
In molti conoscono Phil Tippett principalmente per il meme circa il suo incarico come “Dinosaur Supervisor” sul set del primo Jurassic Park. Uno screenshot tratto dai titoli di testa del film di Spielberg dove il tecnico degli effetti speciali viene appunto definito come “supervisore dei dinosauri” e a cui qualche utente anonimo ha aggiunto la scritta «Dov’eri mentre la gente moriva? Avevi un solo incarico, Phil. Un solo incarico» (in originale: «Where were you while people were dying? You had one job, Phil. One job»). Classico umorismo da Internet, dove idiozia e genialità spesso finiscono per sovrapporsi.
In ogni caso Phil Tippett non ha mai apprezzato troppo lo scherzo e solo nel 2015 è riuscito, immagino con uno sforzo immane, a scherzarci sopra. Forse perché per lui i dinosauri sono una cosa estremamente seria, ancora di più se nati dalle sue sapienti mani di animatore. Tutto parte dalla fascinazione di un bambino di Berkeley per Ray Harryhausen e finisce – dopo una di quelle lunghe cavalcate che inevitabilmente portano all’olimpo delle leggende del cinema – con la consacrazione come uno dei più grandi artisti della stop-motion di sempre. Fino a Mad God, lungometraggio da lui scritto e diretto dove il giocattolaio in grado di dare vita agli holochess del Millenium Falcon e a tante altre creature inscindibili dalla nostra infanzia è finalmente riuscito a dare voce alla sua visione del mondo. Diciamo che le cose non sono andate esattamente come ci si aspettava.
Nella seconda metà degli anni Settanta, dopo gli studi in arte e a soli 24 anni, Phil Tippett fu assunto da George Lucas per occuparsi degli effetti speciali di Star Wars. Negli stessi mesi attirò l’attenzione di un altro regista che avrebbe dato forma al cinema fantastico degli anni Ottanta, Joe Dante, per cui creò gli spietati piraña nell’omonimo lungometraggio prodotto da Roger Corman. L’anno successivo, il 1978, lavorò a due progetti che avrebbero contribuito a plasmare l’immaginario di almeno tre generazioni: il Tauntaun del pianeta ghiacciato di Hoth e,soprattutto il camminatore imperiale AT-AT, entrambi per L’impero colpisce ancora. Il momento in cui sullo schermo compaiono i quadropodi corazzati non solo contribuì a rendere il film un momento fondante del blockbuster fantascientifico moderno, ma anche ad aprire nuovi orizzonti di immaginazione per un’enorme platea che mai si sarebbe immaginata di poter vedere qualcosa del genere su schermo.
Da lì a poco sarebbero arrivate le prime nomination agli Oscar, precisamente con Il ritorno dello Jedi – Pateesa il Rancor è frutto dell’ingegno di Tippet – e Il drago del lago di fuoco. Per questi due film sviluppò una nuova variante dell’animazione in stop-motion: la go-motion. L’idea era quella di eliminare il tipico effetto scattoso del passo uno e avvicinarsi maggiormente alla fluidità del girato tradizionale. Ci riuscì introducendo una leggera sfocatura sui vari frame, in modo da simulare una sorta di scia di movimento, e portò gli effetti speciali analogici al livello successivo. Nello stesso anno fondò il Tippett Studio, laboratorio creativo con cui, dal suo garage, produsse e diresse cortometraggi in stop-motion sui dinosauri e che sarebbe finito, nel giro di trent’anni, per avere centinaia di dipendenti e vincere premi in ogni ambito della comunicazione visiva, dal cinema alla pubblicità.
Nel 1986 conobbe colui che sarebbe poi diventato il sodale di una vita, Craig Hayes. Grazie all’apporto di quest’ultimo, Phil Tippett diede vita a un altro tassello fondamentale del nostro immaginario cinematografico: ED-209, il tremendo automa poliziotto del Robocop di Paul Verhoeven. Lo stesso regista olandese, conquistato dalla sua arte e dalla sua sapienza, lo volle in seguito per la produzione degli effetti speciali del kolossal Starship Troopers. Prima però Tippett tornò a lavorare ancora con Lucas su Howard e il destino del mondo e Willow. Al di là dell’insuccesso delle due pellicole risultava evidente come il mondo del passo uno fosse ormai al tramonto. Il lungometraggio tratto dal racconto di Robert A. Heinlein sancì il definitivo passaggio dell’animatore alla computer grafica e si dimostrò un lavoro così impegnativo da farlo accreditare, per volontà dello stesso Verhoeven, come co-regista. Da quel momento il suo lavoro cambiò per sempre, e Tippett si allontanò sempre di più dalla sua amata stop-motion per concentrarsi maggiormente sulle consulenze e sul coordinamento di grossi team specializzati in effettistica digitale.
