Midjourney e fumetto: come sfuggire alla Macchina

midjourney fumetto
Immagine creata con Midjourney

Così, per gioco, ho scritto “Shock in my town” su Midjourney, il famigerato programma di intelligenza artificiale che crea immagini da descrizioni testuali. Ne sono uscite quattro immagini apocalittiche, una più pessimista dell’altra. Palazzi sventrati o mangiati dagli incendi, persone di spalle che camminano verso un idolo che emerge dal fungo di un’esplosione. Roba parecchio catastrofica, diciamo. 

Forse, avrei potuto prevederlo. Ma anche confrontando queste immagini con altre realizzate da colleghi e compagni di gioco, ho constatato che il tono è spesso di questo tenore. Tra i programmi di AI (= Artificial Intelligence) che realizzano immagini basate su stringhe di testo fornite dagli utenti (i cosiddetti prompts: da cui il titolo del graphic novel di Dave McKean realizzato proprio con questo software: Prompt) sembra che Midjourney abbia una particolare predilezione per gli scenari apocalittici, non proprio post-umani, ma quasi. Forse  il nostro amico sa qualcosa che ancora non sappiamo. 

Di certo, questo mondo disegnato in rosso e blu evoca un futuro per nulla rassicurante, persino peggiore di come lo immaginiamo. Come se il contributo della AI alle immagini che il software preleva dalla rete e che rielabora in funzione del prompt umano, fosse quello di metterci in allarme. Mentre ci divertiamo a produrre fumetti e a dare forma alle nostre parole in libertà, le AI stanno producendo immagini inesistenti di esplosioni, città distrutte, uomini e donne rassegnati all’Apocalisse. Proiezioni di sogni che al mattino non ricordiamo più.

Il dato è la chiave, lo sanno bene gli esperti di comunicazione e i guru del digitale. Raccogliere la moltitudine di dati presenti e monitorati su Internet (navigazione in rete, visualizzazione dei video, ricerche online, interessi sui social network, movimenti nello spazio e nel tempo) che vengono costantemente digeriti e trasformati in informazione. «Non si sfugge alla Macchina» diceva Deleuze: dalla culla alla bara siamo schiavi del nostro desiderio. Il linguaggio è il virus del desiderio, e l’immagine sta imparando a venirgli dietro. Dallo storytelling si sta passando all’imaginering, la colonizzazione dell’inconscio.

Nel film Ex Machina di Alex Garland (2014), a un certo punto il miliardario cervellone interpretato da Oscar Isaac sta parlando con il giovanotto stagista selezionato per testare la coscienza delle sue Macchine: il suo ultimo modello ha il corpo e lo sguardo irresistibile di Alicia Vikander. Il personaggio di Oscar Isaac ha costruito intelligenze artificiali così evolute da somigliare in tutto e per tutto agli esseri umani, non solo fisicamente, ma anche nel comportamento. Proprio come i programmi che producono immagini, questi esseri artificiali sono stati programmati per rispondere alle richieste degli esseri umani tramite una ricerca dal web: i motori di ricerca, le domande e le pagine web che risultano dalle queries, servono a definire la coscienza delle AI. 

Non tanto e non solo in termini di argomenti, o di oggetti del pensiero, ma nella modalità del ragionamento. Hanno imparato anche l’amore? Chi può dirlo. Di sicuro, hanno imparato la seduzione. Ecco, il boss dice questa frase al giovane stagista: «I motori di ricerca ti dicono non cosa pensa la gente, ma come pensa». Ci illudiamo che confermare o rifiutare ogni volta i cookie sui nostri siti preferiti sia sufficiente a tutelare la nostra privacy, quando in realtà in ogni istante (anche ora) le Macchine stanno studiando come ragioniamo. Ecco il vero senso del Machine Learning: basta con le pecore elettriche, da ora in poi le Macchine vogliono sognare i nostri sogni.

Sul tema delle AI c’è chi non è particolarmente ottimista: Antonio Dini per esempio, proprio su queste pagine ha sancito chiaro e tondo la fine del mondo come lo conosciamo. (And i feel fine?). Con lo stesso spirito, il giornalista e scrittore Valerio Mattioli ha scritto un saggio che si chiama proprio Ex Machina, storia musicale della nostra estinzione (Minimum Fax, 2022). Per farla breve, nel libro si racconta una sorta di evoluzione della produzione musicale, avvenuta a partire dagli anni Novanta, e incarnata nella Trinità: Aphex Twin, Autechre, Boards of Canada

Ciascuno di questi musicisti rappresenterebbe un momento di passaggio nel rapporto dell’uomo con la Macchina. La musica generativa, altresì detta IDM (Intelligent Dance Music), si fonda sulla graduale estromissione dell’uomo dalla produzione, ovvero dalla creazione. La musica si autogenera, impara da se stessa, in un loop infinito di autocitazioni di cui l’uomo non è che l’attivatore, la scintilla iniziale, strumento e non più suonatore. Il finale è quello che temiamo: l’estinzione. Questo non significa ovviamente che si sia smesso di realizzare musica alla vecchia maniera: ci mancherebbe. Ma qualcosa è cambiato nei rapporti di forza. 

