
Uno degli eventi più stimolanti che ci si possa aspettare dall’industria a fumetti statunitense è l’arrivo di un nuovo scrittore sulle pagine di una testata storica e la conseguente previsione di una run abbastanza lunga da lasciare tempo all’autore di dire la sua circa il personaggio di turno. Più è forte la discrepanza tra poetica dello sceneggiatore e materiale di partenza, più la curiosità dovrebbe essere tanta. Da lettori di fumetti può succedere di porsi la domanda su quale potrà essere l’approccio più consono alla scrittura di un eroe già codificato e con una lunga storia alle spalle. Il fumettista coinvolto deve scegliere in quale misura metterci del suo o attenersi al canone.
Bisogna poi considerare come tale scelta possa andare a cozzare con le richieste di un‘industria sempre più avviluppata su se stessa, schiava di strategie industriali e di un pubblico sempre meno avvezzo ai cambiamenti. Ma le storie, si sa, vivono di idee e intuizioni. Devono adattarsi ai tempi e ai cambiamenti della società. Se ci si guarda attorno pare che a fare da guida sia una costante ricerca dell’hype, spesso tragicamente propensa all’infame salto dello squalo. A questo punto vale allora forse la pena di studiare come Grant Morrison, uno dei più grandi narratori viventi, si sia approcciato alla scrittura di proprietà intellettuali già mature e ben note al pubblico. Una serie di sfide rivelatesi una serie di successi con ben pochi pari e che potrebbero nascondere una strategia di approccio tutt’altro che astrusa e machiavellica: essere sempre da un’altra parte.
«Mentre gli altri si davano da fare con i meccanismi base per comprendere come potessero funzionare i supereroi in un ambiente tipicamente reale, io decisi che che avrei piantato la mia bandiera nel mondo dei sogni, della scrittura automatica, delle visioni e della magia, dove, dopo gli anni del puritanesimo, mi sentivo improvvisamente più a mio agio.» Per capire la poetica di Grant Morrison potrebbe bastare questo breve estratto dal suo libro Supergods, preso dal capitolo dedicato al suo graphic novel Arkham Asylum. A voler essere ancora più sintetici potremmo addirittura sbilanciarci e ridurre ulteriormente la citazione, limitandoci a riportare «Mentre gli altri».
Sembra un’idea semplice e scontata, eppure all’epoca della pubblicazione del volume in questione permise allo scrittore di incassare qualcosa come 120.000 dollari solo di royalty sui preorder – un dollaro per volume piazzato – mentre nel corso degli anni si è abbondantemente superato il mezzo milione di copie vendute. Così, mentre la gran parte dei scrittori cercava il successo scimmiottando Frank Miller o Alan Moore – era il 1989 – uno stralunato scrittore scozzese da poco al timone della serie Animal Man diventava ricco pubblicando un libro che andava esattamente nella direzione opposta. Solo un anno prima i Public Enemy ci esortavano a non credere nell’hype. Quale migliore dimostrazione della saggezza di tale consiglio se non il successo di un graphic novel diventato best seller evitando con cura quello che tutti avrebbero fatto per seguire il trend del momento?

La cosa davvero sorprendente è che tale meccanismo ha caratterizzato tutta la carriera di Grant Morrison, senza mai incepparsi una volta. Nel 1996 la sua JLA vendeva centinaia di migliaia di copie tornando classica nel senso più radicale del termine. Mentre tutti si perdevano in giochetti metalinguistici o in versioni grim & gritty dei supereroi, Morrison li rendeva miti greci, con tanto di novello Monte Olimpo da cui vigilare la Terra dall’alto. Se ovunque spopolavano vigilanti violenti e dotati di gadget discutibili, ecco i suoi supereroi elevarsi a una nuova purezza. Superman era Zeus, Wonder Woman rappresentava Era, Batman Ade e così via. Il risultato fu una run durata anni, campione di vendite e ancora oggi pietra di paragone per le nuove interpretazioni.
