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Graphic NovelGli spazi liminali di George Wylesol in "2120"

Gli spazi liminali di George Wylesol in “2120”

2120 George Wylesol coconino

Nel maggio 2019, in uno degli infiniti subreddit di 4Chan, venne pubblicata una foto apparentemente innocua. Si trattava di un ufficio deserto, inquadrato leggermente di sbieco e illuminato da luci al neon. Le pareti erano gialline, ricoperte da un’anonima carta da parati. Non c’erano tracce della presenza umana, presente o passata. L’ingresso alla stanza sembrava dare su di un corridoio, mentre all’interno si intravedevano ulteriori due uscite (di cui una fiocamente illuminata, dando l’impressione che dietro l’angolo ci potesse essere chissà che cosa).

L’impressione era quella di un labirinto disumanizzante, ma a differenza di tanti dungeon dove ci siamo persi durante gli anni di videogiochi, fumetti e RPG, questo aveva dalla sua un aspetto di banalità che lo rendeva mille volte più efficace di qualsiasi segreta nascosta in mondi fantasy ipertrofici ed eccessivi. Ognuno vedeva in quella stanza vuota un frangente della propria vita, un luogo dove ha l’impressione di essere già stato e dove rischiava di perdersi per sempre. 

The Backrooms”, così furono subito ribattezzati quegli ambienti così sottilmente inquietanti, ebbero un successo immediato. Eravamo nel puro eerie di Mark Fisher, per la precisione in presenza di un “fallimento di presenza” («Niente dove dovrebbe esserci qualcosa»), e l’impatto di quell’immagine portò all’attenzione di tutti l’idea di spazio liminale.

Secondo Karl Emil Koch, «gli spazi liminali sono un tipo di spazio emotivo che trasmette un senso di nostalgia, smarrimento e incertezza. Spesso mancano di attività e scopo o perché giacciono inutilizzati o perché sono spazi di transizione – di divenire invece di essere». Si tratta di concetti complessi e sfumati, che molto hanno a che fare con l’idea di hauntology, ma che grazie alle Backrooms hanno raggiunto un pubblico vasto e trasversale. Dopo che la foto fu postata, non passò molto prima che su r/CreepyPasta comparisse il primo creepypasta dedicato al nuovo incubo prodotto da Internet. Da lì in avanti sempre più persone si sono riconosciute nella fotografia, vedendoci aspetti del proprio passato. All’inizio del 2022 il giovanissimo videomaker Kane Pixel ha pubblicato sul proprio canale YouTube un cortometraggio in stile found footage, sancendo in maniera definitiva il successo pop delle Backrooms e dell’ossessione per gli spazi liminali.

2120 George Wylesol

Nell’ambito del fumetto dubito che qualcuno abbia esplorato in maniera più approfondita e puntuale questi concetti che 2120 di George Wylesol. Più che un libro tradizionale, una via di mezzo tra una storia a bivi e la trasposizione su carta di un vecchio videogame esplorativo – minimale come solo i vari 3D Monster Maze o Wayout sapevano essere – dove ci troviamo a vagare proprio in uno di questi spazi liminali. Nel fumetto, disegnato quasi interamente in prima persona, impersoniamo Wade Duffy, un tecnico informatico di mezza età. Veniamo chiamati per un intervento in un anonimo ufficio deserto dove, per via di una distrazione, finiamo per chiuderci la porta alle spalle e vi rimaniamo chiusi dentro. 

Addentrandoci nell’edificio alla ricerca di un’uscita alternativa, o di qualcuno a cui chiedere informazioni, ci rendiamo conto che la costruzione è un enorme dedalo di corridoi e stanze desolate dove possiamo raccogliere indizi per trovare una via di fuga. Più ci addentriamo nelle viscere del prefabbricato più le cose si fanno inquietanti e sgradevoli, e il concetto stesso di realtà finisce per avvilupparsi su stesso in maniera claustrofobica. Il tempo e lo spazio smettono di avere il significato che conosciamo per entrare definitivamente nel territorio del sogno.

La struttura del libro è labirintica, e non è escluso che si debba ricominciare più volte la lettura per trovare il bandolo della matassa e venirne a capo. I finali sono multipli e spesso le opzioni che ci si presentano su di una singola pagina sono così numerose da risultare volutamente opprimenti. Il risultato è un incubo strisciante, fatto di ambienti banali e vagamente familiari, in grado di richiamare alla memoria stralci di un passato che forse non abbiamo mai davvero vissuto. Un vecchio ufficio dove da piccoli abbiamo aspettato i nostri genitori, la motorizzazione dove abbiamo dato l’esame di guida, un istituto scolastico semideserto dove abbiamo seguito qualche corso estivo. Come nelle foto di spazi liminali raccolte su Reddit anche in questo caso si gioca con sensazioni in grado di infilarsi sottopelle, catturando stati di sospensione dove la realtà pare essersi messi in pausa.

