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FocusProfiliLa versione di Altan

La versione di Altan

altan vignette

Altan è come se avesse mille facce, a seconda della persona a cui si chiede. Per tantissimi ha i pois della Pimpa, per altri il ghigno del fumettista che distruggeva santi e navigatori italiani sulle pagine di Linus, per altri ancora è il disilluso ma affilatissimo vignettista politico che ha commentato la società sulle pagine di quotidiani e riviste. Qualche irriducibile potrebbe arrivare perfino a Kamillo Kromo, il camaleonte rosso che non riesce a cambiare colore.

Di Altan colpisce innanzitutto la miscela di carattere serafico e capacità di creare fumetti che, come una scure, calano implacabili e non fanno prigionieri. Pochi segni e poche parole, ma una visione unica. L’amico e collega Sergio Staino raccontò di una volta in cui il figlio lo informò che voleva dei rubinetti in oro massiccio. Staino rispose con una lunga sequela di improperi e insulti, non riuscendo a contenere l’ira per una richiesta così scema. Altan, messo di fronte alla stessa situazione dalla figlia, disse solo: «Piccoli, spero».

Nato a Treviso nel 1942, nel pieno della Seconda guerra mondiale, Francesco Tullio-Altan è figlio di Carlo Tullio-Altan, uno dei più stimati antropologi, primo in Italia a vedersi assegnata, nel 1961, la cattedra di antropologia culturale. Ma durante l’infanzia del figlio, l’accademico fu una figura occupata dagli studi, sfuggevole e, quando presente, severa e poco empatica. Altan ha raccontato che «quando a scuola magari prendevo un 9, non ricevevo lodi, ma una tiepida approvazione per ciò che era ritenuto un risultato normale».

altan uomini ma straordinari

E anche se era lasciato libero di disegnare, attività che monopolizzava le sue attenzioni, il futuro autore della Pimpa si vedeva sistematicamente vietata la lettura dei fumetti. «Su questo mio padre era intransigente perché riteneva i fumetti diseducativi. Potevo solo leggerli d’estate, durante le vacanze. Avevo due amici un po’ più vecchi di me, figli del farmacista, cui davo i miei risparmi per comprare i fumetti, che poi nascondevo in giardino, dove andavo a leggerli di nascosto.»

I due ebbero modo di recuperare il rapporto quando Altan era adolescente, instaurando una relazione fatta di scambi culturali e viaggi – di cui uno passato da solo, mentre il padre era con l’influenza in albergo, a mangiare oeufs mayonnaise (un uovo quasi sodo tagliato in due e ricoperto di una salsa alla maionese) nei bistrot di Parigi. Nel 1950 i genitori si separarono e Altan si trasferì a Bologna con la madre Nora. A 12 anni pubblicò i suoi primi lavori: la preside della sua scuola, Lia Fenici Piazza, era anche autrice di antologie di letteratura per la scuola media e chiese ad Altan di disegnare un paio di illustrazioni a corredo delle poesie di Leopardi.

Mentre non era impegnato a copiare Cézanne e Monet, a Bologna Altan sviluppò una passione per il cinema che gli sarebbe poi tornata utile nel suo mestiere di osservatore sociale. Non erano tanto le pellicole a interessargli, quanto i commenti della sala. «Una battuta dietro l’altra, era un film nel film, specie nelle pellicole giapponesi o svedesi, dove non capitava niente e bastava una parola per scatenare commenti e ilarità.»

altan colombo

Su suggerimento del padre, che non vedeva di buon occhio la carriera da fumettista, si iscrisse all’università ma cambiò spesso facoltà (prima ingegneria a Bologna, poi architettura a Firenze, poi ancora architettura ma a Venezia, che mollò nel 1967 dopo aver superato tre quarti degli esami). In questa navigazione esistenziale a vista, Altan trovò la sua stella polare durante il primo anno di università, quando scoprì le strisce di Jules Feiffer. «Avevo visto i fumetti di Feiffer che mi avevano molto colpito e mi ero detto “provo anch’io a fare una cosa del genere”» spiegava Altan a Fumettologica. «Mi piaceva molto il fatto che i suoi personaggi non parlassero granché fra di loro, ma parlassero soprattutto con chi li stava leggendo, che poi è quello che mi è rimasto addosso, la comunicazione verso il lettore.» A differenza di Feiffer, autore dalla mano irrequieta, Altan sviluppò un segno ancorato a terra, morbido, rotondo ma altrettanto essenziale.

