L’intelligenza artificiale al tempo della sua riproducibilità tecnologica

Perché l'intelligenza artificiale nell'illustrazione è più arte che non tecnologia e soprattutto perché il mondo sta per finire‌

È arrivata l’intelligenza artificiale. Lo avete letto da mille parti e in mille salse diverse. Si va dalle paure millenariste allo stupore del più classico show per vendere olio di serpente. C’è addirittura gente che di lavoro costruisce AI e poi dice che sono davvero senzienti, scatenando un putiferio che finisce con la scomunica e il licenziamento in tronco. Insomma, un gran casino.

Dopo aver giocato per quasi due o tre anni con sistemi che generano testi scritti, facendo fantasticare un’intera generazione di aspiranti scrittori sulla possibilità di far scrivere il proprio romanzo o saggio filosofico da un ghost writer di nome Siri o Alexa, adesso tocca alle immagini. Un po’ statiche, un po’ pittoriche, molto illustrative e poco dinamiche, ma comunque è un inizio. Le AI disegnano e lo fanno proprio bene.

Anche perché l’interpretazione dell’opera è nell’occhio di chi la guarda e noi abbiamo nutrito gli “autori” digitali di migliaia di tonnellate di immagini già viste, che sono state scomposte, sminuzzate, frammentate e statisticamente ricomposte, infinite volte, generando caleidoscopici variazioni con regole indotte in maniera a noi del tutto ignota. È come se ci stupissimo di leggere volumi tirati su a caso sulla base di un qualche strano indice alfabetico dalle profondità della biblioteca permutativa di Borges. Capolavori? Castronerie? Sgorbi? Meravigliosità? C’è già dentro tutto, ovviamente.

Comunque, è arrivata l’AI che disegna e il dibattito che ne è scaturito nel mondo fumettistico (che teme l’era dei fumetti automatici, cioè disegnati autonomamente dal computer) è stato notevole. Stanno intervenendo un po’ tutti, dagli autori come quella di Gipi a quelle dei pensatori come Francesco D’Isa, filosofo e artista visivo, cioè dotato strutturalmente delle due sensibilità necessarie a pronunciarsi sul tema. Prendo un suo commento pubblico come parte per il tutto.

Sui social D’Isa parte dagli aspetti più profondi ed etici (il consumo energetico eccessivo; i prezzi eccessivi; l’uso di un codice chiuso laddove i programmi si cibano di immagini altrui) e poi l’affondo: «Ci si concentra invece sulle solite questioni di cui ho parlato su il Tascabile, ovvero che non è vera arte, che non ci si può fare fumetti, che non è un processo creativo al pari degli altri, che è una moda passeggera, eccetera. Queste critiche ricordano Baudelaire (e altri) davanti alla fotografia, un mezzo tra l’altro di utilizzo ancora più semplice, perché “basta un click”, no?»

La tesi di molti autori che la pensano come D’Isa è semplice: come un tempo si dubitava che la fotografia fosse arte, ma invece è arte altroché, così adesso si dubita che l’AI sia arte, ma vedrete che anche questa sarà arte, altroché. L’invito è quello all’apertura mentale: accettate che ci sono persone che sono artisti anche se usano tecnologie che noi non usiamo o comprendiamo.

L’idea di fondo è in parte una rivisitazione della “rimediazione” marxista di Jay David Bolter e Richard Grusin: i vecchi media (come il giornale e il cinema) non scompaiono all’avvento dei nuovi (come la radio e la Tv) ma si adattano e cambiano modi e ruoli. Stessa idea per le AI che disegnano rispetto alle vecchie illustrazioni e fumetti fatti a mano o con il computer: ci si sposterà, ci si stringerà e si aggiungerà un posto a tavola. Un posto bello grosso, per carità, ma niente di nuovo.

La rimediazione è una tesi interessante ma che non funziona. Con l’avvento di internet nel settore dei media tradizionali non c’è stata rimediazione che abbia tenuto: l’emergere dei social ha chiaramente dimostrato che ci sono altri modi che assorbono ed escludono quel che precedeva. Con le AI non si vede perché dovrebbero mantenersi degli assetti del vecchio mondo dell’illustrazione fatto di strutture economiche e sovrastrutture sociali paragonabili.

