
Era il 2012 quando Zerocalcare realizzò il suo capolavoro. Non so se valga come complimento o critica, ma già al suo secondo tentativo di fumetto lungo Zerocalcare, al secolo Michele Rech, riuscì nell’impresa di realizzare la sua opera migliore, Un polpo alla gola. Il graphic novel resta tutt’oggi imbattuto per la forza dirompente di romanzo di formazione, tra una visione dell’infanzia come generatrice di traumi, ansie, dolci patimenti e riferimenti pop.
Un polpo alla gola racconta di Zerocalcare, Secco e Sarah, tre bambini che un giorno del 1990 trovano, in un bosco adiacente alla loro scuola elementare, un teschio umano. L’episodio, in apparenza irrilevante, si riverbera sul futuro dei tre – e su quello del loro gruppo di amici – prima nell’adolescenza e poi nell’età adulta. Raccontate in questi tre momenti, le loro esistenze vanno avanti tra precariato, incertezze emotive, ricordi, sensi di colpa e incapacità di metabolizzare il passato, finché la morte della loro insegnante non li costringe a fare i conti con tutto l’irrisolto delle loro vite.
Un polpo alla gola sarebbe dovuto essere il primo fumetto di Zerocalcare pubblicato da Bao Publishing. L’autore veniva dal successo di La profezia dell’armadillo – il suo primo libro, autoprodotto – e la casa editrice preferì innanzitutto dare una nuova forma a quel libro, anche per preparare al meglio il pubblico, facendo così diventare Un polpo alla gola il secondo progetto edito.
Inizialmente, Zerocalcare aveva pensato di realizzare Un polpo alla gola a puntate da pubblicare sul suo blog e spezzare la monotonia delle storie autoconclusive. Poi però decise di seguire una pubblicazione tradizionale, anche perché, sul blog, una storia a puntate già l’aveva provata a fare, ma era rimasto fermo al secondo capitolo.

«L’autoproduzione si basa sull’autodisciplina» spiegò, in riferimento ai lavori realizzati prima de La profezia dell’Armadillo. «Se non hai nessuno che ti obbliga a fare le cose, ti devi gestire da solo. E infatti io ho sempre disegnato autoproduzioni brevi o, nel caso della Profezia dell’Armadillo, storie brevi messe accanto. Quando Bao mi ha proposto il libro ho pensato di sfruttare l’occasione per realizzare un libro lungo, di quasi duecento pagine. L’ho fatto con la consapevolezza che era una cosa che non avevo mai fatto e che non sapevo neanche bene come fare, era un esperimento. Ho pensato che se anche andava male era un problema della casa editrice.»
Come per La profezia della Armadillo, Zerocalcare creò la storia riconfigurando episodi autobiografici dell’infanzia e dell’adolescenza: dinamiche e relazioni tra lui e i suoi amici, ma anche fatti che nel libro diventano eventi cruciali e costruiscono il mistero della trama. Uno è il ritrovamento di un cranio quando Rech era bambino: «Con i miei amici avevamo trovato un teschio nel bosco. Eravamo convinti che fosse a causa di un lupo, probabilmente era un teschio di cane, non un teschio umano. Pensavamo che un lupo avesse divorato un bambino».
L’altro è un incidente che nella vita di Rech si era risolto senza conseguenze, mentre nel libro diventa il motore della vicenda. Da piccolo, il fumettista aveva spinto un ragazzino («per una storia del cestino della merenda rotto») che, cadendo su una pietra, si era incrinato una vertebra. «Poi lui per fortuna non ebbe nessun postumo, ma io vissi con questa terribile cosa che avevo rischiato di mandare sulla sedia a rotelle un mio compagno di classe.»