Con un gruppo di amici che si erano dati al cinema, iniziò a lavorare a film e documentari. «Del cinema non sapevo nulla» ha raccontato nel 2014. «Facevo di tutto. Autore, fonico, scenografo. Il primo incarico, atroce, fu da sdoganatore delle attrezzature che arrivavano dall’Italia.» Nel 1970, partito per il Brasile per collaborare alla produzione di un film, Tatu bola, conobbe la costumista Mara Chaves, che divenne sua moglie. L’anno dopo nacque la figlia Francesca, detta Kika. «A quell’epoca le K mi piacevano tantissimo, anche perché in Brasile il “ch” suona diverso, si legge “sc”.»

Il ruolo di padre era carico di preoccupazioni e nuove responsabilità che non sapeva come affrontare: Altan viveva a Rio de Janeiro con il permesso di soggiorno che non gli consentiva di lavorare: «Io lavoravo lo stesso e i soldi li ritirava Mara. Però la situazione era piuttosto dura».

Disegnava per la rivista O Pasquim, l’unica critica nei confronti della dittatura militare che governava il paese, ma «pagavano una miseria», e così arrotondava realizzando cartoncini di auguri per compleanni o matrimoni. Fu in questo frangente che un suo amico art director gli suggerì di andare a Milano a trovare l’argentino Marcelo Ravoni, agente di Quino e futuro fondatore dell’agenzia Quipos. Durante un viaggio per rinnovare il visto, Ravoni lo portò alla corte di Linus, diretto all’epoca da Oreste Del Buono, inaugurando una collaborazione che segnò il vero inizio della carriera da fumettista. In realtà, Ravoni lo aveva introdotto anche alla redazione dell’Espresso, che gli aveva commissionato vignette politiche, ma «non era una rubrica mia, non c’era visibilità e riconoscibilità. Io inviavo e loro le ficcavano lì, in mezzo al giornale. Invece Del Buono mi ha detto “adesso stai qua”».

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Altan con la figlia, negli anni Settanta. Nel numero di “Linus” in cui debuttò come autore, Fulvia Serra scrisse che «Altan è molto bello, quasi un “Gesù hippy”».

Su Linus debuttò Trino, un dio che riceve da un altro dio l’incarico di creare l’universo e che divenne un mezzo con cui commentare le vicende del paese. La collaborazione con Linus costrinse Altan e famiglia a tornare in Italia perché «ho bisogno di sentire l’odore delle cose. Sentire l’atmosfera, quella che non leggi sui giornali o senti alla radio, ma che trovi nelle persone che incontri. Da lontano hai un rapporto freddo con le cose italiane, finisce che non te ne importa niente e non hai neanche lo stimolo a occupartene».

Su Linus videro la luce anche i suoi primi fumetti lunghi, che dissacravano alcuni tra i santini della cultura italiana (Colombo, San Francesco, Casanova). Lo scontro con il mezzo fumettistico gli creò qualche problema iniziale, perché gli riusciva difficile disegnare un personaggio mantenendolo uguale in tutte le vignette: «Credo che derivi anche da questo l’esagerazione di certi tratti fisici: se uno ha un naso fatto a fulmine, anche se lo disegni un po’ diverso, lo identifichi comunque». Propri i nasi, il tratto fisico da cui parte di solito a disegnare, diventarono un suo marchio di fabbrica: a riccio, porcini, mostruosi, minuti, invisibili, uno specchio dell’animo dei personaggi. 

Negli anni Settanta realizzò Ada, le avventure di Ada Frowz, alla ricerca nella giungla africana di un cugino arricchitosi grazie a un’eredità, in stile romanzo d’appendice, Cuori pazzi, una commedia di ambientazione svedese che prende in giro le atmosfere di Ingmar Bergman, e poi i distopici Friz Melone, Zago Oliva e Zorro Bolero, storie di personaggi in fuga di polizie segrete nell’Italia dell’allora futuro prossimo. In questi fumetti, Altan sviluppò un linguaggio debitore di quelle serate nei cinema di Bologna: mentre la storia scorre, gonfia di disegno, nelle didascalie a fondo vignetta un narratore sarcastico commenta le azioni dei personaggi, tra ambienti ricchi di dettagli spesso putridi (mosche che volano dalle ascelle di marinai, regine immerse nella lordura), in quella che Oreste Del Buono descrisse come «l’irresistibile decomposizione della materia, la disumanità come spettacolo».

pimpa

Nel 1975 vide la luce anche la sua creazione più popolare, la Pimpa. Creata per scherzo, disegnando per la figlia, la cagnolina a pois attirò l’attenzione di Ravoni che la propose al Corriere dei Piccoli, dando il via a un piccolo franchise fatto di fumetti, riviste, libri e cartoni animati. Il nome, Altan lo rubò a un’amica, la moglie del pittore Giorgio Poppi che «da piccola quando parlava di se stessa diceva “la bambina fa questo, la bimba fa quest’altro”, e storpiando le parole, diceva “pimpa”. Noi quel suo soprannome gliel’abbiamo rubato e devo dire che non è stata contentissima di essere diventata una cagnolina».