Allora cosa ci resta? Visto che siamo nei tempi perfetti per un sogno di una notte di mezza estate, lasciatemelo dire: rivendico il diritto di proclamare che la fine del mondo è vicina. Gridiamo per le strade che il Messia automatico sta arrivando e siamo giunti alla fine dei tempi. Dopo di noi, ci sarà solo il diluvio. Mi spiego.

Un bel po’ di tempo fa c’era già stato, tra i tanti, un tentativo luminoso di abbracciare il ragionamento del rapporto tra l’opera d’arte e l’industria culturale. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica è il saggio stra-citato di Walter Benjamin, che un suo valore lo ha ancora oggi: segna un punto di partenza di una riflessione profonda e politica che però all’epoca era molto connotata.

Benjamin voleva superare il valore tradizionale e rituale dell’arte perché la sua riproduzione meccanica coincideva con l’epoca buia del nazismo (durante la quale Benjamin scriveva) e l’autore spingeva affinché l’opera d’arte avesse un valore basato sull’idea di politica. Il saggio è stato scritto nel 1936 ed è stata la Scuola di Francoforte ad appropriarsene per definire una linea di pensiero sociale (tant’è vero che poi Benjamin l’ha riscritto varie volte per sganciarsi, senza successo, dall’interpretazione marxista).

Prendiamo la lettura sincretica, che nasce dal combinato disposto di Benjamin-Marcuse. L’idea di fondo è il ruolo dell’arte riprodotta meccanicamente con lo scopo di assoggettare le masse: è la nascita della cultura di massa e di quello che sarebbe poi stato chiamato Masscult e Midcult da Dwight Macdonald nel 1960 sulla Partisan Review. Ne riparlano in tanti, a partire da Umberto Eco pochi anni dopo l’uscita del saggio di Macdonald, e l’idea di fondo è affascinante: «Masscult e Midcult è un testo sinceramente preoccupato, non una riflessione sdegnata (e compiaciuta) sulla morte dell’arte o sulla resa dell’Alta Cultura ai tempi moderni». Il Masscult «è un fatto nuovo nella storia». La cultura di massa «non è un destino o una calamità, ma un prezzo che ci tocca pagare al progresso economico, al benessere, alla (poca) uguaglianza che abbiamo conquistato». In una frase, sempre di Umberto Eco, il Masscult è «un effetto perverso della democrazia».

Ecco, l’intelligenza artificiale che disegna è un po’ la stessa cosa: il motore di una trasformazione radicale che è alla base di un cambiamento di paradigma, di uno scivolamento in un altro quadro di riferimento e in un altro sistema di relazioni e orientamenti. Altro che buonismo, altro che riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, altro che fotografia come mestiere e tecnica: l’intelligenza artificiale è la fine del mondo come lo conosciamo. Non perché è davvero senziente, nel senso che molto vorrebbero dargli. No, non per quello. Invece, per il suo modo radicale di cambiare le regole del gioco, di spostare tutto in un altro contesto. Farà venir fuori un altro meccanismo sociale, così come la riproducibilità tecnica dell’arte ha creato il Masscult e il Midcult, definendo un concetto all’epoca nuovo e inedito, cioè “la cultura di massa”, in “effetto perverso della democrazia”. Adesso, vediamo cosa ci porterà la AI applicata all’arte e all’illustrazione/fumetto in particolare. Ma anche al resto (perché poi manca poco).

La domanda, dunque, diventa: quando finirà il mondo così come lo conosciamo? Non domani, non dopodomani, ma entro la fine della settimana con tutta probabilità. O al limite entro fine mese. Metaforicamente parlando, certo. Non adesso e neanche tra poco, ma nemmeno tra molto tempo.

Datemi retta: non c’è niente di cui essere ottimisti. Comprate fumetti e teneteli al calduccio in casa, perché potrebbero essere gli ultimi. Poi ci saranno altre cose, ma completamente diverse e neanche lontane parenti di quello che avevamo un tempo. E poi Netflix ci farà una serie tv nostalgica sopra, ovviamente tutta realizzata dalle AI.

Antonio Dini, giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. La sua newsletter si intitola: Mostly Weekly.

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