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RubricheSofisticazioni PopolariEducare agli anni 80 significa bloccarsi nel passato

Educare agli anni 80 significa bloccarsi nel passato

Tendenze e direzioni della pop culture viste da chi non riesce a farne a meno, anche se vorrebbe. "Sofisticazioni popolari": una rubrica di Fumettologica a cura di Marco Andreoletti. Ogni 15 giorni riflessioni sullo stato dell’industria dell’intrattenimento, cercando di capire come sopravvivergli.

Immagine da “Stranger Things”

La serie a fumetti Paper Girls di Brian K. Vaughan e Cliff Chiang esordiva nel 2015 e per l’ennesima volta ci riportava – almeno nei primi capitoli – in una visione degli anni Ottanta fatta di corse in BMX e scorribande di brat pack in erba. In poche parole l’ennesima reiterazione di quanto fatto da It di Stephen King, dai Goonies di Richard Donner e così via ormai trent’anni fa. Qualche mese dopo l’arrivo del fumetto targato Image Comics nelle fumetterie statunitensi sarebbe esplosa sugli schermi di tutto il mondo la prima stagione di Stranger Things, un successo travolgente, in grado di spostare per l’ennesima volta l’interesse per la decade più citata degli ultimi vent’anni – gli anni Ottanta, appunto – in cima all’agenda del pubblico generalista.

Non che prima fosse sopito: al cinema c’era l’ennesimo Stars Wars – nonostante il primo capitolo sia del 1977, sono stati i due successivi a capitalizzare definitivamente il suo ruolo nell’immaginario collettivo -, alla radio musicisti come Bruno Mars suonavano canzoni che parevano uscite da una capsula del tempo e a Steven Spielberg veniva affidata la regia del film tratto da Ready Player One, romanzo/fenomeno del 2010 simbolo del nerdismo ottantiano più spinto.

Estate 2022. A oggi sono passati sette anni e pare che le cose non siano cambiate di una virgola. Sulla piattaforma Amazon Prime Video viene resa disponibile, con un buon successo, la trasposizione live-action di Paper Girls. Nel frattempo, direttamente dai server della concorrenza, un ragazzo in giubbino di jeans, con tanto di toppa di Ronnie James Dio sulle spalle, intento a suonare Master of Puppets su una BC Rich Warlock mentre un gruppo di demoni cerca di strappargli la pelle di dosso – il tutto ambientato in un set interamente digitale che pare progettato partendo da qualche dipinto di Michael Whelan o Dan Seagrave – diventa una delle immagini più popolari dell’anno. 

Per l’ennesima volta siamo proiettati indietro nel tempo, addirittura fino al… 2009, anno che ci regalava Brutal Legend. Videogioco a firma del geniale game designer Tim Schafer dove vediamo un un ragazzo intento a suonare metal sulla sua chitarra a coda di rondine mentre un gruppo di demoni cerca di strappargli la pelle di dosso. Piccolo fun fact, entrambi i musicisti si chiamano Eddie. Non ho idea se i fratelli Duffer siano dei videogiocatori e il richiamo sia voluto. Il punto non è nemmeno se si tratti di un omaggio, una casualità o un furto. Quello che conta è che lo stesso tipo di fascinazione romantica – e distorta, ma ci arriviamo – per una decade ormai lontana sia rimasta immutata in quasi quindici anni di intrattenimento.

Sullo stesso argomento rifletteva anche Jen Chaney di Vulture quando, già nel 2016, scriveva che «la nostra fissazione culturale per il decennio dei Duran Duran è ora ufficialmente durata più a lungo del decennio stesso». Nello stesso articolo si cercava poi di dare una spiegazione più scientifica a questo curioso fenomeno: «La possibilità di viaggiare nel tempo dell’era digitale – aspetto che, grazie a YouTube e ad altre Internet rabbit-hole, ha dato alla nostalgia della cultura pop ancora più spazio per dilagare – ha interrotto il ciclo di vent’anni che era lo standard. Probabilmente la nostalgia moderna ora arriva in due ondate. Alla fine degli anni Novanta e Duemila, abbiamo avuto il Revival 1.0 degli anni Ottanta, che generalmente celebrava il decennio come un grande e fantastico ballo di fine anno degli anni Ottanta con capelli troppo voluminosi e flashback alla A Flock of Seagulls. Ora abbiamo il Revival 2.0, che riconosce in modo più completo l’impatto e il significato storico di un’era un tempo vista principalmente attraverso una lente fluorescente al neon». 

