RubricheMarginiDahmer: come raccontare il mostro

Dahmer: come raccontare il mostro

"Margini", una rubrica di Fumettologica a cura di Tonio Troiani. Ogni 15 giorni riflessioni sulla narrazione annotate tra le parti bianche di ogni pagina scritta e disegnata.

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Accompagnata da polemiche, critiche e riflessioni talvolta più che centrate, è arrivata su Netflix la nuova serie di Ryan Murphy (Glee, American Horror Story, American Crime Story) incentrata su Jeffrey Dahmer, il cannibale di Milwaukee, che si macchiò di efferati delitti nell’arco di quasi due decenni.

Ad oggi, Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer è la produzione in lingua inglese più vista sulla piattaforma a una settimana dall’uscita, seconda per visualizzazioni solo a Stranger Things. Complice la notevole interpretazione di Evan Peters, famoso per parti più leggere, ma soprattutto una calibrata campagna promozionale, Dahmer ha subito calamitato l’attenzione e la morbosa curiosità dello spettatore generalista, che sbrodola dinanzi alla spettacolarizzazione della sofferenza.

Una produzione più cerebrale e dal ritmo più posato come Mindhunter non aveva certo riscosso la stessa attenzione. Dopo due stagioni, la serie tv che seguiva le vicende del dipartimento di scienze comportamentali dell’FBI non è stata confermata, nonostante il buon riscontro critico e di pubblico. Il tema del serial killer era centrale anche nella serie di David Fincher, eppure qualcosa non è scattato nel pubblico. Cameron Britton prestava il suo volto all’efferato Edmund Kemper, il serial killer delle studentesse, con convinzione, ma la sua interpretazione non è riuscita a fare una breccia come quella di Evan Peters.

Di certo ha giocato molto la prospettiva da cui viene guardato il tutto. In Mindhunter, lo sguardo era sempre esterno, teso a spiegare in maniera oggettiva il modus operandi dei serial killer, a trovare elementi ricorsivi che potessero profilare i soggetti “devianti” e descrivere la loro soggettività dal punto di vista di una psicologia predittiva, in maniera da spiegarne la realtà, rendendo il tutto comprensibile.

In Dahmer, invece, il tutto oscilla continuamente tra il punto di vista allucinato e straniante di Jeffrey Dahmer e l’attonito sguardo dei co-protagonisti, sospesi tra l’incredulità e stupore. La scrittura non è una semplice cronaca dei fatti e soprattutto la dimensione “crime” è quasi inesistente: Jeffrey Dahmer è un emarginato, un solitario, che si muove tra l’ombra e la luce quasi invisibile. La sua marginalità è la sua più grande fortuna, insieme a una consapevole strategia di caccia. Dahmer non è ritratto con un’apatia scientifica: intorno a lui viene creata una rete che sembra quasi giustificare le sue azioni, suggerire una serie di colpe che ne forniscono una parziale soluzione, a volte incurante del dolore delle vittime. Dahmer è una serie fatta di luce e ombre, che cerca di solleticare lo spettatore con una sapiente estetizzazione del male e nel contempo cerca di salvarsi il culo ponendo in essere un’analisi sociologica della periferia americana dei tardi anni Ottanta.

Nel quarto episodio, intitolato La scatola del bravo ragazzo e diretto da Jennifer Lynch, vediamo un Dahmer sempre più isolato, ormai adulto che cerca il suo posto nel mondo. Dopo il congedo dall’esercito a causa dell’abuso di alcool, il padre Lionel lo spedisce dalla nonna, dove Jeff cerca di rigare dritto, ma senza riuscirci. Dopo un’accusa di atti osceni in luogo pubblico, Jeff troverà un lavoro come flebotomo presso il Milwaukee Blood Plasma Center, dove ruberà delle fiale di sangue. Lynch ritrae Dahmer davanti allo specchio, mentre guarda se stesso e poi la fiala di sangue che ha sottratto. L’immagine che vediamo riflessa è potente, ma inevitabilmente amplifica il dato biografico. Lo stesso Dahmer nelle sue memorie ricorda il disgusto di quell’esperienza. Il sapore del sangue sicuramente non lo interessava, al contrario del controllo e degli impulsi sessuali compulsivi e incontrollabili. 

La serie di Ryan Murphy è piena di momenti come questo, dove la figura del cannibale di Milwaukee è ammantata di una luce luciferina, di qualcosa di diabolico che serve a mandare avanti lo spettacolo, a trasformare la curiosità morbosa in qualcosa di più complesso che si muove tra la deferenza verso l’alterità di Dahmer e l’interesse scientifico, come se un prodotto seriale pensato per il piccolo schermo possa rendere giustizia al mistero rappresentato da Jeffrey Dahmer. 

La sua vita è un segno senza significato, una caotica spirale di violenza la cui forza è così assoluta da diventare catartica per lo spettatore, ma solo per chi ne consuma la storia al riparo, davanti a uno schermo. Persino il timido tentativo di redenzione narrato negli episodi finali sembra voler chiudere frettolosamente una vicenda che, in realtà, continua a interrogarci. Con la consapevolezza che quello che stiamo vedendo non può essere un saggio sul male, ma un’indagine superficiale sulla solitudine dell’essere umano. A partire dal titolo (Mostro) e dall’indicizzazione – questione su cui ci sono state non poche polemiche, vista la rimozione del tag LGBTQ+ – la serie dedicata a Jeffrey Dahmer pone diverse questioni. Soprattutto perché sia presentato come un “horror”.

