L’immagine della guerra tra fumetto e fotografia

fotografo guibert coconino

Da quando in Europa è scoppiata una guerra, il mondo occidentale ha conosciuto una nuova narrazione che non credeva di dover più vivere. In pochi giorni si sono presentati sul palinsesto della realtà una serie di scenari apocalittici, fatti e ipotesi che fino a quel momento avevamo relegato nell’ambito delle nostre serate su Netflix: la terza guerra mondiale, la minaccia atomica eccetera. Mentre le città ucraine vengono sventrate dai bombardamenti, i telegiornali e i talk show si riempiono di una miriade di eventi senza controllo e senza mediazione, di immagini e racconti nei confronti dei quali siamo tenuti – ci piaccia o no – a prendere una posizione. 

La verità, la prima vittima della guerra secondo la più che citata massima di Eschilo, è sfumata in un’incertezza che chiede di essere superata. Per la gran parte di noi, la guerra è fortunatamente solo la percezione della guerra: una narrazione diffusa, veicolata dai diversi organi di informazione, che mette insieme propagande, fonti più o meno affidabili, voci ufficiose e ufficiali. Una iper-narrazione che, contrariamente a quanto accadeva nelle guerre del passato, ci trova linguisticamente competenti e, di conseguenza, scettici. Siamo diventati, nel nuovo Millennio, esperti produttori di contenuti, abili manipolatori di immagini e di storytelling. Riconosciamo le capacità persuasive delle narrazioni e le sfruttiamo quotidianamente per costruire la nostra immagine nel mondo. 

Per noi, che viviamo in un contesto occidentale e democratico, la narrazione di questa guerra è dunque, anche, una critica rivolta a noi stessi, al nostro modo di raccontarci e di ingannarci. Come diceva uno che ne capiva, Jean-Paul Sartre (L’imagination, 1936), è sbagliato associare l’immagine a un’idea di sintesi. «L’immagine non è una cosa, bensì un atto.» Ogni immagine, fotografata o disegnata che sia, presuppone un autore, un contesto, una scelta e un’azione che la produce.

fotografo guibert coconino

Dal Novecento, il Secolo delle catastrofi per eccellenza, l’immagine della guerra, e non solo, è quella fotografica. Attraverso la fotografia è stato possibile testimoniare gli orrori e le ingiustizie del Secolo ma anche, di contro, documentare i fatti e i volti dei protagonisti, renderli vivi e reali agli occhi del mondo. Ma questa immediatezza, questa minore mediazione da parte dell’autore, ha comportato dei fraintendimenti. Nella sua imperfezione, nella sua urgenza di catturare il reale, la fotografia si è imposta come una forma di immagine più vicina alla realtà rispetto al disegno, e di conseguenza più ingannevole. Non è forse un caso che una delle più belle riflessioni sull’immagine fotografica arrivi tramite un fumetto, che utilizza come strumento principale di racconto per lo più una forma diversa di immagine, quella disegnata. 

Il fotografo racconta, ovviamente, di una guerra. Nel 1986, il giovane fotografo Didier Lefèvre fu coinvolto da Medici Senza Frontiere in un reportage sull’Afghanistan («c’è sempre una guerra in Afghanistan» ci ricorda Adriano Sofri nell’introduzione al volume italiano, Coconino Press, 2010). Degli oltre quattromila clichés prodotti nel corso del suo viaggio dal Pakistan all’Afghanistan e ritorno – un viaggio che ha avuto su Lefèvre delle conseguenze pesantissime – furono pubblicate sei fotografie sul quotidiano Libération. Ma la sintesi forzatamente imposta dalle esigenze di pubblicazione non consentiva di cogliere pienamente la realtà vissuta e raccolta durante quel viaggio. 

L’enorme lavoro documentario fu recuperato tredici anni dopo dal fumettista Emmanuel Guibert, che decise di ricostruire il viaggio di Lefèvre in forma di graphic novel, di racconto per immagini che unisse fotografie e disegni. Con il supporto tecnico di Frédéric Lemercier, Guibert costruì una narrazione dove le tante fotografie in bianco e nero di Lefèvre si intrecciano armonicamente con il racconto disegnato a colori, che a sua volta “contestualizza” l’atto della fotografia: il disegno produce la narrazione che la fotografia realizza.

fotografo guibert coconino

Ecco allora che le fotografie di Lefèvre assumono un diverso significato, inserite all’interno di un flusso che privilegia il racconto, l’atto del fotografare, alla sintesi dell’immagine. Trovano spazio anche le fotografie imperfette, le sequenze, gli scarti, tutti quei clichés che possano diventare elementi significativi per la narrazione. La fotografia come atto – questa motivazione profonda che è alla base del viaggio, la ferrea volontà di testimoniare la realtà osservata, anche quando questa realtà è ostile, e l’ambizione tenace di realizzare una “bella foto”, qualunque cosa significhi – è il racconto tracciato dal segno di Guibert. 

Al contrario della fotografia, il disegno non è manipolabile: il suo racconto, per quanto non reale, è sempre vero. Quelle scarne linee tracciate sul foglio, quello spazio grigio delle vignette che circondano la figura stravolta di Lefévre sul Colle Kalotac, a metà strada tra Afghanistan e Pakistan, descrivono una realtà non soggetta a opinioni. Sono le forme del racconto che l’autore ha consapevolmente scelto di mostrarci. Lo sguardo di Lefèvre, testimoniato dalle sue fotografie, diventa parte di un discorso che descrive l’oggetto di quello sguardo – la guerra in Afghanistan – ma non solo: vuole proprio riflettere sulle origini di quello sguardo. Vuole raccontare il retroscena dell’immagine, vuole disegnare la forma delle cose che non sono state rappresentate dall’immagine fotografica. 

Il disegno riempie gli spazi, traccia i limiti per superarli, costruisce nuovi significati che l’immagine (fotografica) non riesce a cogliere. Le fotografie prodotte da Lefévre di quegli stessi spazi testimoniano la loro identità, le rendono oggetti validi di testimonianza, ma il disegno le rivela come parti di un discorso, come momenti di una narrazione più ampia.

fotografo guibert coconino

Nella riflessione sull’immagine, e sull’immaginario, che ogni guerra ci impone nostro malgrado, occorre riflettere sulle nostre responsabilità di fruitori e produttori di significato. Il fotografo, tra le altre cose, ci interroga sulla natura dell’immagine, sui limiti e sulle conseguenze del nostro sguardo sulla realtà. Su come il disegno – la narrazione disegnata – possa riempire i vuoti di senso e aiutarci, forse, a capire un po’ di più il mondo in cui viviamo.

Il fotografo – Nuova edizione
di Emmanuel Guibert, Didier Lefèvre e Frédéric Lemercier
traduzione di Donatella Pennisi Guibert
Coconino Press, settembre 2022
brossura, 280 pp, colore
37,00 € (acquista online)

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