Nel 2004 arrivò il mediocre esordio alla regia con il dimenticabile Starship Troopers 2, minuscolo B-movie da cestone girato su commissione. Sembrava che la sua carriera dietro la macchina da presa fosse finita ancora prima di cominciare, ma l’ambizioso progetto Mad God – in gestazione da tempo – non è mai riuscito a essere del tutto accantonato. La leggenda vuole che il film abbia una lavorazione lunga trent’anni, partita sul set di Robocop 2: «Girai i primi minuti molti anni fa su pellicola 35mm, ma poi il progetto si dimostrò troppo grande e persi la mia troupe» raccontava il regista al The Guardian.
Il lavoro sul lungometraggio si è trascinato per diverse decadi, principalmente nei week end: «Nei fine settimana raccoglievo da quindici a venti persone in giro. Non tutti avevano il talento o l’abilità necessarie, ma durante la settimana avrei studiato i vari processi. A loro ho fatto fare tutto il lavoro pesante». Per infinite stagioni il tempo di Tippett si è diviso in due: dal lunedì al venerdì lavorava su titoli che detestava – l’ultimo film di cui è orgoglioso è Starship Troopers – mentre nelle ore restanti si dedicava al suo personale incubo in stop-motion.
Mad God lo ha portato sull’orlo dell’esaurimento nervoso e lo ha costretto a una settimana di ricovero in un reparto psichiatrico, allontanando ogni possibilità di finanziamento se non attraverso il crowdfunding. «Odiavo lavorarci» ammette il regista, aggiungendo che il processo produttivo era come «inseguire il tuo sogno e poi scoprire di essere incatenato a una roccia, con un uccello che ti mangia il fegato». Il riferimento a Prometeo non è casuale, vista la densità di richiami biblici e mitologici che caratterizzeranno il lavoro.
Il risultato di una lavorazione tanto tribolata è un film nichilista, più vicino al flusso di coscienza che all’idea di scrittura tradizionale. Per quanto ci si sforzi di trovarvi significato e coerenza a tutti i costi, si tratta comunque di uno sforzo protratto per un lasso di tempo assurdo, ed è evidente che la costruzione della sceneggiatura sia avvenuta per accumulo mano a mano che gli anni passavano. Come se le scene fossero studiate e preparate via via che il lungometraggio prendeva forma, senza basarsi su un canovaccio a monte e un rigido lavoro di pre-produzione.
«Se Mad God riguarda qualcosa, riguarda il processo e la sua progressione… è questa la spina dorsale. È molto più orientato verso la pittura e la sound-art rispetto a un tipico film di Hollywood» raccontava il regista a Paste Magazine. L’unico aspetto ricorrente è il continuo richiamo a un ticchettio ansiogeno, il design del protagonista muto e la concreta possibilità che tutto sia a un passo dalla distruzione. Come spiegava Tippett a Empire, «La forma finale di Mad God non è il film in sé, ma il ricordo dopo averlo visto. Come quel momento subito dopo esserti svegliato da un sogno in cui ti blocchi ed esplori frammenti della tua mente selvaggia prima che svaniscano di nuovo nell’ombra. Questo è il momento. Mad God è solo un modo per portarti lì».
Così ci ritroviamo a vagare in un mondo che pare una versione deforme e purulenta dell’inferno di Dante. Il film si apre con una capsula calata dall’alto in un abisso di follia e orrore, ma ben presto scopriamo che si tratta solo del primo livello di una serie concentrica di mondi in preda alla devastazione. Nell’infinito pessimismo dell’autore di Mad God si può sempre scendere più in basso. In un simile contesto vaghiamo per mondi devastati da un sistema industriale da incubo, dove enormi macchinari riducono in poltiglia anonimi zombi lavoratori. Siamo dalle parti di una versione rigonfia di liquidi corporei di quanto raccontato dalla pluripremiata opera Inside della software house Playdead. Come in quelle lande alienanti anche qui l’apparato industriale pare soverchiare – soprattutto nelle folli dimensioni – l’essere umano, senza però mai chiarire a cosa serva davvero.