Dopo gli anni quasi da commedia di Keith Giffen e J.M. Matteis e anonime gestioni successive si trattava di un cambio davvero radicale. Grant Morrison stesso lo confermava a Entertainment Weekly: «In quel momento Denny O’Neil era responsabile della gestione di Batman. Ovviamente, Denny è uno dei grandi scrittori di Batman e uno dei grandi editor di Batman. All’epoca, negli anni Novanta, Batman veniva trattato in modo piuttosto serio, concreto e con i piedi per terra. Quindi erano inorriditi dall’idea che Batman potesse frequentare la Justice League o prendere un raggio di teletrasporto sulla Luna. Sono un grande fan di Batman e ho scritto molte storie di Batman. Adoro il Batman che può uscire di notte e salvare i bambini dai magnaccia. Allo stesso tempo, Batman vive nell’universo DC e lo fa da molto tempo. In compagnia della Justice League, Batman rappresenta l’umanità, l’uomo ideale. È il nostro rappresentante alla tavola degli dei. E questo lo rende interessante in un modo davvero diverso».
In un ritorno alla JLA più classica gli altri vedevano al massimo un pasticcio camp fuori tempo massimo, Morrison un’occasione per raccontare storie colossali. Gli eroi smettevano di piagnucolare e di comportarsi come sociopatici per tornare ad affrontare, mese dopo mese, sfide sempre più enormi. Come ci ricordava Andrea Antonazzo nella sua guida alla lettura, «Poi, nel caso in cui tutto questo non fosse abbastanza, a un certo punto c’è sempre Superman che combatte contro un angelo (un angelo toro, per l’esattezza), mentre Flash si domanda “Quello sarebbe il tipo che mi ha confessato di non sentirsi all’altezza del suo mito?”».
Nel 2001 arrivò, dopo un inaspettato cambio di casacca, la proposta di riportare insieme al disegnatore Frank Quitely gli X-Men di Marvel Comics ai fasti della decade precedente, e fu un altro salto carpiato a doppio avvitamento affrontato con la scioltezza con cui io approccio la passeggiata della domenica pomeriggio. I suoi New X-Men prendevano il via dal genocidio di Genosha, tanto per mettere in chiaro quanto si sarebbe picchiato duro, e proseguivano con quella che è diventata sicuramente una delle loro run più iconiche e potenti di sempre. Su quelle pagine i mutanti smettevano di essere reietti e diventavano razza e cultura – anche giovanile – e finalmente esplodeva in tutta la sua energia il loro potenziale di eroi da ammirare.

Come scrivevamo su queste pagine, «Basta tutine ridicole o tristi ammennicoli da tizi tosti post-esplosione Image Comics. I buoni ormai si vestivano con giubbetti che diventavano il loro stesso logo, mentre la celebre X compariva anche sui guanti. Come se si trattasse di una durissima band straight-edge (conoscendo le abitudini lisergiche dello sceneggiatore dubito che lo scopo fosse quello, ma tant’è). Erano icone, non banali vigilanti. E quella che gli si parava davanti sarebbe stata una delle cavalcate più folli della loro storia editoriale».
Ancora una volta Morrison ribaltava le carte in tavola improntando tutto su un nuovo cambio di prospettiva. E, tanto per cambiare, vinceva tutto. Con i suoi mutanti il fumetto di supereroi diventava davvero contemporaneo, anticipando di un anno gli Ultimates e proiettando tutine e mantelli nel ventunesimo secolo. Le mutazioni potevano essere crudeli – vedi i personaggi di Becco, Martha Johansson, Glob Herman, Dummy o Bestia -, i giovani homo superior si scoprivano consapevoli della loro posizione nella scala evolutiva – con gli Omega Skulls – e la scuola per giovani dotati di Xavier diventava una corporazione globale. Addio innocenza, insomma. Una bella svolta dopo i successi della JLA.
