RubricheMarginiLa bellezza e il disgusto di un corpo marcescente

La bellezza e il disgusto di un corpo marcescente

"Margini", una rubrica di Fumettologica a cura di Tonio Troiani. Ogni 15 giorni riflessioni sulla narrazione annotate tra le parti bianche di ogni pagina scritta e disegnata.

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Sarà capitato a chiunque di decelerare in prossimità di un incidente stradale. Sembra quasi di essere soggiogati da una forza irresistibile. Siamo costretti a voltare la sguardo, mentre siamo percorsi da uno strano fremito: da un lato proviamo una curiosità selvaggia, quasi animale, dall’altro siamo scossi dal timore di incrociare qualcosa di raccapricciante. Eppure, la curiosità la vince, e questo irrefrenabile desiderio ci costringe a rallentare e a lanciare uno sguardo furtivo. Proviamo qualcosa che intreccia in maniera inestricabile attrazione e repulsione

Sarà perché sotto la pelle nascondiamo, come scriveva Friedrich Nietzsche, «masse insanguinate, budella di escrementi, viscere, tutti quei mostri che succhiano, che pompano – informi o brutti o grotteschi, e in più con un odore increscioso». Un’immagine che tendiamo a rimuovere, ma che solletica il nostro appetito di sentimenti forti. Sfido chiunque a pensare a se stesso come carne cruda, putrefazione e puzzo? Eppure, ci piace solleticare ogni tanto la nostra fantasia e ricordarci che siamo un ammasso sanguinolento di organi, muscoli e tendini.

cadavere Dolci tenebre
Il cadavere al centro del fumetto “Dolci tenebre” di Fabien Vehlmann e Kerascoët

È più semplice ricordarci – senza nauseare – che siamo esseri mortali attraverso un elegante e romantico scheletro. Le ossa sbiancate non creano turbamento, tranne se non cominciano a muoversi e a ballare. Eppure, le danse macabre più conturbanti erano proprio quelle che mettevano in mostra i diversi gradi di decomposizione. È proprio questo stadio intermedio che suscita l’orrore maggiore: carne morta che brulica ancora di vita. È un po’ il terrore che suscitavano gli zombi, prima dell’inflazione degli ultimi anni che li ha resi poco più che sfondo alle vicende dei noti sopravvissuti di Robert Kirkman.

Tuttavia, il contatto visivo (lasciamo da parte quello tattile e le turbe che H.P. Lovecraft descrive Nei cari estinti) con un cadavere è un rito di passaggio, e Stephen King lo descrive sapientemente in quello che forse è uno dei suoi racconti migliori. Pubblicato nella raccolta Stagioni diverse, The Body (Il corpo) o noto con il titolo della riduzione per il grande schermo Stand By Me, ha al centro l’incontro tra un gruppo di ragazzi e il corpo in putrefazione di Ray Brower. Il loro viaggio nel cuore dell’estate aveva come unico scopo quello di trovare il corpo del ragazzo scomparso. La scoperta non è delle più piacevoli e sbatte in faccia ai nostri la consapevolezza della propria mortalità. Un incontro che più che provocare conati di vomito, ghiaccia lo stomaco del protagonista: 

«C’erano formiche e insetti su tutta la faccia e il collo. Correvano all’impazzata dentro e fuori dal colletto rotondo della maglietta. Uno scarabeo gli uscì dalla bocca, attraversò la guancia glabra, passò su un’ortica, e scomparve. […] Mi girai, sicuro di essere sul punto di vomitare, ma il mio stomaco era secco, duro, tranquillo. Improvvisamente mi misi due dita in gola, cercando di costringermi a vomitare, sentendone il bisogno, sperando di buttare tutto fuori e liberarmi. Ma il mio stomaco fece solo un piccolo singulto e poi tornò tranquillo.»

Il romanziere americano sa bene che un cadavere è un ossimoro. Privo di vita il corpo continua a essere un ricettacolo di forme biologiche che brulicano al suo interno, svelando una dura verità: siamo cibo per vermi. Rappresentare un’immagine così potente senza scadere nella banalità e nei fatali moralismi della storia dell’arte è un’opera ardua.

La testa mozzata che apre “I dilettanti” di Conor Stechschulte

Se il fumetto della Golden Age, grazie alle mitiche testate della EC Comics di Bill Gaines non aveva alcuna ritrosia a mostrare cadaveri mangiucchiati, putrefatti, squartati e ridotti in poltiglia, l’avvento del Comics Code debellò la morte e le sue rappresentazioni più triviali dalle pagine dei comic book americani. Più in generale, di cadaveri eccellenti la storia del fumetto ne è piena, ma restano cadaveri di carta. Ciononostante la carta talvolta riesce nella disperata impresa di suscitare quel fremito e quel disgusto che solo un cadavere marcescente è in grado di produrre. 