Questi spunti autobiografici, Rech pensò inizialmente di incastonarli in una trama che prendeva le mosse dal romanzo del 2006 Il giardiniere notturno di George Pelecanos, giallista e sceneggiatore televisivo (The Wire, The Deuce – La via del porno). Nel libro si racconta l’ossessione ventennale di un investigatore convinto dell’identità di un serial killer. L’uomo fa di tutto per incastrare il sospettato, salvo poi scoprire che l’omicida era un’altra persona. Il romanzo si chiude con un colpo scena: il serial killer era proprio il sospettato originale, che ora è a piede libero. «Una scena da gelare il sangue» l’ha descritta Zerocalcare. «Quando un ho iniziato Un polpo alla gola, avevo in testa quel tipo di scena là, quel tipo di storia là, poi mi sono reso conto che io di raccontare di serial killer non sono capace. Mi veniva molto più facile una storia sui sensi di colpa, di cose orribili, ma nostre, mie.»
In quella fase, Zerocalcare non aveva ancora un metodo: non programmava, non pianificava, non realizzava storyboard. Disegnava e basta. Cominciò a lavorare a ridosso della scadenza, sacrificando il tempo da dedicare al blog, che restò orfano della cadenza settimanale («era già estate e la consegna era alla fine di settembre, mancavano due mesi ed ero ancora alla prima metà del libro, era un periodo terribile»), senza avere una sceneggiatura, soltanto con quegli elementi spuri che aveva raccolto. «Disegnavo a braccio» spiega nel libro a lui dedicato della collana Lezione di Fumetto. «Lavoravo a blocchi, per esempio 7 pagine, un mini episodio, e facevo quelle 7 pagine, ma non sapevo dopo quelle 7 come sarebbe continuata la storia, che in un giallo non è molto sensato.»
Mentre l’autore lavorava al libro, il suo nome iniziò ad affermarsi, con punte di popolarità inedite per un fumettista. Nei primi mesi del 2012, Trenitaja, racconto fantozziano sulle disavventure dei pendolari, si diffuse inesorabile da un account all’altro, registrando 64mila accessi in un giorno. Un polpo alla gola ora non era più “un problema della casa editrice”, ma di Zerocalcare. «Ho capito che se facevo un libro di merda era un problema anche mio» ammise il fumettista. «Nel libro, si vede proprio lo scalino del momento in cui mi sono accorto che dovevo fare una cosa decente.»

Un polpo alla gola è un romanzo di formazione che parla di rimorso, senso di colpa, conseguenze delle tue azioni, responsabilità, traumi infantili e lo fa con il linguaggio che stava consolidando Zerocalcare: la nostalgia, i riferimenti alla cultura pop, l’estrema emotività accompagnata da chi va là interiori, cioè prese di coscienza che portano a commentare le proprie svenevolezze, in una miscela che stava a metà strada tra Titeuf e Stand by Me – Ricordo di un’estate. Partendo da luoghi personali, creò un percorso di comunanza con i lettori, parlando a quante più persone possibili senza essere generico. È un equilibrio delicato che qui gli riuscì meglio che in altre opere, magari sbilanciate da eccessivi personalismi, una mano troppo enfatica (Macerie prime) o annacquamenti narrativamente mainstream (Dodici).
Tutta l’esperienza dell’infanzia è ritratta con estrema acutezza, intrecciando un discorso generazionale con citazioni a Cavalieri dello Zodiaco, Kurt Cobain, Dart Fener e altri feticci degli anni Ottanta e Novanta. Solo in alcune storie brevi – penso a Quando muore uno famoso – la combinazione di elementi, diventata la cifra stilistica dell’autore, è stata utilizzata con esiti migliori. Zerocalcare ci spiega che le cose che accadono in quel periodo sono cose che non si capiscono, sono cose non dette che non vengono più spiegate, e tutti i loro effetti si ripercuotono sul resto della vita come le onde di maremoto. A chiarire questo nucleo tematico ci pensa la frase pronunciata dalla dispotica professoressa Arbizzati, «nessuno guarisce dalla propria infanzia», il passaggio che più rimane impresso nella mente dei lettori, insieme al colpo di scena finale.
Come ne La profezia dell’Armadillo, Zerocalcare mantenne l’impianto di racconto generazionale che si fa trasversale, trovando però anche costruzioni, simboli e figure uniche per rappresentare sentimenti e situazioni comuni, una su tutte il polpo che dà il titolo al libro. Rispetto al suo primo lavoro, però, Zerocalcare affinò, limò, strinse le viti, pulì le sbavature. Creò un racconto compatto eppure lasco, che si snoda attraverso episodi brevi ma non perde mai la rotta.