Ma non era finita qui, perché nel 2005 arrivava All Star Superman. Alle matite trovavamo ancora una volta Quitely, probabilmente il miglior interprete di sempre delle visioni di Grant Morrison oltre che, non c’è bisogno di dirlo, disegnatore fuori scala. Prima di allora, aveva accompagnato lo sceneggiatore scozzese nelle run più mainstream come nei progetti più folli alla We3 o Flex Mentallo. A cinque anni dalla miniserie JLA: Earth 2 i due si ritrovavano ancora una volta a lavorare assieme al più iconico dei supereroi. L’occasione era la linea All Star, risposta di casa DC all’inprint Ultimate della Marvel. L’idea era quella di prendere autori di caratura internazionale e metterli al lavoro sui personaggi più famosi della casa editrice, scrivendo storie dal taglio contemporaneo dedicate a nuovi lettori. Nessun vincolo di continuity o di inserimento in mega eventi cross-seriali. Lo scopo era dare un buon motivo per cominciare a leggere fumetti a chi non l’aveva mai fatto.
Morrison sapeva bene che realismo e concretezza erano già stati esplorati dalla Casa delle Idee e allora invertì repentinamente la rotta: scrisse un Superman che più classico non si può. Anche se l’assunto della sua gestione è quantomeno drammatico – Kal El è destinato a morire per un eccesso di energia solare – la serie è un fumetto luminoso e pieno di meraviglia. Superman è l’essere più buono dell’universo e deve affrontare di numero in numero imprese sempre più fuori di testa. È un fumetto che fa il fumetto, evitando con cura giochetti editoriali, riflessioni sociali o trovate metalinguistiche. Splendido e capace di grandi vendite. Difficile non perdersi nelle sue pagine senza avere un sorriso stampato sulle labbra.
Dopo tale successo il ritorno alle origini sembrava la nuova frontiera del fumetto popolare – il cui migliore erede è stato senza dubbio il Daredevil di Mark Waid, costruito sugli stessi presupposti (e con l’esorbitante apporto grafico di Paolo Rivera, Marcos Martin, Mike Allred, Jock e Chris Samnee) – ma per Grant Morrison continuare su quella strada sarebbe stato troppo facile. Così nel 2006, una volta trovatosi alla guida di Batman, lo sceneggiatore mise in piedi un fumetto complesso e cervellotico destinato a durare fino al 2013. Anche se inizialmente non raccolse il plauso che meritava, la gestione dell’uomo pipistrello si dimostrò, dopo qualche numero, letteralmente totale.

Durante le oltre 2000 pagine che la compongono lo sceneggiatore costruì una ragnatela in grado di unire tutte le storie di Batman mai narrate. Oltre a una quantità folle di richiami e di simboli più o meno nascosti questo si tradusse in una storia ipertrofica, dove l’eroe viaggia nel tempo, scopre di essere padre, viene sostituito da un clone, ha un sacco di allucinazioni fuori di testa, mette in piedi una multinazionale della lotta al crimine e, ciliegina sulla torta, ci proietta nel futuro distopico del Batman numero 666. Una follia con ben pochi pari, sebbene perfettamente lucida e costruita al dettaglio.
Tra tutte queste intuizioni la mia preferita rimane l’avvio del ciclo Batman and Robin, praticamente un remake diretto da David Lynch del telefilm classico con Adam West. La più colorata e camp delle interpretazioni del vigilante di Gotham diventava un incubo allucinato, tracciando una direzione che nessuno aveva mai deciso di intraprendere prima, nonostante fosse sotto gli occhi di tutti da anni. Ogni volta che si pensa a Batman è un continuo rimbalzare tra una visione più gotica e l’ennesima reiterazione cruda e realistica. Grant Morrison preferì invece una via psicotropa, al contempo colorata e da incubo. Come se le plasticose trasposizioni cinematografiche di Joel Schumacher virassero all’improvviso verso gli incubi infantili del Willy Wonka di Gene Wilder.
