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Mondi POPAnimazioneIl "Pinocchio" di Robert Zemeckis, un remake troppo fedele all'originale

Il “Pinocchio” di Robert Zemeckis, un remake troppo fedele all’originale

pinocchio zemeckis

Era una sfida rischiosa, quella raccolta da Robert Zemeckis, di realizzare la versione live-action di Pinocchio, il classico disneyano del 1940, l’ultimo di una serie di remake dal vivo che Disney sta portando avanti con risultati altalenanti. La politica è piuttosto chiara: rifare i classici animati senza apportare troppe modifiche (se non in linea con la politica inclusiva degli ultimi anni). La strada, quindi, è già segnata. E talvolta premia anche: nel 2019, Il re leone ha incassato più di un miliardo di dollari al botteghino.

Pinocchio – disponibile da alcuni giorni su Disney+ – si offriva a più rischi. Perché è tratto da un romanzo di fine Ottocento. Perché è una storia che è già stata trasposta diverse volte in differenti forme, passando per autori diversi che hanno cercato di attraversare l’opera con la loro autorialità: Comencini, Benigni, Garrone. Robert Zemeckis, che qui è anche co-sceneggiatore, ha provato a far combaciare i pezzi senza scontentare nessuno. Ma il tentativo è apparso più funambolico del previsto, e il risultato ne è la testimonianza.

È importante sottolineare come questo film sia innanzitutto un remake del classico del 1940 e non una rielaborazione ex-novo. La possibilità di Robert Zemeckis di incidere sul materiale narrativo era limitata. Qualcosa è stato fatto: l’ambientazione italiana, diverse parole, frasi e personaggi dette in lingua italiana (in onore a Carlo Collodi), più varie differenze rispetto al film animato, come la balena che inghiotte Geppetto e Pinocchio (che qui si trasforma in un mostro marino), il modo in cui alcuni personaggi incidono sullo sviluppo narrativo (si veda la Fata turchina) o addirittura il finale. Poche, limitate cose: in generale, il Pinocchio zemeckisiano è un’opera visivamente legata all’immaginario del film animato.

Le difficoltà derivano anche e soprattutto dall’esigenza di adattare il testo a un contesto storico e sociale diverso. Un conto è leggere Collodi alla fine del Diciannovesimo secolo, un conto è guardare il film animato nel 1940, un conto ancora è rivederlo ora, nel 2022, dove i grandi temi e dibattiti sono radicalmente mutati. 

Zemeckis aveva fatto un ottimo lavoro con il suo film precedente, Le streghe, anch’esso un adattamento di un racconto di Roald Dahl, in cui aveva innestato elementi socio-politici che si legavano al contesto afroamericano, molto d’attualità nel momento in cui uscì, nel quale i vari movimenti del Black Lives Matter sfilavano per le strade degli Stati Uniti in favore di maggiori diritti.

Ma questo scostamento, questo lavoro sotto traccia, purtroppo, in Pinocchio non è avvenuto. Parte di questo fallimento deriva sicuramente dal fatto che la storia ha già tanti temi importanti che riguardano la crescita e l’accettazione, il passaggio all’età adulta e l’elaborazione del lutto. Nel suo film, Zemeckis ha cercato di sottolineare proprio il discorso legato alla accettazione del diverso

Perché Pinocchio non deve avere l’urgenza di trasformarsi in bambino: piuttosto si devono verificare le condizioni affinché la società lo accetti per come è e, naturalmente, è lui a dover fare un percorso che lo renda migliore in quanto essere vivente e cosciente, con una serie di valori che deve imparare e fare propri attraverso l’esperienza. La sequenza, diversa dalla versione animata, del primo giorno di scuola di Pinocchio è eloquente: il burattino viene cacciato perché non è umano. 

Purtroppo, però, queste sfumature non ribaltano un film che è vittima innanzitutto di se stesso e dell’ingombro derivante dall’immaginario che ha generato nei decenni. L’ingerenza della produzione è evidente e chiaramente limitante. Nel suo Pinocchio, Zemeckis ha potuto incidere poco in fase di scrittura, e questo ha avuto conseguenze importanti sul risultato finale di un’opera che, comunque, non è tutta da buttare. Perché, comunque, Zemeckis è sempre Zemeckis. 

È un regista tra i più importanti della sua generazione, che ha inciso sull’immaginario collettivo con opere come Ritorno al futuro, Chi ha incastrato Roger Rabbit, Forrest Gump, ma anche con film di spessore e forte desiderio sperimentale come Contact. E quindi, in assenza di una sceneggiatura all’altezza e di una libertà autoriale/creativa adeguata, ha potuto incidere solo nella regia. Zemeckis si è divertito a creare situazioni in cui la macchina da presa si muove sinuosamente fra i corpi, gli oggetti, la scenografia, diventando l’occhio assoluto che tutto guarda e riprende in una forma libera e virtuosa. Ma, inevitabilmente, fine a se stessa e non funzionale alla storia o a ciò che sta rappresentando. 

Ci sono tracce di Zemeckis sparse qua e là. Come in Ritorno al futuro o in Cast Away, anche qui il tempo pare avere un ruolo cruciale. Nella bottega di Geppetto ci sono decine di orologi a cucù (con cui il regista si è divertito a inserire citazioni e autocitazioni). Tutto il film inoltre avviene nel corso di un giorno e di una notte. Tanto che, alla fine, quando Pinocchio racconta a Geppetto le avventure che ha vissuto, lui si stupisce esclamando: «Tutto questo in una notte?!». Questa urgenza autoriale nel provare a dilatare, contrarre, manipolare la scansione del tempo come se fosse una variabile narrativa era già presente in tante altre opere di Zemeckis, tra cui, soprattutto, Polar Express.

Nel remake live-action di Pinocchio diretto da Robert Zemeckis, non si salvano neanche le prestazioni attoriali: Tom Hanks nei panni di Geppetto lavora per esagerazione, mentre gli altri sono troppo celati dall’intervento della CGI (il grillo parlante che ha la voce di Joseph Gordon-Levitt, la volpe con la voce di Keegan-Michael Key). 

Peccato, insomma. Per vedere una nuova, inedita, personale versione del Pinocchio di Carlo Collodi toccherà probabilmente aspettare il film di Guillermo del Toro per Netflix, realizzato con l’animazione in stop motion e dai toni decisamente più dark.

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