RubricheSofisticazioni PopolariSpider-Man e la pericolosa abitudine al guilty pleasure

Spider-Man e la pericolosa abitudine al guilty pleasure

Tendenze e direzioni della pop culture viste da chi non riesce a farne a meno, anche se vorrebbe. "Sofisticazioni popolari": una rubrica di Fumettologica a cura di Marco Andreoletti. Ogni 15 giorni riflessioni sullo stato dell’industria dell’intrattenimento, cercando di capire come sopravvivergli.

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spider-man no way home

Durante lo scorso dicembre ero, come molta altra gente, al cinema a vedere Spider-man: No Way Home. Non sono un grande appassionato di film Marvel – sebbene abbia consumato per anni tonnellate di fumetti della Casa delle Idee e una serie di run prodotte dalla casa editrice risultino fisse nella mia lista di fumetti preferiti di sempre – ma il battage comunicativo attorno al terzo capitolo del nuovo Spider-Man era stato talmente insistente e pervasivo da convincermi comunque ad andare al cinema. 

Inutile negarlo, tutto l’interesse per l’ennesimo tassello del Marvel Cinematic Universe girava attorno alla possibile comparsa degli attori che avevano vestito i panni del supereroe nelle precedenti versioni cinematografiche. Se ne parlava da mesi, i leak erano continui, non per nulla Andrea Antonazzo lo ha definito come «il più grande segreto di Pulcinella nella storia del cinema di supereroi».

L’evidenza dei fatti era ormai sotto gli occhi di tutti. Aspettarsi da parte di Walt Disney, la macchina dell’intrattenimento più grande e potente del pianeta, un’autentica sorpresa era un’illusione in cui non investire nessuna aspettativa. Era inevitabile che avremmo visto uno dei meme più famosi di Internet in versione live-action e su grande schermo, eppure marchiarsi dell’ignominioso peccato dello spoiler era la cosa più grave che potesse succedere. 

Quando al cinema è finalmente apparso Andrew Garfield, anticipando di qualche minuto Tobey Maguire, in sala ho chiaramente avvertito lo sciogliersi di una tensione presente in ogni singolo spettatore. La paura che le cose potessero non andare come dovevano, con conseguente smarrimento per il fatto di venire sorpresi da un’opera d’ingegno, era stata evitata con cura. Tutto era andato come doveva andare. Liscio come l’olio.

Non bastano di certo le recenti trovate del Doctor Strange di Sam Raimi – la ridicola e rapidissima morte degli Illuminati, retrocessi in dieci minuti da tassello fondamentale della Fase 4 a macchiette da eliminare senza pietà – per poter parlare di un ritorno a un cinema che ama sorprendere lo spettatore più che lisciarlo a ogni costo. Al regista di La casa sembra essere stata data carta bianca, ma è evidente come in realtà si tratta di una libertà da giocarsi nelle parentesi tra un paletto della produzione e un altro

Un supereroe zombi o una battaglia a suon – è il proprio il caso di dirlo – di note musicali non sono sufficienti per cantare vittoria. Parliamo ancora una volta di film progettati a tavolino da ottimi manager (come è sempre stato, va detto) dove le capacità visionarie di mettere in piedi blockbuster in grado di raccontare qualcosa di davvero nuovo sono del tutto assenti (o castrate, nel caso di Raimi). Il problema di questa situazione è che pare sia il pubblico stesso a non cercare questo tipo di stimoli, come se non si fosse più capaci di processare narrazioni un minimo complesse. E stiamo pur sempre parlando di blockbuster alla Amblin Entertainment – puntando in alto e facendo un esempio di produzioni commerciali in grado di segnare un minimo l’immaginario – non certo di Nabokov.

E infatti le reazioni post-visione all’ultimo Spider-Man erano indirizzate alla polarizzazione più assoluta, come se non ci si potesse immaginare nulla di più gratificante. C’era chi ha pianto, chi non si era mai emozionato in maniera così intensa, chi non credeva ai suoi occhi di fronte a tanta magnificenza cinematografica. Premetto che non stiamo parlando di un brutto film, sia chiaro, ma del solito prodotto confezionato in maniera patinata e ineccepibile. A visione terminata non c’era di che lamentarsi, ma neppure da strapparsi i capelli per la soddisfazione. Confermare però che si trattasse esattamente di quello che si voleva vedere era severamente vietato, uscire dai binari delle aspettative fuori discussione. Che il Marvel Cinematic Universe sia ormai più simile a una lunga serie tv di fascia media girata con tanti soldi è ormai chiaro a tutti, e la nuova sortita nel multiverso di Spider-Man ne è la conferma più cocente.