Un grosso supermercato vicino a casa mia ha un’intera facciata fatta di enormi vetrate. Passando per la vicina superstrada dopo l’orario di chiusura è possibile indugiare sulle corsie deserte eppure illuminate a giorno, con tutti gli articoli in vendita bene allineati sugli scaffali. È una visione quasi romeriana, da ordinata fine del mondo. Da un momento all’altro quegli spazi potrebbero riempirsi di clienti rumorosi, oppure tutti potrebbero essere scomparsi per sempre per chissà quale motivo. Orrore e banalità quotidiana si sovrappongono, proprio come succede negli ambienti di 2120.

2120

Non sappiamo se cedere e farci prendere dal panico oppure rimanere attaccati a un barlume di ragionevolezza. Così, anche nelle fasi più avanzate del libro, ogni volta che compare un cavo o una presa di qualsiasi genere, il protagonista Wade Duffy ritorna al problema informatico per cui era stato convocato e inizia a tracciare ipotesi su quale possa essere il malfunzionamento e come risolverlo. Come se non volesse rendersi conto del brutto guaio in cui è finito. Wade Duffy è sospeso, perde la lucidità e non è più in grado di capire in che spazio si stia muovendo. Più avanziamo nell’esplorazione più l’assurdo diventa tangibile. Da suggerito – strane, vecchie foto abbandonate, visioni fugaci e indefinibili – diventa esplicito e totalmente onirico. Ogni pretesa di concretezza viene dimenticata, e il nostro tecnico si trova a prendere scelte che agiscono direttamente sulla consistenza del piano della realtà.

Un altro aspetto che rende 2120 un libro unico è la gestione dello spazio tridimensionale. A differenza di narrazioni a bivi tradizionali, dove ci si limita a scegliere una pagina in base alla decisione che faremo intraprendere al protagonista, qui abbiamo la possibilità di esplorare gli ambienti in maniera del tutto immersiva. Nelle stanze più grandi frecce ai limiti delle tavole indicano a che pagina andare per voltare il nostro sguardo verso destra o sinistra. Inanellando il giusto numero di scelte è possibile ruotare completamente, e in più occasioni abbiamo la possibilità di vedere la stessa stanza da un punto di vista opposto rispetto al nostro arrivo.

Così facendo non ci muoviamo più in setting quasi teatrali, dove vediamo solo quello che il disegnatore reputa utile alla costruzione di una buona vignetta e che dovrebbe risultare utile alla comprensione del flusso narrativo, ma veniamo calati in un spazio che ha un volume. Si passa da una concezione cinematografica – l’attore apre una porta in un’inquadratura ed entra in una stanza in quella seguente, senza che le due siano per forza conseguenti nella realtà – a una concezione da videogioco, dove la successione degli ambienti ha una continuità logica e ben definita. 

Viene quasi da pensare che in fase preventiva George Wylesol abbia perlomeno provato a disegnare un’enorme mappa del suo fumetto, prima che questo prendesse strade tutte sue, impossibili da pianificare in fase di progettazione. Oppure potremmo provare a farlo direttamente noi, tanto per capire quanto quell’ufficio sterminato abbia effettivamente un senso nello spazio e a che punto perda del tutto di coerenza. Ritorna alla memoria la finestra impossibile dell’Overlook Hotel di Shining – citata quasi alla lettera – esempio magistrale di utilizzo dell’ambiente come portatore di un orrore impalpabile e straniante.

2120 George Wylesol

Il tratto dell’illustratore di Philadelphia è scarno, allo stesso tempo sghembo e geometrico. Nonostante a un primo approccio paia propenso a un minimalismo piuttosto spinto, un’analisi più attenta denota la grande importanza data a texture e agli aspetti più materici. Per riuscire a ottenere un aspetto così sospeso tra diversi poli l’autore ha sviluppato una tecnica piuttosto inusuale: il disegno è stato realizzato totalmente in vettoriale in Illustrator (direttamente con il touchpad, senza l’utilizzo di tavolette grafiche), poi è stato stampato – immagino non con macchine di ultima generazione vista la presenza di difetti tipici di quelle esauste o richiedenti manutenzione – e scannerizzato per essere rifinito in Photoshop. 

Abbiamo così una sospensione tra un lavoro completamente in digitale e la presenza di un oggetto fisico indispensabile per ottenere l’effetto finale desiderato. Anche in questo caso si potrebbe pensare a uno stato liminale, sospeso tra due poli agli antipodi. Il fatto che sia così indefinibile – non si riesce neppure a capire se le vignette siano vuote oppure pienissime – rende ogni tavola di 2120 inquietante come solo le cose a cui non riusciamo a dare una forma sanno essere

Con simili trovate George Wylesol è riuscito a rendere quello che sostanzialmente è un enorme libro game – in cui, va detto, nelle sue quasi 500 pagine funzionano molto bene anche le meccaniche prettamente ludiche – in un‘esperienza viscerale, lontana dall’idea di divertissement fine a se stesso e ben radicata in una concezione di orrore allineata a questi strani anni che stiamo attraversando. Con ogni probabilità uno degli horror più intensi ed efficaci che incontrerete quest’anno. Sempre che riusciate a raccogliere tutti gli indizi.

2120
di George Wylesol
traduzione di Valerio Stivè
Coconino Press, settembre 2022
brossurato, 496 pp., colore
34,00 € (acquista online)

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