Nella Pimpa non ci sono scontri o conflitti, al massimo qualche malumore. Pimpa scopre il mondo, parla con gli oggetti, gli animali, i pianeti. Armando la supervisiona, la lascia libera di fare ma mai sola, offre un senso di protezione che abbraccia anche il lettore. Per quanto distante dai fumetti o dalla produzione vignettistica, anche nella Pimpa rimane invariato il modo in cui Altan guarda il mondo. C’è una storia intitolata Pimpa al centro della Terra in cui la protagonista viaggia fino al centro del pianeta. Invece di nuclei magmatici o creature alla Jules Verne, trova un tavolino con sopra una caramella al limone (che poi mangia, e un custode la sostituisce con un’altra al gusto di fragola). Ecco, per quanto complesso sia il sistema che descrive, al centro delle cose per Altan c’è sempre una piccola cosa, tenace e piacevolmente aspra, che sia una battuta, un fumetto o una vignetta.

Nell’era dell’Internet la semplicità dei suoi gesti e delle sue avventure (La Pimpa va a Milano, Pimpa e Tito fanno le gare) è diventata base per stravolgimenti memetici (La Pimpa silenzia WhatsApp, La Pimpa non segnala il tampone positivo e parte per le vacanze), che mantengono la matrice altaniana nell’individuare debolezze e vizi italiani.

Nello stesso anno della Pimpa, Altan creò Cipputi, l’operaio metalmeccanico rassegnato allo sfruttamento da parte dei padroni, il cui nome derivava, per assonanza, da La ballata del Cerutti, brano del 1960 di Giorgio Gaber in cui si raccontano le disavventure di un ventenne scansafatiche. A Cipputi si affiancarono poi i personaggi delle vignette che realizzò per Panorama, L’Espresso, Tango, La Stampa e Cuore. Nel 2001, Ezio Mauro gli offrì uno spazio in prima pagina su Repubblica, proposta che aveva già avanzato Eugenio Scalfari nel 1982 senza mai concretizzarla.

altan vignette cipputi

Il bersaglio delle sue battute non sono mai i politici, che infatti non vengono quasi mai citati o disegnati, con qualche eccezione illustre, come Craxi e Silvio “Cavalier Banana” Berlusconi. Le vittime di Altan sono i cittadini, non i responsabili delle nefandezze ma i loro elettori, l’operaio, il pensionato depresso, la moglie amareggiata o il marito apatico (Luisa e Ugo), i bambini con le loro domande. È a loro, all’uomo e alla donna qualunque, che Altan affida le sue battute acri, che però sono stilettate contro loro (e noi) stessi. Come ha detto Michele Serra, «Altan non fa satira politica. Fa satira antropologica». «I personaggi di Altan sono. Non fanno» scrive Roberto Moisio in Altan – Autobiografia non autorizzata. «E descrivono un carattere, un pensiero, che magari ci ronzava nella testa, inespresso, e che lui con una battuta o un tratto di penna semplicemente ci mostra.»

Nelle vignette di Altan, come nei fumetti, ciò che colpisce è l’economia del segno e della parola. Le frasi sono lapidarie, gli scambi repentine e si sente il gusto di giocare con la lingua e dire il più possibile con il meno possibile. «Mi vengono in mente idee che non condivido», «mi domando chi sia il mandante di tutte le cazzate che faccio» e tante altre considerazioni fulminanti rappresentano quel “realismo pessimista” di cui parlò Edmondo Berselli e che permette ad Altan di scrutare nel profondo l’animo del paese. «Mi dico che i paesi hanno gli umoristi che si meritano» scrisse una volta Georges Wolinski, fumettista di Charlie Hebdo. «Ci vuole un popolo molto intelligente e molto fine per generare un Altan. Un popolo pieno di un’antica saggezza.»

Dopo decenni di lavoro passati a sfornare opere che hanno, come scritto da Stefano Benni, «la ferocia di Beckett, la grazia di Keaton, l’imprevedibilità di Totò», Altan ha capito che, più che smuovere le coscienze, i suoi fumetti servono, paradossalmente, a consolare: «La cosa che ho potuto capire durante diversi incontri sul mio lavoro è che queste vignette sono uno strumento per non sentirsi troppo soli, isolati, che ci sono altri che la pensano come te. Per questo motivo magari le attaccano sul frigo; perché non è tanto un’azione “contro” i sistemi, i poteri, ma è un modo per essere insieme in quel comune sentire. È una sorta di compagnia che conforta.»

Con più di cinquant’anni di carriera alle spalle, Altan ha consolidato uno stile ricco di ingegno, sagacia e intelligenza, producendo opere che il tempo ha reso, come i rubinetti di Staino, d’oro massiccio.

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