Insomma, dopo averne goduto in senso ironico a cavallo tra i due millenni adesso gli anni Ottanta ci piacciono proprio. Una bella rivincita visto quanto li avevamo bistrattati negli anni Novanta. Dorian Lynskey di UnHerd spiegava come «nei 2000 i prodotti degli anni Novanta ci hanno spinto a una nausea da sbornia. In Boogie Nights (1997) di Paul Thomas Anderson, gli anni Ottanta sono un momento in cui tutto va clamorosamente storto: troppi soldi, troppa cocaina. Quando artisti come Beck e il produttore Stuart Price misero in primo piano le influenze degli anni Ottanta nel 1999, molti critici pensarono che fosse una specie di scherzo. Ben presto, però, le virtù del pop anni Ottanta furono seriamente rivalutate. Neil Tennant dei Pet Shop Boys ha elogiato l’electroclash perché “non sta cercando di essere normale. Negli anni Ottanta, il pop era ambizioso. Poi è diventato uno tra tanti: rave, football, Britpop. Ha smesso di essere ambizioso e ha celebrato l’ordinarietà”. Gli anni Ottanta sono rinati come l’apogeo del pop come evasione dalla realtà. La loro vastità – sonora, melodica, emotiva, commerciale – non era più imbarazzante ma ammirevole».

Se si cerca online c’è una marea di articoli che provano a spiegare il perché del successo di una decade tanto particolare, limitandosi quasi sempre a dire che erano anni pieni di creatività e ottimismo. Charaf Tajer, direttore creativo del brand Casablanca, non ha dubbi: «Gli anni Ottanta furono un’esplosione di creatività e ricerca individuale come nessun altro decennio che abbiamo avuto prima o dopo è mai stato» spiegava su Esquire. «Era come se qualcuno avesse lanciato una bomba di glitter a terra e fosse esplosa. Negli anni Novanta la cultura pop ha cominciato a essere troppo studiata, si facevano test, test, test perché si stavano investendo davvero tanti soldi in un cantante o in un film. Oggi non corriamo più rischi. Gli anni Ottanta sono stati l’ultima volta in cui i creativi hanno buttato fuori un sacco di roba e noi, i consumatori, abbiamo deciso che cosa fosse la cultura pop. È stato un decennio magico.» 

Un’altra spiegazione a questo successo infinito è molto più pratica: chi oggi occupa la stanza dei bottoni sono personaggi che hanno avuto i loro anni di formazione negli Ottanta. Magari era vero nelle prime fasi di questo revival ma ora – dopo vent’anni di recupero nostalgico – le cose si sono fatte più complesse. Richard He ha scritto un’appassionata lettera d’amore per gli anni Ottanta, chiarendo ancora una volta quanto tutto fosse pazzesco in quella decade. 

L’ennesimo manifesto di un giornalista che ha avuto i suoi anni migliori tra il 1980 e 1989? Assolutamente no. «A questo punto vorrei fare una confessione: non c’ero nemmeno negli anni Ottanta. Forse è tutta una bugia, una proiezione conveniente. Quando penso a Whitney Houston o Pat Benatar, in realtà penso al 2011: il primo anno in cui ho suonato synth negli Stand and Deliver, la più grande tribute band australiana degli anni Ottanta. Sono stato il primo membro nato negli anni Novanta. YouTube e Spotify sono succeduti alle tradizionali stazioni radio e video musicali, permettendoci di curare i ricordi per noi stessi. Gli anacronismi che ne risultano – playlist con successi molto diversi dal 1980 all’89 – possono essere sciocchi o rivelatori.»

