ma ci sono tanto sesso e cattiveria, montagne di cattiveria che si alternano ad abissi di sofferenza. O perlomeno, non c’è praticamente violenza fisica più di quanto non ci si potrebbe aspettare in una storia di alienazione dilagante, quasi che la sessualità sia diventata una attività fisiologica che non ingrani, non tocchi nient’altro che il corpo. Un’attività fisica dalle conseguenze estremamente limitate.

Non ho letto i fumetti di Tomine e non ho visto altri film di Audiard: mi sono volutamente tuffato quasi senza preparazione nella proiezione in francese del film, aiutata da buoni sottotitoli per decodificare lo slang parigino, le frasi in cinese, alcuni passaggi complessi o recitati in sordina. Il film è l’apoteosi di un gigantesco trauma collettivo, di un fenomenale dolore che si manifesta attraverso tratti patologici i più disparati ma tutti convergenti. È un film che risale decisamente a prima del Covid sia per la mancanza delle mascherine che per gli ambienti affollati, che sono oramai una caratteristica distintiva di epoche differenti; ma anche per una certa lontananza rispetto al livello di tecnologia dettato dalla crescita esponenziale praticamente quadrimestrale delle app e degli smartphone che viviamo oggi.

Insomma, un film nell’immediato passato che però segna abbondantemente il ritratto ravvicinato di una generazione che incontra il sesso, la solitudine, la follia, il rifiuto di qualsiasi forma di socializzazione, la violenza del gruppo, la perdita (di persone ma anche di senso e di sé), la morte. Un film che scorre quasi leggero nonostante il suo carico tossico e mette in mostra un’anima dolorosa in cui anche dietro la più grande ingenuità si celano carie e traumi inenarrabili e in cui forse, anzi probabilmente, non è possibile alcuna redenzione.

Per chi ha bisogno di un goccio di trama ma senza spoiler: la storia ruota attorno ai tre giovani di cui accennavo sopra, interpretati da Lucie Zhang, Makita Samba e Noémie Merlant. I tre attori tengono le parti magnificamente: Samba è perfetto, Zhang è una giovanissima dall’abbagliante recitazione spontanea e Merlant (dei tre la più famosa e matura) è ormai la conferma di una attrice con una capacità di abbracciare una gamma di emozioni fenomenale.

Sono tre personaggi disegnati con garbo e delicatezza, come tutti i fiori che stanno per essere recisi. La loro vita, tutta la loro vita, è solo un tentativo di sopravvivere e limitare i danni, venendo a patti con sogni che sono distrutti da tempo o che si stanno sgretolando davanti ai loro occhi. La felicità è qualcosa di cui hanno sentito parlare ma che non hanno mai provato e che non ritengono di essere più degni di provare. Arrivare a un equilibrio per loro equivale a un trauma, fa letteralmente svenire. Invece, il sesso permette di consumare e dimenticare. Di cadere senza avvertire la velocità e la vertigine. Che altro dire? Pazzesca la musica di Rone, notevoli le scenografie, perfetta la fotografia. Vedere un film in bianco e nero nel 2022 è semplicemente rinfrescante (forse l’unica cosa genuinamente rinfrescante di questo film, lo ammetto).

Una parola a parte, prima di chiudere, me lo concederete, la merita il tredicesimo arrondissement, o meglio dire la parte che si chiama Les Olympiades che in originale dà il titolo alla storia: create fra il 1969 e 1977 “le Olimpiadi” sono l’operazione immobiliare più emblematica delle teorie urbanistiche moderne applicate al rinnovamento urbano di Parigi. Progettata dal capo architetto Michel Holley coadiuvato da André Martinat, questa “città nella città” comprende sei torri abitative private (Sapporo, Città del Messico, Atene, Helsinki, Cortina e Tokyo), due torri abitative ILN (Londra e Anversa), tre edifici HLM (Roma, Grenoble e Squaw Valley), nonché negozi (galleria Mercure e centro commerciale Oslo) e uffici (Olympie, Oslo).

Ci sono anche strutture pubbliche, ovvero lo Stadio, l’asilo Les Olympiades e l’asilo nido comunale comunale di Javelot. L’unica cosa che può venire in mente camminando in questa città nella città che ricorda in grande le nostre zone di espansione cittadine (a Milano, Palermo, Roma) è la paura. La profonda paura che solo il senso gelido di tremendo sradicamento e straniamento può provocare. Durkheim non ha mai visto Les Olympiades, ma avrebbe aggiunto il loro nome a pennarello rosso, cerchiandolo più volte, sulla contro-copertina del suo Il suicidio.

Antonio Dini, giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. La sua newsletter si intitola: Mostly Weekly.

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