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Darkman, l’anti eroe di Sam Raimi

darkman sam raimi film 1990

Alla fine degli anni ottanta Sam Raimi aveva diretto qualche corto, i due La casa – di cui il secondo era una sorta di remake potenziato del capitolo prototipale – e la bizzarra commedia I due criminali più pazzi del mondo. Era amico e mentore dei fratelli Coen, aveva un factory di attori e maestranze perfettamente allineati con la sua visione della narrazione e un’idea di cinema così chiara e sopra le righe da andare a influenzare quello che sarebbe diventato un mostro sacro del cinema d’azione come Ching Siu-tung (rimanendo a Hong Kong ricordiamo come Raimi, anni più tardi, produsse anche lo sbarco di John Woo a Hollywood). 

Il suo era un linguaggio che si rifaceva tanto all’animazione classica – quella più slapstick – quanto al cinema di genere degli anni Trenta, senza privarsi di una dose di violenza e cattiveria così corpose da renderlo l’idolo di tutti gli appassionati di cinema horror a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta. Raimi considerava il linguaggio del cinema come una sorta di kit Lego da smontare e manipolare a piacimento, sfruttandone ogni singolo blocchetto – dai trucchi di montaggio agli effetti speciali realizzati inclinando la telecamera – in maniera sorprendente e inaspettata. In altre parole era la persona più lontana possibile dall’idea di blockbuster fumettistico.

Non aveva mai lavorato con grossi budget, si era sempre mosso in territori non proprio mainstream e di compiacere eventuali produttori non ci pensava proprio. Inutile chiedersi il perché fu scartato a priori dalla trasposizione cinematografica di Batman, a cui anelava, e non gli furono concessi neppure i diritti di The Shadow di Walter B. Gibson. Mentre altri avrebbero preferito arrendersi per passare al progetto successivo, Raimi decise di afferrare il toro per le corna e prese la scelta più semplice e lapalissiana possibile. Visto che non riusciva a trovare un supereroe da mettere su pellicola, se ne inventò uno di sana pianta. Nacque così Darkman.

darkman sam raimi film 1990

Il protagonista di Darkman è Peyton Westlake, uno zelante scienziato impegnato nella ricerca di una rivoluzionaria pelle artificiale in grado di curare persone rimaste sfigurate per incidenti o malattie. Per una serie di sfortunati eventi il Nostro rimane però invischiato in una brutta storia di malavita. Un gruppo di mafiosi finisce così per distruggere il suo laboratorio, con lui dentro. Ripescato dal fiume Hudson completamente ustionato e in stato semicomatoso è sottoposto a un trattamento sperimentale che lo priva della sensazione del dolore, portandolo a un passo dallo squilibrio mentale. Fuggito dall’istituto di ricerca dove era costretto, ricostruisce il suo laboratorio in una fabbrica abbandonata, prosegue i suoi studi sulla pelle sintetica – che non riesce a rimanere stabile per più di un’ora se esposta alla luce solare – e trama vendetta nei confronti dei suoi aguzzini. Nel frattempo finirà anche per salvare la città da uno speculatore immobiliare, ma sarà solo un effetto secondario del suo piano livoroso.

Come si capisce da questa breve sinossi risulta evidente che Darkman è un eroe molto sui generis. Violento e assetato di vendetta, ben poco interessato al bene comune, con più limiti che poteri speciali. Praticamente un villain perfetto. Non c’è da meravigliarsi se gli screen test andarono molto male, con grosso disappunto dei produttori della Universal che pretesero un rimontaggio generale. Lo stesso era successo anche con la sceneggiatura, passata attraverso diverse riscritture (di cui una, non accreditata, rimaneggiata anche dai fratelli Coen). Il punto era che la visione di Raimi si dimostrava troppo ricca ed eccentrica, incapace di concepire i limiti merceologici di un prodotto con cui gli studios volevano sbancare il botteghino a partire da un investimento tutto sommato limitato. 

Negli anni Novanta il grosso dei film mandati al cinema apparteneva a quella fascia media che è andata a scomparire nel corso degli anni, cannibalizzata da streaming e megaproduzioni da budget faraonici. Prima che la forbice diventasse così ampia tra l’art-movie a zero budget e il kolossal da 350 milioni dei fratelli Russo c’era una marea di film come Darkman, costato circa 14 milioni di dollari e in grado di raggiungere ottimi profitti senza neanche arrivare ai 50 milioni di incasso totali. Si trattava di prodotti concepiti per chiudere in positivo anche senza diventare fenomeni mondiali. Eppure le prime versioni del debutto mainstream di Raimi riuscirono comunque a sforare i paletti di confine, invero piuttosto laschi, di tale categoria.

liam neeson darkman

Darkman voleva essere un cinefumetto fantastico e roboante, ma allo stesso tempo un omaggio al Fantasma dell’Opera, a Frankenstein e all’Uomo Invisibile. Con al contempo il focus incentrato più sull’interiorità dei personaggi – motivo per cui per il protagonista fu scritturato Liam Neeson e non il regular raimiano Bruce Campbell – rispetto alla spettacolarità. Un caleidoscopio di stili e  influenze che costrinsero Raimi a limitare la sua consueta potenza visionaria, ma che non riuscirono a contenerla del tutto. 