Il punto è tutto qui: gran parte di quel pubblico che continua a decretare il successo degli anni Ottanta in quella decade non era neppure nato. Anzi, spesso neppure chi produce cinema, fumetti o musica lo era. Dua Lipa, autrice dell’album Future Nostalgia, è nata nel 1995 e non si fa certo mancare il video in classico stile anime-vintage. Un tipo di estetica che tra l’altro era finita per essere inglobata anche dal vaporware, tanto per chiarire come i confini storici siano in realtà sfumati e del tutto soggettivi. Per quanto ci si ostini a parlare di nostalgia siamo in realtà finiti in qualcosa di completamente diverso. Forse ora gli anni Ottanta sono molto più simili a un genere fine a se stesso che a un pezzo di storia legato a tutto quello venuto prima e venuto dopo. ll pubblico delle nuove generazioni è diventato il curatore di un proprio personale passato, che si costruisce in base ai propri gusti. 

Non a caso Felipe De Brigard, professore associato alla Duke University, sostiene che nostalgia e immaginazione implichino gli stessi meccanismi mentali: «La mia caratterizzazione [della nostalgia] differisce da quella tradizionale nel mettere l’immaginazione al centro. In primo luogo, suggerisco che la componente cognitiva non debba essere necessariamente un ricordo ma una sorta di immaginazione, di cui i ricordi autobiografici episodici sono solo un caso. In secondo luogo, la nostalgia è affettivamente ondulatoria, come risulta dalla giustapposizione dell’affetto generato dall’atto di simulare – che è tipicamente negativo – con l’affetto suscitato dal contenuto simulato, che è tipicamente positivo. Infine, la componente conativa non è un desiderio di tornare al passato, ma piuttosto una motivazione per ripristinare nel presente le proprietà del contenuto simulato che, se curato, ci fanno stare bene».

In altre parole, la nostalgia «può riportare alla mente periodi di tempo che non abbiamo vissuto direttamente» in un meccanismo denominato anemoia. Parola inventata dallo scrittore John Koenig e che lui definisce così: «Immagina di attraversare una cornice e di finire in una foschia color seppia, dove potresti sederti sul lato della strada e guardare la gente del posto che passa. Gente visse e morì prima che chiunque di noi arrivasse qui, dormì in alcune delle nostre stesse case, guardando la stessa luna, respirando la stessa aria, sentendo lo stesso sangue nelle vene – ma vivendo in un mondo completamente diverso». Secondo De Brigard parte integrante della nostalgia – anche immaginata – è la volontà di ricreare nel presente un passato che genera in noi benessere. Poco importa se questo non sia mai esistito come lo abbiamo in testa noi.

Il fatto che la scia lunga degli anni Ottanta non abbia fine potrebbe derivare proprio dal fatto che, attingendo dall’enorme bacino di dati e informazioni che è Internet, ognuno può pescare quello che vuole e rimontarlo come meglio crede. La stessa Wynona Ryder ha dovuto correggere i fratelli Duffer circa alcuni aspetti del passato ricreati in Stranger Things perché non attinenti alla realtà dei fatti. Per i due showrunner infatti l’importante era che l’atmosfera ricordasse la loro percezione di quella decade, non che la ricostruisse in maniera fedele. 

Questa sovrapposizione tra immaginazione e realtà può avere diverse sfumature. In questo articolo per esempio l’autore racconta di come la sua memoria sia piena di ricordi legati a mondi virtuali ormai indivisibili dalla sua vera storia: «Fino a questa settimana non ero mai stato a Chicago, non ero mai stato a meno di 500 miglia di distanza. Ma l’altro giorno mi sono ritrovato in una piccola zona di Chicago chiamata Northerly Island, un luogo dove avevo trascorso innumerevoli ore e che conoscevo intimamente dalla mia infanzia. Come è stato possibile?». La risposta è semplice. A dieci anni aveva passato un numero infinito di ore a giocare a Flight Simulator, dove era ricostruita la zona in questione. Quello che provava in quel momento era nostalgia per un luogo che non aveva mai vissuto davvero, ma che conosceva per via dell’incrocio tra simulazione virtuale e meccanismi mentali di immaginazione. 