In questo articolo abbiamo analizzato le run più lunghe e di maggiore successo commerciale di Grant Morrison, quelle più inscrivibili nella definizione di prodotto industriale. Non ci sono le follie di Seaguy o le strutture arzigogolate di Seven Soldiers. Abbiamo trattato solo quelli che potrebbero essere definiti come blockbuster. E, se li si guarda con dovuto distacco, effettivamente di quello di tratta. Vendite enormi, accessibilità alla portata di tutti, nessuna idea davvero nuova. Anzi, potremmo sbilanciarci e dire che il concept alla base di ognuna di queste gestioni è tanto lapalissiano da sconfinare nel banale: Superman è una specie di semidio benevolo in visita sulla Terra, la Justice League unisce eroi difficilmente paragonabili a noi semplici umani, Batman è consapevolmente schiavo del suo labirinto mentale e gli X-Men non se la sono mai passata bene nonostante possano fare cose incredibili.
Quando si ritrova a scrivere di personaggi così iconici, Grant Morrison non cerca colpi di scena fuori testa o farraginose strategie per attirare l’attenzione. La sua ossessione per i processi mentali la si vede anche nella sua volontà di seguire un indissolubile fil rouge con tutto quanto c’è stato prima. Morrison non porterà mai uno strappo con il passato, al famigerato salto dello squalo di cui parlavamo in apertura, preferendogli piuttosto un’evoluzione naturale della storia del personaggio. Le sue idee sono il frutto del filo dei pensieri, non di una ricerca di laboratorio su cosa possa apparire più imprevisto e scioccante.

«Mentre gli altri» analizzano con precisione chirurgica le aspettative del lettore, ricercando che cosa possa sorprenderlo e cosa no, lo scozzese si affida a una sorta di scrittura automatica che gli consente di portare a galla che cosa rappresenta davvero il personaggio in quel momento. Si tratta di un processo più mentale che cerebrale. Il segreto di Grant Morrison e della sua scrittura prodigiosa sta tutto nel costante desiderio di un’evoluzione senza fine che parte da intuizioni tutt’altro che criptiche o nascoste. Come sostiene da sempre Alan Moore, altra persona che di scrittura ne sa qualcosa, le idee sono ovunque e già presenti.
Secondo lo sceneggiatore di Watchmen e V for Vendetta, tutte le idee esistono contemporaneamente all’interno di un piano della realtà extra materiale che ama chiamare l’Ideaspazio, la sua personale versione dell’inconscio collettivo di Carl Jung. In tale modello di mondo mentale tutti abbiamo il nostro piccolo spazio privato dove conservare le nostre intuizioni, ma nulla ci vieta di abbandonare il nostro cortiletto per esplorare idee più grosse e sospese in uno spazio condiviso. Potremmo definirle come idee comuni, sia nel senso di “accessibili a tutti” come di “non fuori dall’ordinario”. Si tratta dello spazio liminale dove Superman, per esempio, è Superman nella sua essenza più pura.
Potremmo quasi dire che uno dei più visionari scrittori delle ultime decadi debba tutti i suoi successi più mainstream al potere dell’ovvio, alla sua capacità di afferrare queste semplici verità e di saperle far brillare per quello che sono. Spesso scegliendo una strada più diretta (All Star Superman) altre volte sfruttando architetture più complesse (il ciclo su Batman). Al centro di tutto tornano le idee come frutto di un lungo processo di evoluzione, senza giochi di prestigio o effetti speciali destinati a durare il tempo di un battito di ciglia. Una lezione che forse dovremmo tenere a mente più spesso.
Leggi tutti gli articoli di Sofisticazioni popolari
Leggi anche: Perché Spider-Man ci piace così tanto
Entra nel canale Telegram di Fumettologica, clicca qui. O seguici su Instagram, Facebook e Twitter.