
Ci sono due cose che bisogna tenere a mente quando si legge qualcosa scritto da William Gibson. La prima è che contano più le atmosfere e i personaggi, il worldbuilding e la costruzione psicologica, che non la trama. E l’altra è che siamo in uno stub. Adesso che è sbarcata su Amazon Prime Video, dopo anni di attesa, la serie tv basata sul primo romanzo della trilogia dello “stub”, Gibson, il padre nobile del cyberpunk – che ha costruito la seconda metà della sua carriera per affrancarsi dall’invenzione di genere che ha caratterizzato la prima – sta facendo conoscere nuovamente il proprio talento di costruttore di mondi nei quali saremo presto condannati a vivere.
E in questo viene aiutato moltissimo dagli autori della serie tv: The Peripheral di Amazon Prime Video (a cui in Italia viene prefisso Inverso per non fare confusione, visto che è il titolo italiano del libro su cui è basata). Andiamo in ordine: il libro è uscito nel 2014 (in Italia nel 2016 e poi su Urania), e gli ha poi fatto seguito Agency nel 2020, in attesa di un terzo capitolo conclusivo. Nel frattempo è uscito il fumetto Archangel, di cui ho parlato qui.
Nel mio piccolo, ho riassunto un po’ di concetti in questi appunti privati, ma il senso è semplice: William Gibson ha inventato l’idea dello stub, ovvero un ramo che diviene secco a seguito di un viaggio nel tempo quantistico, eliminando così qualsiasi possibile paradosso. E gli autori che hanno lavorato per gli Amazon Studios hanno fatto loro questa idea trasformandola in un delizioso (per adesso) prodotto di intrattenimento.
La promessa della trama è semplice: in un angolino rurale dell’America più becera, quella dei pickup, dei pacchetti da sei birre e dei bianchi ignoranti con le camicie a quadrettoni, vivono Flynne (Chloe Grace Moretz) e il fratello Burton Fisher (Jack Reynor). Lui è un reduce di una guerra del prossimo futuro con innesti biologici che sono andati in tilt e sbarca il lunario partecipando a giochi online dove in realtà è la sorella a giocare al posto suo perché decisamente più tosta (nel digitale). La realtà virtuale, con una Londra del futuro più remoto possibile davvero fantascientifica, si scopre all’improvviso essere una forma di viaggio nel tempo, e lei si trova a interagire con persone del futuro dagli obiettivi piuttosto oscuri, mentre una fazione avversaria paga dei mercenari nel passato per far fuori la famiglia Fisher. Da qui, segue l’inferno. Letteralmente.
Fatta la premessa, e chiarito anche che dire che il primo libro parte piano è un eufemismo (ma quando parte diventa una meraviglia e i suoi personaggi, a partire dall’umanissima Eunice, un’intelligenza artificiale, non li dimenticherete più), il lavoro fatto dagli Amazon Studios è notevole. Una scintilla vitale in un palinsesto di Prime Video altrimenti piatto e scontato.
Da un lato il paesino di hillibilly capaci di cose incredibili, dall’altra una Londra post-apocalittica e decisamente visionaria che presenta l’evoluzione del mondo come non potremo mai vederlo con i nostri occhi. Nel mezzo, la teoria affascinante che il viaggio nel tempo sia possibile tramite un flusso di particelle quantistiche che trasportano informazioni e permettono a una persona di “abitare” un avatar meccanico estremamente realistico a distanza di quasi un secolo. Cioè The Peripheral, la “periferica”, secondo il gustoso titolo in inglese grazie al quale Gibson gioca con un termine desueto ma al tempo stesso estremamente attuale. Al riguardo, ricordiamoci sempre che Gibson è e sarà sempre uno scrittore da leggere in lingua originale, vista la sua capacità di plasmare neologismi o dare vita a concetti nuovi con parole laterali al mainstream linguistico.
La serie è stata pensata da Lisa Joy e Jonathan Nolan (che qui ricordiamo, tra le varie cose, essenzialmente per essere i creatori di Westworld) scritta da Scott B. Smith (già candidato all’Oscar), che fa anche da showrunner, e diretta da Vincenzo Natali, regista canadese di origini americane e, più alla lontana, italiane, che ha diretto episodi sia di Westworld che di American Gods e varie altre serie. Sulla produzione e sul cast non ho da dire niente se non che si tratta di scelte tutte azzeccate. La serie è composta di otto episodi, di cui due appena trasmessi e i prossimi che usciranno ogni venerdì.
La storia parte piano, si concentra tanto sul ruolo di Chloe Grace Moretz e ha di certo dei momenti di “squallore” degni delle scelte stilistiche di American Gods, per far vedere come funziona la provincia vera anche nel prossimo futuro. C’è poi il tema dei veterani, a cui forse in Italia siamo meno avvezzi ma che negli Usa risuona profondamente. Viene così mostrato tutto il disagio di chi ha combattuto e poi si ritrova a vivere in una roulotte con quattro soldi (e un po’ di fucili mitragliatori appesi al muro).
L’America contemporanea e l’incrocio tra il presente costruito negli ultimi venti anni con le sue possibili evoluzioni nei prossimi quindici-venti anni (e poi il disastro a cui farà seguito il futuro del 2099) è un tema forte a cui Joy e Nolan ricorrono sistematicamente in tutta la loro produzione. Ma se Westworld, originariamente scritto da Michael Crichton e già tradotto per il grande schermo (ricordate il classico film con Yul Brinner degli anni Settanta?) è stato abbondantemente rivisto e riscritto per esaltare i temi della contemporaneità (l’intelligenza artificiale, il concetto di vita e di coscienza, l’idea di alienazione) portando i dubbi morali a un altro livello rispetto a quelli immaginati negli anni Settanta, con The Peripheral i due ci vanno molto più piano, perché lasciano che sia l’impatto emotivo di com’è stata concepita la storia da William Gibson a occupare lo spazio centrale.
Insomma, con Inverso – The Peripheral Joy e Nolan si muovono con maggiore cautela, puntando a dare una cadenza più misurata, meno roboante della recitazione visiva e verbale tipica di Westworld al lavoro di Gibson. Questo dà a The Peripheral un tono più vivo e fresco, reso ancora più intrigante dalle dinamiche tra i diversi personaggi, che cominciano fin da subito a essere decisamente complesse.
Chi ha letto il libro, però, non deve farsi ingannare. È comunque una rivisitazione più che un adattamento fedele. La cornice è la stessa, i personaggi all’incirca gli stessi, così come anche molte scene e alcuni snodi di trama. Tuttavia, la storia televisiva ha tinte più nette e fa evaporare quelle aree grigie che rendevano più ambigui alcuni personaggi (mai completamente buoni o cattivi) e soprattutto più espliciti i cattivi. E così deve essere, perché un adattamento per un medium diverso porta con sé – come nelle traduzioni da una lingua all’altra – un’idea inevitabile e insuperabile di “tradimento”. Joy e Nolan lo sanno e fanno di questo tradimento necessario una virtù, con risultati deliziosi.
Insomma, per essere un “assaggio”, i primi due episodi mi sono piaciuti molto. Tanto che smetterò di guardare la serie almeno per qualche settimana così da potermela gustare con calma un sabato sera, come si deve. Mi piace Gibson, mi piacciono Joy e Nolan, mi piace molto l’idea che ci si possa trovare in uno stub, persi in un ramo secco del continuum spazio-temporale. Come altro spiegare quel che sta succedendo, sennò, tra una pandemia e una guerra europea, per tacer di tutto il resto?
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Antonio Dini, giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. La sua newsletter si intitola: Mostly Weekly.
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