Già nel 1985 il pittore Peter Halley si esprimeva così: «La nostalgia ha sostituito la natura come referente nella cultura postindustriale. La nostalgia è il risultato della massiccia realizzazione del concetto di storia che si è verificata in tutti gli ambiti del pensiero; ma, allo stesso tempo, è anche il risultato del livellamento della storia che accompagna questa sovrabbondanza di pensiero storico. L’immagine della storia non è più la strada asfaltata e ben definita che si snoda sul fianco della montagna. La sua immagine è diventata invece la palude, un pantano attraversato da una miriade di sentieri fangosi che non vanno da nessuna parte, che scompaiono nell’orizzonte nebbioso». E se aveva questa percezione in un periodo di relativa scarsità di informazioni, immaginate cosa avrebbe potuto pensare dell’epoca di YouTube e degli infiniti archivi online.

Quando, qualche anno fa, ci fu la prima grande esplosione di videogiochi indie, ogni volta che ci si presentava un prodotto reso con una grafica a pixel la prima reazione era quella di parlare di tributo agli anni d’oro delle console a 16 bit. Oggi una simile scelta stilistica è presa per una mera scelta estetica – neppure produttiva, visto che spesso programmare in pixel-art si dimostra più oneroso che utilizzare motori grafici 3D – e la grafica a pixel non è che uno stile come tanti altri. Posso sceglierlo pescando da una gamma che va dal cell-shading passando per il fotorealismo e le animazioni disegnate a mano perché più adatto alle mie esigenze di narrazione interna. Ha perso quella connotazione nostalgica e vagamente malinconica di titoli come Owlboy per diventare qualcosa di meramente estetico

Alla stessa maniera gli anni Ottanta paiono essere diventati un’enorme sandbox dove fare quello che ci pare, indifferentemente dal fatto che sia aderente alla realtà o meno. Conosco un sacco di genitori terribilmente determinati affinché i loro figli abbiano i loro stessi riferimenti culturali. Star Wars, I Goonies, i Metallica e così via. Tutti prodotti di un determinato periodo storico che adesso vengono propinati alle nuove generazioni imponendoli come dato di fatto e come standard di cose che “non puoi non conoscere”. Anche se questo significa privarli della cornice storica in cui noi – anzi, loro… io personalmente faccio parte della prima generazione a cui venivano imposti – li avevamo goduti.

Considerato quanto abbiamo detto circa le sovrapposizioni tra immaginazione e nostalgia risulta chiaro come tutti questi elementi vengano considerati alla stregua di un enorme kit Lego da montare e rimontare a proprio piacimento. A questo punto perché passare oltre se le combinazioni a mia disposizione sono già infinite? Forse, rispetto al consueto ciclo dei vent’anni di cui si parlava, questo pare infinito perché non ha una sua origine naturale, ma è stato imposto dalle generazioni precedenti. Mentre sottotraccia la cultura pop continua a evolversi in direzioni in cui gli over 25 non sono ancora arrivati a inquinarla, il consueto processo di storicizzazione del passato pare essersi bloccato in un pantano fatto di troppe informazioni e nessun legame con la realtà

Tornando a parlare di cinema, siamo tutti convinti che la deriva fantastica degli anni Ottanta sia stata una parentesi irripetibile – e non solo a Hollywood, basti vedere cosa combinavano Siu Tung Ching e Tsui Hark a Hong Kong per capire come si trattasse di un fenomeno globale – ma forse c’è un motivo per cui proprio in quel momento così tanti narratori si sentivano allineati al bisogno di raccontare storie ambientate in mondi bizzarri, pieni di folli creature e minacce fuori dall’ordinario. E forse c’è anche un motivo per cui oggi lo stesso bisogno non c’è e dobbiamo per forza riesumarlo dal passato, cercando di convincerci che sia ancora la cosa più adatta possibile a definire il nostro presente. Oppure potremmo scegliere di lasciarlo definitivamente andare e vedere cosa c’è dopo, cercando di capire se qualcuno ci è già arrivato.

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