A fronte di un finalone roboante da blockbuster abbiamo i trip matti di Neeson, realizzati in una sorta di collage animato a velocità subliminale. Molte scene paiono prese di peso da un generico film straight-to-video, ma poi ecco lo spaventoso make-up del protagonista, mitragliatrici nascoste in gambe di legno, prospettive impossibili e picchi di esilarante cattiveria a ringalluzzire l’attenzione. Montaggi e rimontaggi lasciarono diversi buchi nella narrazione, e Darkman finisce spesso e volentieri per perdere diversi pezzi. Ci sono spunti che non portano a nulla, un sacco di passaggi davvero troppo affrettati, pistole di Cechov che svaniscono nel nulla, ma il risultato sono comunque 96 minuti di ottimo cinema di supereroi. Aggiungeteci l’avvio di un sodalizio con Danny Elfman – ancora non prigioniero di se stesso – che sarebbe durato per diverse pellicole con risultati sempre grandiosi, e rimane ben poco di cui lamentarsi.

Dodici anni dopo Darkman – che ebbe buoni risultati al botteghino e divenne presto una sorta di culto minore – Raimi portò di nuovo un supereroe al cinema. Nel mezzo c’erano stati L’armata delle tenebre, Pronti a morire e qualche film meno surreale perfetto per guadagnarsi di nuovo la fiducia delle major. Tanto bastò per metterlo alla guida del primo Spider-Man cinematografico dell’epoca moderna. La nuova trasposizione funzionò alla perfezione puntando a una forte stilizzazione, agli omaggi ai fumetti delle origini e a un’ingenuità insistita e fuori dal tempo. Dopo soli due anni dal successo planetario, gli X-Men di Bryan Singer apparivano già vecchi e sorpassati. 

A una maturità a tutti i costi Raimi continuava a preferire l’invenzione e il gioco, ribaltando le regole del banco. Successe così che l’amichevole Spider-Man di quartiere incassò parecchi soldi e aprì le porte a una trilogia che proseguì con un grande secondo capitolo e si concluse con il tonfo terrificante del terzo. Raimi tornò a essere l’outsider di inizio carriera – anche se reso ricchissimo da una carriera da produttore, tra cinema e televisione, a dir poco eclettica – e regalò ai suoi fan Drag Me to Hell, minuscolo horror fatto di umorismo, cattiveria, tanta sana violenza e i consueti virtuosismi di linguaggio.

Nel 2009 sarebbe arrivata l’occasione del rilancio, con la regia de Il grande e potente Oz. Il film era stato pensato per inserirsi nella scia di Alice in Wonderland di Tim Burton, con conseguenti aspettative sugli incassi, e invece Raimi finì ancora una volta per fare quello che gli pareva. Consegnò agli studios un remake per famiglie di L’armata delle tenebre, che partiva in bianco e nero e proseguiva a colori scintillanti come in una foto di Mika Ninagawa. Il film andò solo benino, e Raimi finì ancora una volta fuori dai radar. In maniera del tutto inaspettata nel 2020 è assunto dalla Marvel per lavorare su Doctor Strange nel Multiverso della follia. Si tratta di una scelta decisamente singolare per la Disney, solitamente molto precisa nello scegliersi bravi esecutori senza troppi fronzoli per la testa.

Ricordiamo tutti come andò a finire con Edgar Wright, forse l’unico altro nome coinvolto nell’universo Marvel a vantare la stessa carica eversiva di Raimi. Per quanto nomi come Taika Waikiki e James Gunn abbiano ottime capacità di scrittura, dal punto di vista visuale non sono mai riusciti ad andare molto più in là della mediocrità (tanto per capirci, così lavora un vero regista. Waikiki fa molto ridere, ma quando vuole fare il profondo pare al massimo un Wes Anderson ipersemplificato).

darkman sam raimi film 1990

Salito in corsa dopo l’abbandono di Scott Derrickson, regista del primo capitolo, Raimi si è trovato a lavorare su di un copione praticamente ancora in sviluppo e con una deadline strettissima. Si trattava di un’operazione impossibile da gestire per qualcuno senza la necessaria esperienza e e il giusto guizzo creativo. Assumere un mestierante troppo allineato avrebbe trasformato tutta l’operazione in un nuovo Solo: A Star Wars Story, passato dalle mani dei fenomenali Phil Lord e Christopher Miller al rassicurante Ron Howard, portando un film dal budget di 275 milioni di dollari – basato oltretutto sul personaggio più amato di uno dei maggiori franchise di tutti i tempi – a incassarne poco più di 390. 

Per fortunatamente questa volta le cose sono andate diversamente. Da poche settimane il risultato di questo strano incastro di eventi è sugli schermi di mezzo mondo, portandoci una verità lapalissiana: nonostante si tratti solo di un buon film, Doctor Strange nel Multiverso della follia stacca di netto tutto quanto fatto a oggi dai Marvel Studios. E non si parla solo della bolsa Fase 4, ma di tutta la gestione Feige. Senza considerare il fatto che finalmente al centro di tutte le attenzioni troviamo il nuovo film di un autore capace e riconoscibile tra mille – sapete il nome del regista di Shang-Chi o di Black Widow? Nemmeno io –  e non l’ennesimo, anonimo tassello di un affresco ormai fuori misura. 

Speriamo che si tratti dell’inizio di una nuova stagione creativa per Raimi, la naturale evoluzione di un percorso iniziato con l’horror a basso costo, proseguito con esperimenti tangenti al mainstream proprio come Darkman e sfociato infine nei più atipici dei blockbuster.

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