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Lady Oscar e la rivoluzione de “Le rose di Versailles”

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Il 21 maggio del 1972 sulla rivista bimestrale Margaret dedicata ai manga shojo (ossia per ragazze) esordì Le rose di Versailles dell’autrice venticinquenne Riyoko Ikeda. Nel primo episodio si anticipava che il racconto, ambientato alla vigilia della Rivoluzione francese, avrebbe esplorato il legame fra tre personaggi: due realmente esistiti, la regina di Francia Maria Antonietta e il suo amante svedese Fersen, e uno di finzione, l’ufficiale della guardia reale Oscar Françoise de Jarjayes, una donna allevata come un uomo.

Fu proprio quest’ultima a catturare fin da subito l’attenzione e la simpatia delle lettrici, a rubare la scena a tutti gli altri personaggi di episodio in episodio fino a monopolizzare perfino il titolo della serie, che (soprattutto in relazione all’anime) è meglio nota al pubblico italiano come Lady Oscar. Oggi lady Oscar è un’icona ben salda nel nostro immaginario, e a Ikeda è riconosciuto l’indiscutibile merito di aver cambiato in meglio la percezione dello shojo e di chi lo legge. Due ottime ragioni per festeggiare i 50 anni de Le rose di Versailles.

Le rose di Versailles, in breve

La giovane e bellissima Maria Antonietta, figlia dell’imperatrice d’Austria Maria Teresa, viene data in sposa al delfino di Francia per rinsaldare l’alleanza tra i due regni. Nonostante l’accoglienza fastosa e calorosa, la principessa scopre che Versailles è un covo di invidie e giochi di potere che, per inesperienza, orgoglio e leggerezza, non fa che esasperare e subire: entra in conflitto con la favorita del re padre, Madame du Barry, e si inimica l’intera corte concedendo eccessivo favore alla sua amica, la Contessa di Polignac; perde l’affetto del popolo trascurando i suoi doveri di regina e dilapidando somme incredibili in divertimenti e frivolezze, con il risultato di venir involontariamente coinvolta nella truffa milionaria messa in piedi da Jeanne de Valois attorno a una collana di diamanti. 

A vegliare sull’affascinante principessa, poi regina, c’è Oscar Françoise de Jarjayes, una nobile francese che il padre ha allevato come un figlio maschio per farne il comandante della guardia reale. Oscar offre a Maria Antonietta la sua lealtà e i suoi consigli, anche quando la vede legarsi all’uomo di cui lei stessa è innamorata, il conte svedese Fersen. Colta e sensibile, Oscar viene a conoscenza delle sofferenze del popolo grazie a Rosalie, una giovane che prende sotto la sua protezione.

Questo la porterà a mettere in discussione il suo mondo e i suoi privilegi, le farà scoprire di amare il suo amico d’infanzia André nonostante la differenza di rango e infine la indurrà, nel giorno della presa della Bastiglia, a sacrificarsi per gli ideali illuministi di libertà e uguaglianza. Quello che accadrà alla monarchia e a Maria Antonietta è invece riportato anche sui libri di storia.

Le donne di Versailles

Le rose di Versailles

Come Ikeda stessa ha più volte ricordato, a ispirare la serie fu la biografia di Maria Antonietta dello studioso Stefan Zweig, dalla quale emergeva l’idea che la regina non fosse spregevole come la dipingeva la propaganda rivoluzionaria ma piuttosto una persona comune travolta da eventi più grandi di lei. Gli editor di Margaret erano in principio convinti che un manga di ambientazione storica fosse troppo difficile per il pubblico, «bambini o donne che sicuramente non capiranno», ma Ikeda riuscì a far loro cambiare idea. Forse perché si rivelò capace di calare nell’ambientazione settecentesca i tipi femminili caratteristici dello shojo – e già apparsi nei suoi precedenti lavori, in particolare in Sakura Kyo.

Maria Antonietta è l’eroina bella e piena di grazia che ama vestirsi bene e attrae naturalmente l’ammirazione e l’amore di tutti. La Contessa di Polignac è la finta amica che nasconde dietro modi gentili scopi gretti e meschini, mentre Madame du Barry e Jeanne de Valois sono femme fatale che sfruttano il loro fascino in modo immorale e tessono trame per ricavarne un tornaconto, attirandosi la giusta punizione. Rosalie ricopre invece il ruolo della fanciulla pura e indifesa, che in ogni scena ha una buona ragione per scoppiare in lacrime. E infine c’è lady Oscar, l’eroina volitiva dalla bellezza androgina.