Parlo di “nuova sortita” perché, vale la pena ricordarlo ancora una volta, con il primo esperimento a riguardo – Spider-Man – Un nuovo universo di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman – le cose erano andate in maniera ben diversa. Il lungometraggio animato prodotto da Phil Lord e Christopher Miller aveva puntato tutto sul sovvertire le aspettative del grande pubblico – restando sempre ben saldo in un’ottica da blockbuster, non certo da art-house – introducendo un nuovo protagonista, inseguendo uno stile grafico che si allontanava con forza dalla ricerca della stilizzazione iperrealistica della Pixar e buttando sul tavolo una serie di meccaniche narrative già note a chi leggeva fumetti ma del tutto aliene a chi i supereroi li conosceva solo al cinema o in tv. Non siamo certo dalle parti dell’avanguardia, ma almeno la sensazione era quella di un prodotto fresco ed effettivamente moderno. Ricordo con chiarezza come il giorno seguente averlo visto in sala subii la visione di quel disastro di Ralph Spacca Internet e la sensazione fu quella di un salto nel tempo a ritroso di almeno quindici anni.

Poco male comunque, perché adesso abbiamo un nuovo capitolo di Spider-Man, costruito su misura per alimentare l’apparato su cui si basa tutta l’idea moderna di pop-culture. Quindi eccoci sommersi da un profluvio di meme, Funko Pop, articoli tipo “10 cose che forse non sapete su…” costruiti sul nulla pur di rubare qualche click in più partendo da Google Discover. Sia chiaro, sono il primo a non tirarmi fuori da questa cosa. Solo comincio ad avere l’impressione che le cose siano un attimo sfuggite di mano.

In camera di mio figlio undicenne trova posto uno scaffale che si sta poco a poco riempiendo di action figure, Gunpla, enormi set Lego dedicati a qualche franchise anni Ottanta. Uno spaccato temporale cristallizzato come i Pokemon di Daniel Arsham, forse il più spietato (e frainteso) cantore della stasi in cui stiamo vivendo. Nulla di troppo diverso da quanto si vede in qualsiasi fumetteria o negli sfondi di youtuber fuori tempo massimo. Ogni pezzo di questa disordinata collezione è stato acquistato da siti o negozi che esibiscono con orgoglio il gagliardetto di true defenders della pop-culture. A questo punto il mio problema è capire se in questo guazzabuglio di plastica – in cui anch’io spesso amo perdermi – un’idea di cultura a un certo punto la si possa incontrare o è solo un cul de sac in cui siamo finiti negli ultimi anni.

Se potessimo fare un passo indietro, più o meno a metà del secolo scorso, tra i più strenui oppositori alla cultura popolare troveremmo Adorno. Il filosofo/musicista non la vedeva infatti come genuina espressione della gente ma come un prodotto indirizzato al mero profitto. Owen Hulatt spiega che per il celebre teorico tedesco «la cultura popolare non solo è arte pessima (anche se lo è, sostiene) ma addirittura dannosa: ostacola la vera libertà». Questo perché ai suoi occhi non era possibile scindere l’idea di industria culturale da quella, apparentemente frivola e innocua, di guilty pleasure. Ovvero quello che noi scambiamo ogni giorno sempre di più per celebrazione della pop-culture. 

L’aggettivo culture accanto a pop più che una definizione sembra una scusa e un modo per pulirsi la coscienza dopo l’acquisto compulsivo di action figure, di feticci di qualche culto nostalgico, o dell’esaltazione per l’ennesima reiterazione di franchise ormai esauriti da tempo. Per incappare in quello che conosciamo già alla perfezione, insomma. Non siamo obbligati a esaltarci e a capire l’arte di un Philippe Parreno, ci mancherebbe, ma questo non significa che dobbiamo per forza di cose spacciare la nostra zona di confort come cultura. Altrimenti si finisce al cinema a emozionarsi come non mai per un colpo di scena che sapevamo sarebbe arrivato già mesi fa. 

Ci abitueremo – o ci siamo già abituati? – a trovare in prodotti tutt’al più onesti e ben confezionati una soddisfazione fuori misura per la loro effettiva qualità. A questo punto meglio fare come dice Jennifer Szalai dalle pagine del New Yorker: «Se vuoi ascoltare Rihanna mentre leggi l’ultimo di Dean Koontz, vai avanti e fallo. Non fingere di saperla lunga. Smetti di atteggiarti e calmati. Non hai niente da perdere se non il senso di colpa». Tanto vale godersela e basta, senza neanche provare a giustificarci. Oppure potremmo provare a ricordarci la differenza tra semplici guilty pleasure e produzioni che riescono a essere popolari cercando al contempo di alzare l’asticella di quanto ci si aspettava di vedere.

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