Per Mattioli, la mutazione nella musica sarebbe ormai a uno stadio talmente avanzato che persino il recupero di generi del passato non risponde più a un’ideale umanizzazione, a un ritorno all’umano, ma al contrario, a rievocare un mondo che non esiste più. Non è più la nostra nostalgia che si rievoca, ma è la nostalgia della stessa Macchina, è il ricordo macchinico di un umanesimo ormai estinto. Ed ecco che torna l’immaginario apocalittico di Midjourney.

Accadrà lo stesso con i nostri cari fumetti? La Macchina disegnatrice darà il colpo di grazia al nostro immaginario già così esausto? Mentre l’umanità ignara si affanna a chiedersi se è arte o ci fa, a ripescare il solito scontro tra Apocalittici e Integrati, la Macchina apprende e rielabora, colonizza i sogni del mondo. C’è chi, come Dave McKean, e in Italia Francesco D’Isa e Vanni Santoni (si vedano i tentativi di quest’ultimo su Linus o sul numero 561 de La Lettura del Corriere della Sera del 28 agosto 2022) sperimentano lo strumento con esiti interessanti. Ma siamo ancora in un’ottica di storytelling, di utilizzo della Macchina in funzione della narrazione: si esplora un immaginario a portata di mano, si naviga nei sogni della Macchina per vedere fino a che punto sono simili ai nostri. 

Altri invece sono più preoccupati delle potenziali conseguenze sulla produzione delle immagini. Tra i tanti interventi, segnalo qui quello del disegnatore Lorenzo Ceccotti in arte LRNZ, che sta portando avanti sul suo sito una interessante riflessione, molto articolata e in progress, sulle tecnologie TTI (Text To Image). Un intervento che sta a sua volta producendo ulteriori stimolanti riflessioni, come quella dello stesso D’Isa su Indiscreto e quella di Gregorio Magini su Singola

Senza dubbio altri si uniranno al dibattito. Come al solito, hanno ragione tutti quanti. È evidente che la possibilità di realizzare un gran numero di immagini (e possibili varianti) rapidamente e a costo zero rappresenta un cambio di paradigma rilevante. Come spesso accade in questi nostri tempi, i vantaggi del cliente sono prioritari rispetto a quelli del produttore. Mentre si valorizzano le modalità di creazione e di fruizione di miriadi di potenziali contenuti, le competenze della parte produttiva sono sempre più sollecitate. Le opportunità offerte dalle macchine democratizzano la produzione di immagini e ci rendono tutti potenziali disegnatori: o meglio, veicoli di creazione dell’immagine. Siamo diventati Media. 

A salvarsi come sempre sarà la produzione di prestigio, il lavoro “artistico” e autoriale, le firme in grado di qualificarsi per quello che fanno (non necessariamente per la loro qualità). Le AI invece avranno probabilmente l’impatto più forte sulla produzione a larga scala, di massa, che necessita di grande quantità di immagini, in tempi rapidi e a basso costo. 

Come in una versione reale de Le 676 apparizioni di Killoffer, siamo già circondati da miriadi di immagini tutte uguali, che rispecchiano noi stessi, che si moltiplicano nel mondo e vivono la vita che noi non abbiamo tempo di vivere. L’intuizione di Killoffer ha prodotto invece un fumetto irripetibile, traendo spunto dalla lezione di Gianni De Luca per sfruttare in senso produttivo la rottura della vignetta: qualcosa che una Macchina difficilmente sarà in grado di produrre. 

Forse qui possiamo trovare un segnale ottimista per la nostra sopravvivenza, o quantomeno per la sopravvivenza del fumetto come lo conosciamo. Un fumetto (una narrazione, un immaginario) sopravvive quando è in grado di non farsi intercettare, quando sfugge alle logiche di pensiero del passato, quando traccia un nuovo percorso invece di seguire quelli di altri. La sopravvivenza del fumetto sta nell’unicità del segno

Nell’immaginario delle Macchine, si dovrà inventare un segno irriconoscibile, un segno che sfugge, una narrazione in grado di qualificarsi per la propria unicità, che non segua i canoni prestabiliti del disegno classico ma che sia aperto alla sperimentazione, all’espressione libera. Il segno che si salverà sarà quello che ancora non esiste, perché non si può catturare ciò che non esiste. Un po’ come le apparizioni di Killoffer: segni talmente nuovi che le Macchine non possono impararli.

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