In Un polpo alla gola i bambini parlano la lingua degli adulti, sono rappresentazioni nostalgiche e al tempo stesso protagonisti di dinamiche tutte bambinesche, oltre che emanazioni dirette dell’autore. Proprio per questa immedesimazione totalizzante, Zerocalcare incontrò dei problemi a sceneggiare le parti femminili. Se scavare nel personaggio di Zerocalcare – dando uno spaccato anche interiore del personaggio – gli riusciva abbastanza semplice, fare altrettanto con il personaggio di Sarah lo fu meno.
«Raccontare i miei pensieri è facile, ma quelli di una ragazza?» si domandava Rech nel libro Il potere sovversivo della carta. «Non ho idea di che cosa pensassero le ragazze quando ero adolescente. Rischiavo di ritrarla secondo gli stereotipi con cui percepivo le ragazze all’epoca e quindi ho deciso di evitare, eliminando in corso d’opera tutte quelle situazioni in cui dovessero essere esplicitati i pensieri dei personaggi che non fossero il mio.»
Nel mettere in scena un racconto semi-autobiografico – quindi con basi autentiche ma suscettibile a interventi di finzione – l’autore si preoccupava di «non mettere in bocca a qualcuno delle parole che non gli appartengono, soprattutto quando racconto una storia che ha delle pretese di autenticità». Era, spiega Rech, «un’attitudine che ho ereditato dalla politica», quella di un continuo calibrarsi rispetto agli altri, cercando di non svilire o rappresentare in maniera scorretta le esperienze altrui. Sarebbe successa la stessa cosa anni più tardi, quando nella serie Strappare lungo i bordi Zerocalcare avrebbe scritto una scenetta che confronta i bagni pubblici dei maschi con quelli femminili basandosi su esperienze di donne e ragazze raccolte dall’autore.

Un polpo alla gola si fa notare anche per l’assenza vistosa dell’Armadillo, presenza fissa in ogni produzione di Zerocalcare (tranne Dodici), qui ridotta a cameo. I battibecchi tra lui e Zero, le prese in giro e il loro lessico familiare avrebbero stonato in una storie dalle atmosfere noir. «Il motivo vero», confessò l’autore, «era che ho pensato che se ‘sto libro usciva ‘na merda non volevo trascinare l’Armadillo nel fango con me».
Quando uscì, il 18 ottobre 2012, Un polpo alla gola era già alla terza ristampa, dopo che le prime due erano andate esaurite in prevendita. Le tirature non avevano tenuto conto del gran numero di lettori che erano arrivati nei mesi trascorsi dall’uscita de La profezia dell’Armadillo. Il successo di Zerocalcare era ormai conclamato, eppure ancora agli inizi di quello che sarebbe diventato un fenomeno come non se ne vedeva da decenni. Il blog e La profezia dell’Armadillo lo avevano fatto scoprire al pubblico, Un polpo alla gola confermò la bontà del suo talento. Certo, le vere aperture, i bagni di folla e i blasoni – come la candidatura al Premio Strega – sarebbero arrivati dopo, ma nulla ha mai più superato l’equilibrio tra freschezza, commedia, scavo psicologico e dramma de Un polpo alla gola. Escludendo i progetti di reportage, rimane il capolavoro di Zerocalcare.
«Faccio molte più presentazioni e molte meno ripetizioni» diceva nel gennaio 2013 a Repubblica, durante un’intervista per promuovere il libro. «Ma non so ancora se quello dei fumetti diventerà un mestiere». All’epoca, anche se Zerocalcare non lo sapeva, qualcuno aveva già risposto per lui.
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