Sono queste donne, spinte da pulsioni e desideri di varia natura, ad alimentare l’azione, mentre nell’economia della storia gli eroi maschili, André e Fersen, svolgono la mera funzione di “interesse amoroso” delle protagoniste, con un capovolgimento di prospettiva che rivela un’idea di shojo in cui sono finalmente le donne – eroine, autrici e lettrici – a prendersi il centro della scena

E a dare il nome alla serie: pare che il titolo Berusaiyu no bara, ossia Le rose di Versailles (traduzione che non ha soddisfatto alcuni fan), sia stato spiegato dalla Ikeda così: «Fin dall’inizio avevo deciso che Oscar era la rosa bianca, Antonietta quella rossa, la Polignac una venefica rosa gialla, Rosalie un bocciolo rosa e Jeanne una rosa nera». Ma se è vero che occorrono diverse eroine per rendere la complessità di una storia al femminile, è anche vero che nella serie di Ikeda è una sola la rosa che spicca nel bouquet.

Oscar vince tutto

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Oscar incarna un’ideale di bellezza androgina indicato con il termine bishōnen (letteralmente ‘bel ragazzo’) e capace di attrarre tante ammiratrici quanti ammiratori. Ha il volto di quello che, per le ragazze giapponesi dei primi anni Settanta, era l’incarnazione di questo concetto e quindi il ragazzo più bello del mondo: Björn Andrésen, il giovanissimo attore svedese che ha interpretato Tadzio nel film Morte a Venezia di Luchino Visconti.

Ma lady Oscar si ispira anche alla Principessa Zaffiro di Osamu Tezuka, considerato da molti il primo manga shojo e che in effetti rappresentò il punto di riferimento stilistico di Ikeda all’inizio della sua attività (come è evidente dal manga con cui debuttò nel 1967, Bara-yashiki no shōjo, La ragazza della casa delle rose). Eppure, a differenza di Zaffiro che alla fine della storia riprende con sollievo la posizione di principessa per coronare il suo amore, Oscar non “si riconcilia” con il ruolo femminile tradizionale che le viene negato dal padre alla nascita.

Dal punto di vista di Oscar, essere donna significa infatti avere un’esistenza priva di opportunità e in cui è necessario rinunciare alla propria forza, laddove vivere come un uomo le restituisce la capacità di azione e un vasto raggio di libertà. Ma anche aderire in tutto e per tutto alla condizione maschile è limitante, perché la costringerebbe a rinunciare all’amore, un sentimento che lei prova con una tenerezza e un trasporto decisamente femminili.

Per essere sé stessa Oscar deve superare o meglio conciliare la rigida suddivisione di generi e di ruoli tra maschile e femminile. È l’unica strada per avere la libertà di essere e fare ciò che si desidera, una libertà che non investe solo la sfera personale – indossare pantaloni invece che crinoline o amare un uomo senza dover passare dalla condizione di moglie e madre – ma che le consente di prender parte alla grande storia lottando per ciò che ritiene giusto.

Concepita all’interno di una ricostruzione storica precisa, lady Oscar è portatrice di un codice morale tutto suo che supera i limiti del racconto arrivando direttamente alle lettrici come un messaggio potentissimo e deflagrante. Eroina che rifiuta ogni incasellamento e che va sempre più in alto di quello che ci si aspetta. Non è un caso che sia diventata un’icona femminista e queer.

Uno shojo che ha fatto la rivoluzione

Come l’autrice ricorda in un’intervista, il manga godeva di scarsissima considerazione quando, tra la fine negli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, alcune giovani mangaka reinventarono lo shojo attraverso storie complesse, spesso tragiche e inquadrate all’interno di generi letterari diversi. «Il nostro sentimento comune era il desiderio di far arrivare i manga alla stessa altezza della letteratura. E fare in modo che diventasse quindi un tipo di cultura che rimane» avrebbe raccontato Ikeda. Le autrici che contribuirono a questa rivoluzione dello shojo erano riunite sotto l’etichetta di Gruppo dell’anno 24, dal nome del collettivo fondato da Keiko Takemiya e Moto Hagio. Ikeda, molto amica di Hagio, non prese mai direttamente parte alle iniziative del collettivo, ma il suo contributo andava in quella stessa direzione, fatte salve alcune scelte divergenti.