Senza addentrarci in discussioni estenuanti sulla natura dell’orrore, possiamo certo affermare che nell’ambito del racconto gotico l’orrore trova casa come un sentimento ben preciso e circostanziato, spesso associato alla presenza di un qualcosa che “disturba” l’ordine naturale delle cose. Questa interferenza ha una natura doppia: da una parte è sicuramente un’anomalia nelle nostre costruzioni di senso, si pone come qualcosa che non quadra, che rompe il rassicurante ordine del mondo, mentre dall’altra crea una sentimento di disgusto, di alterazione delle nostre funzioni, sfociando in un sentimento di nausea. Il mostro – intenso come lo straordinario e l’anormale – è lo strumento retorico più semplice per suscitare l’orrore, soprattutto quando è legato alla repulsione.

In un’epoca non solo post-industriale e ormai prossima alla dematerializzazione digitale e a una liquidità elettrica e iper-moderna, il sentimento dell’orrore affonda le sue radici in qualcosa di atavico e ormai lontano, che sentiamo la necessità di richiamare. Come spettatori, fruitori e, soprattutto, consumatori abbiamo quasi un bisogno di provare emozioni “sgradevoli”

Il mostro – inteso come qualcosa di miracoloso – lambisce il territorio del divino, eppure nel caso di Dahmer le categorie a cui abbiamo appena accennato saltano. Pur partendo dal presupposto che quello che stiamo guardando è comunque una drammatizzazione che risponde a logiche mediali ben specifiche, la base è la mera cronaca, tra l’altro molto vicina e fittamente documentata e studiata. Eppure, questa stessa drammatizzazione è un filtro utile per poter approcciare l’anomalia Dahmer. 

La sensazione di disgusto, di nausea, di impurità diventa quasi paralizzante se approcciata direttamente. Jeffrey Dahmer non è una creazione di fantasia, un essere finzionale che sorge dal nostro inconscio, è uno di noi, ma è contemporaneamente l’altro da noi. È quel segno senza significato che fa implodere convinzioni secolari sui limiti dell’umano, è un Stavrogin alla seconda ma senza alcun orizzonte valoriale: Dahmer non vuole dimostrare nulla, asseconda un appetito e un desiderio compulsivo. Vi è quasi una mania demoniaca, ma senza alcuna fenomenologia psicotica (il serial killer ha sempre negato di sentire voci).

Intorno, a questa figura tragica e incomprensibile, Murphy crea un fittizia analisi sociale del Winsconsin dei tardi anni Ottanta, una società edonista ma al contempo decadente, dove Dahmer si muove consapevolmente adescando le sue vittime in una suburbia marcescente e sfuggente, fatta di club notturni, hotel a ore e scantinati dove nessun occhio indiscreto ha accesso. Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer è un’opera che usa il suo protagonista principale per parlare di altro: della marginalità della comunità gay, dell’indifferenza delle istituzioni alle richieste della comunità afroamericane, alla situazione ancora più grave in cui versavano gli emigrati laotiani e ispanici eccetera. Ma Murphy sceglie di non narrare le vere origini del mostro. Ignora totalmente, se non a livello di mera cronaca, gli anni passati a Bath in Ohio a un tiro di scoppio da Akron, per esempio.

Su questo periodo fa luce il graphic novel di Derf Backderf My friend Dahmer. Le origini del mostro di Milwaukee, pubblicato in Italia da Gribaudo nel 2017 e ormai fuori catalogo (ha ispirato anche un film). L’opera di Backderf è un fitto e documentato memoriale degli anni liceali di Jeffrey Dahmer attraverso gli occhi dello stesso autore che lo frequentò direttamente. Con uno stile che riecheggia la lezione di John Thompson, Willy Mendes, Justin Green, Kim Deitch e Alison Bechdel, Backderf traccia una narrazione lineare e puntuale ricostruendo l’origine del mostro, portando avanti una tesi precisa che non assolve Dahmer dai suoi delitti, ma sottolinea con forza le responsabilità degli adulti e delle istituzioni

Le turbe di Dahmer trovano un terreno fertile nell’indifferenza dei genitori, troppo presi dalle loro vite e dai loro problemi, in una scuola che doveva far i conti con un’esplosione demografica incontrollabile e non più all’altezza delle sfide che presentava una modernità in costante accelerazione, in un ambiente marcio e impoverito dalla crisi economica con un Akron che si svuotava a vista d’occhio.

In questo contesto è più semplice capire la nascita di Dahmer, la cui mostruosità non è che una conseguenza di una solitudine cronica, di un richiesta continua di attenzioni che si tramuta in una spersonalizzazione estrema, in una disumanizzazione di sé e dell’altro, ridotto a preda, appetito e carne. Dahmer è rappresentato come un automa, dalla statura imponente per la sua età, quasi intrappolato in un corpo non suo, dinoccolato e impacciato. Le braccia rigide a penzoloni, l’andatura claudicante e l’espressione assente di un volto ormai anonimo. My friend Dahmer ripercorre senza troppi fronzoli e senza cercare una drammatizzazione e una spiegazione semplice e unilaterale, la caduta nel baratro di una mente fragile e prostrata da anni di sofferenza e solitudine. 

Se la creatura portata sul piccolo schermo da Evan Peters provoca disgusto e terrore a causa dell’efferatezza delle sue azioni, che creano sentimenti complessi ma al contempo ovattati, il Dahmer di Backderf è più concreto e, sorprendentemente, vicino. Diventa, nella sua anomalia, il vicino di banco, l’emarginato, il loser. Nella sua meccanica indifferenza al mondo, anima una parte di noi stessi sempre troppo vicina ai margini, sempre in bilico tra coloro che pensano e coloro che fanno il male: un male senza volto fatto per desiderio, senza alcun significato recondito, se non una fame insaziabile e un vuoto assordante che è il nostro essere qui e ora senza alcun motivo apparente.

Leggi tutti gli articoli della rubrica “Margini”

Leggi anche: Fare animazione in stop-motion come Dio comanda

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