A questo scenario da incubo si aggiungono poi squarci di guerra, mostruosità deformi di ogni tipo, ospedali simili a mattatoi, sacrifici di infanti, pile di escrementi e una generale assenza di senso che è puro nichilismo privo di ogni scintilla di speranza. «Non porterei i miei figli a vederlo» confessa di aver consigliato il regista a una famiglia presente alla proiezione del film a Locarno, al suo debutto mondiale. «Si sono alzati per andarsene pochi minuti dopo. La mamma mi ha detto che avevo ragione. E io ho detto: “E diventa anche peggio”.» E, in effetti, lo fa.
Al di là della valutazione di contenuti così ermetici, quello che risulta evidente è l’assoluta maestria di Phil Tippett nel gestire l’animazione. Le sporadiche sezioni del film girate in live-action paiono tratte da qualche anonimo horror sperimentale pieno di pretese artsy, tra filtri colorati, frame rate alterato e riprese sghembe. Una roba al limite del dilettantesco che tradisce l’incapacità dell’autore di lavorare con un linguaggio che non gli appartiene. Ironicamente l’unico attore riconoscibile è un altro regista, Alex Cox, quello di Sid & Nancy e del piccolo cult Repo Man – Il recuperatore. Conoscendo il carattere non proprio affabile di Tippett, dubito si sia sbilanciato nel dare qualche consiglio al collega, limitandosi ai versetti e ai grugniti previsti dal copione ( mi ero scordato di dire che in Mad God non è pronunciata una singola parola comprensibile, tanto per renderlo più digeribile).
Quando invece si torna nell’ambito che è più congeniale a Phil Tippett, ovvero quando non c’è traccia di esseri umani nell’inquadratura, la situazione cambia drasticamente. Quello che ci troviamo davanti agli occhi è un mondo da incubo, filtrato attraverso la sensibilità di chi ha costituito un pezzo importante del cinema fantastico degli anni Ottanta, messo su schermo come nessun altro riuscirebbe a fare. Come scrisse una volta il critico Roger Ebert, «la computer grafica appare come reale ma sembra falsa, mentre l’animazione in stop-motion appare come falsa ma sembra reale».
Ripensate al Labyrinth di Jim Henson – con i suoi fondali fintissimi eppure misteriosamente dotati di volume, le sue creature così assurde ma tangibili, le inquadrature strette per nascondere i set in miniatura, i giochi prospettici, l’uncanny valley sempre dietro l’angolo – e immaginatevelo in una chiave grottesca e grondante lerciume. A stridere ulteriormente tra la carica naïf degli effetti speciali analogici e l’orrore davanti ai nostri occhi contribuisce anche la strepitosa colonna sonora di Dan Wool – probabilmente coinvolto da Alex Cox, vista la loro lunghissima collaborazione – straniante e fuori luogo nelle sue melodie subito comprensibili.
Nel 2022 Mad God è finalmente riuscito a rendersi disponibile al pubblico – attraverso la piattaforma Shudder, nonostante Phil Tippett detesti lo streaming – raccogliendo ovunque recensioni entusiastiche. Un risultato tutt’altro che scontato vista la sua natura respingente e carica di una negatività davvero difficile da sopportare. Bombardati come siamo da prodotti studiati a tavolino per lenire il pubblico o provocarlo in maniera del tutto innocua, l’arrivo di un concentrato di rabbia e rancore maturato per oltre tre decadi riesce ad avere un effetto quasi liberatorio.
Non si tratta di un film per tutti. Fisico per definizione – stiamo pur sempre parlando di effettistica analogica – e fin troppo ricco di stimoli e stratificazioni che spesso finiscono per collassare su se stesse. Penso per esempio al cartello iniziale preso dal Levitico, al riferimento alla Torre di Babele, allo spezzone audio preso dal Satyricon di Fellini e a tutto il convulso (e vagamente didascalico) finale, sospeso tra The Tree of Life e 2001: Odissea nello spazio.
Alla fine dei conti quello che rimane è il testamento artistico – dubito che Tippett si rimetta a lavorare su di un progetto simile – di un visionario che ha contribuito a rendere il cinema quello che è oggi, pur odiandolo con tutto il cuore. Quando, intervistato da Wired circa la sua partecipazione a Star Wars: Il risveglio della Forza, il giornalista gli chiese un suggerimento per il regista e supervisore J.J. Abrams, Phil Tippett non ebbe dubbi e rispose «più sangue». Alla luce di Mad God, difficile aspettarsi una risposta differente.
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