Mentre le colleghe si cimentavano in storie di fantascienza o fantastiche, Ikeda inaugurò il filone storico dello shojo, cercando di inquadrare vicende inventate all’interno di ricostruzioni fatte a monte di ricerche storiche, seppur con qualche anacronismo spesso dovuto alla difficoltà di reperire informazioni nei tempi utili alla lavorazione della serie. Fa eccezione una vistosa licenza artistica, la scelta di vestire Oscar con un’uniforme di epoca napoleonica, perché giudicata più efficace.

Condividendo lo spirito delle colleghe, Ikeda introdusse nello shojo tematiche estremamente serie: la povertà, le ingiustizie sociali, la morte, ma anche la rappresentazione di varie sfumature dell’amore, romantico, ma anche aggressivo e ossessivo (André che strappa la camicia a Oscar e poi prova ad avvelenarla), fino a quello sensuale. La scena in cui Oscar, questa volta consenziente, si concede per la prima e unica volta ad André scatenò effettivamente varie proteste, zittite dalla redazione di Margaret. Ikeda restò però fedele al modello di Tezuka nella scelta di conservare un po’ di ironia all’interno di una narrazione drammatica, inserendo qua e là siparietti comici anche nei momenti più tesi, affidati per lo più ad alcuni personaggi secondari.

Anche nello stile grafico Ikeda contribuì a definire le caratteristiche dello shojo come lo conosciamo oggi: la tendenza a inserire immagini che escono dal riquadro delle vignette dominando la tavola; la predilezione per figure e volti contornati da sfondi floreali che amplificano le emozioni dei personaggi, con buona pace del realismo; la scelta di fisionomie con occhi grandi e dai riflessi stellati, incorniciate da chiome vaporose. Ikeda lavorò sodo sul suo linguaggio grafico, che nel corso della serie diventò sempre più maturo e solido, anche grazie alla scelta di cimentarsi nella pittura a olio con la guida di studenti dell’accademia di belle arti.

L’eredità di Lady Oscar

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Contro ogni previsione degli editor, la pubblicazione de Le rose di Versailles generò fin da subito un vero e proprio fermento tanto vistoso da meritare un nome proprio, Berubara Boom. La serie rappresentò il primo grande successo commerciale dello shojo, e secondo Moto Hagio fu proprio questo a suggerire agli editori l’idea di ripubblicare i manga in formato tankobon, ossia in volume. Soluzione che, pur pensata per moltiplicare il pubblico e quindi i guadagni, finì con il conferire ai manga quel diritto a superare la dimensione effimera propria delle riviste.

Le rose di Versailles è stato anche il primo caso di manga adattato per il teatro: nel 1974 è diventato un musical del teatro Takarazuka, la prestigiosa compagnia di sole attrici che aveva ispirato a Tezuka la Principessa Zaffiro e che fin dalla sua fondazione era stata un esempio di autodeterminazione femminile. Lo spettacolo è da sempre uno dei maggiori successi della compagnia, che ha per questo dedicato una statua a Oscar e André.

Le rose di Versailles raggiunse poi il pubblico internazionale con il film Lady Oscar del 1979, con regista e cast francese, e soprattutto con la trasposizione anime del 1982, che merita un racconto a sé. Infine, per aver reso Versailles una meta celebre per il turismo giapponese e per aver avvicinato le due culture, nel 2008 la Francia ha assegnato a Ikeda la Légion d’honneur. A tutto questo si aggiunge l’elenco di omaggi tributati a lady Oscar dal mondo delle fanart, del cosplay e perfino del manga stesso, a partire da personaggi come la protagonista di Utena la fillette Révolutionnaire dei Be-Papas e Marie Sanson di Innocent di Shin’ichi Sakamoto, per fare solo gli esempi più lampanti.

Insomma, pur portandosi dietro alcuni inevitabili segni del tempo, Le rose di Versaillesè ormai innegabilmente un classico e più di tutto, grazie a Oscar, ha conquistato e mantenuto un posto nell’immaginario e nel cuore di tantissimi lettori e lettrici. A cinquant’anni suonati, è una discreta vittoria.

La più recente edizione italiana de “Le rose di Versailles” è pubblicata da J-Pop e si può acquistare qui.

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