Conor Stechschulte apre The Amateurs (in italiano I dilettanti, edito da 001 Edizioni nel 2017) con la conturbante visione di una testa tranciata di netto in evidente stato di decomposizione. Il tutto è narrato attraverso le pagine del diario di Anne M. Nemeth, una studentessa dell’Istituto femminile Lyre. Tra un nugolo di mosche, Anne e Bethany scorgono la testa di un uomo (scopriremo in seguito a chi appartiene, ma non il motivo per cui si trova là) e, dopo essere scappate in preda all’orrore, decideranno di non farne parola con nessuno. Il non detto fascia il racconto di Stechschulte, tutto sembra sospeso e le efferatezze che serpeggiano lungo le pagine accrescono il mistero intorno alla perturbante presenza che apre il volume.

Una scena dal film “Picnic ad Hanging Rock”

Facendo fede alla tesi di Mark Fisher sul concetto di weird, quella testa c’è laddove non dovrebbe esserci nulla. Questa presenza manda fuori di sesto la rassicurante e virginale visione del mondo delle giovani educande. Si respira un senso di smarrimento e di nausea simile a quello messo in scena da Peter Weir in Picnic ad Hanging Rock.

Altrettanto angosciante è il cadavere al centro di Dolci tenebre di Fabien Vehlmann e Kerascoët (nom de plume dietro cui si nascondono Marie Pommepuy e Sébastien Cosset). Il tono idilliaco e sognante delle prime pagine viene bruscamente interrotto dall’irrompere di un liquame che colma lo spazio: è il preambolo al coup de théâtre, e in una tavola che cozza con lo stile cartoonesco e infantile delle prime pagine guardiamo sotto la pioggia il corpo di una bambina in evidente stato di decomposizione. Tutto quello che segue, una commedia che vira al nero si muove lungo i confini di quel corpo. Le piccole creature che abitano i meandri in disfacimento di quella carne sono simili a larve o idee che lentamente di sfaldano, lasciando il posto agli istinti e al ruminare nervoso degli insetti. 

Corpi che giacciono senza vita si trovano anche tra le pagine di Big Questions di Anders Nilsen, non solo umani ma anche animali. Corpi che stramazzano al suolo mentre sono intenti nelle faccende quotidiane o in un inconsueto scontro con la forza della natura. Sono corpi il cui viso è celato, quasi a proteggere la dignità del trapassato o a renderlo nella sua anonimità segno universale. Un cadavere di certo genera un sentimento di angoscia, ma dinanzi a una distesa di corpi ammassati cosa saremmo in grado di provare? 

maus cadavere
Art Spiegelman si ritrae in “Maus” al tavolo da disegno sopra una pila di cadaveri ammassati

Art Spiegelman ha affrontato in Maus un argomento che difficilmente avremmo immaginato fosse possibile illustrare attraverso un medium leggero come il fumetto, eppure nei due volumi del suo opus maius ha saputo raccontare come pochi il delirio della Shoah. Pur essendo parco nel mostrare i momenti più aberranti della storia contemporanea, nell’incipit del secondo capitolo del tomo secondo, riflette sul successo riscontrato dalla prima parte dell’opera. Mentre indossa la sua maschera da roditore, Art si piega sul tavolo di disegno sormontando una montagna di cadaveri. Corpi anonimi, la cui identità è nascosta da volti zoomorfi, ma il cui tanfo di putrefazione è ben intuibile: la tavola sin dalle prime vignette è attraversata dal ronzare isterico di mosche.

In un’epoca in cui sono all’ordine del giorno le pratiche di occultamento della morte e soprattutto di tutto quello che accompagna il post-mortem – come l’imbellettamento dei cadaveri così in voga negli Stati Uniti, patria per eccellenza della rimozione del negativo e difettoso – le opportunità di osservare direttamente un corpo in putrefazione si riducono al lumicino

Molti potrebbero gridare a gran voce che questa è una fortuna, che esserci liberati da queste incombenze e dalla remota (forse) possibilità di imbatterci o semplicemente inciampare in un cadavere sono segni incontrovertibili di un progresso senza sosta, eppure forse la scarsa frequenza con il disfacimento e la putrefazione – che prima rappresentavano una parte importante della nostra esistenza – non sono che un segno del nostro demandare continuo e del nostro atavico terrore del nulla.

Per fortuna, ogni tanto ci sono opere shockanti – e senza alcun fine edificante – che riescono a sbatterci in faccia un bel cadavere gonfio e pieno di vermi senza la nauseante e molto più disgustante spettacolarizzazione dell’orrore a cui siamo sottoposti quotidianamente.

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