“Aladdin” è stato un film Disney diverso dal solito

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Agli inizi degli anni Novanta, correva voce, tra i corridoi degli studi d’animazione Disney, che l’allora film in produzione, Aladdin, fosse diverso dal solito. Se ne rese conto una dipendente quando, una mattina, trascinò un collega alla parete degli storyboard. «Vieni a vedere», esclamò, «sono impazziti! Il Genio si trasforma in Arnold Schwarzenegger!».

Bastò quella gag a far capire quanto il film fosse di rottura rispetto al canone Disney. La storia dell’orfano di Agrabah, fittizia città del Medio Oriente, che trova la lampada di un Genio in grado di esaudire i desideri e cambiare la sua vita, era un canovaccio abbastanza convenzionale per lo studio d’animazione, ma fu sviluppato con uno stile visivo e con un umorismo che di convenzionali avevano quasi nulla, e i cui effetti si sono riverberati fino a oggi.

Ad adattare il racconto Aladino e la lampada meravigliosa tratto dal libro de Le mille e una notte ci pensò per la prima volta Howard Ashman, paroliere e forza creativa dietro La sirenetta, film che aveva dato il via al Rinascimento Disney (il periodo tra la fine degli anni Ottanta e i tardi Novanta in cui lo studio d’animazione trovò nuovo slancio e un successo stratosferico di pubblico e critica). Mentre ancora stavano finendo i lavori su La sirenetta, Ashman iniziò a rielaborare la favola di Aladino, rileggendola da un punto di vista personale. Da ragazzo, aveva interpretato il personaggio in una rappresentazione teatrale nella natia Baltimora, e pensò di incentrare la storia sul rapporto tra il protagonista e la madre, attingendo dal proprio vissuto.

Scrisse un lungo soggetto, intitolato Arabian Nights, con l’idea di sceneggiare e dirigere l’eventuale film, che sarebbe stato un altro musical. Insieme al compositore Alan Menken, con cui aveva lavorato ai vari progetti, tra cui proprio La sirenetta, realizzò una manciata di canzoni strettamente interconnesse alla storia. «Lo spunto iniziale per Aladdin», spiegava Menken nel documentario Howard, «proveniva dai film comici della coppia Bob Hope e Bing Crosby, mischiati alla stilizzazione dei cartoni Fleischer Studios e alla frenesia di Fats Waller».

Friend Like Me (rimasta nella versione finale del film e diventata in italiano Un amico come me) fu una delle prime canzoni che i due scrissero, e conteneva al proprio interno le suggestioni di cui parlava Menken, tra i ritmi sguaiati da avanspettacolo, il jazz e lo scat di musicisti come Cab Calloway e Fats Waller.

Ashman e Menken furono però dirottati su La bella e la bestia, una produzione piombata nel caos a cui i due diedero una nuova traiettoria. Arabian Nights fu accantonato, e nel frattempo la dirigenza – nella persona di Jeffrey Katzenberg – incaricò Linda Woolverton, sceneggiatrice de La bella e la bestia, di scrivere una sceneggiatura ispirata a Il ladro di Bagdad, un film del 1940 di Ludwig Berger, Michael Powell e Tim Whelan di cui Disney aveva acquistato i diritti per realizzare un remake. Da quella pellicola Wolvertoon scelse diversi personaggi, tra cui il cattivo Jaffar e la spalla comica Abu. Ma anche questa versione fu messa da parte.

Nel 1990, poi, conclusi i lavori su La sirenetta, la coppia di registi Ron Clements e John Musker scelse come suo prossimo progetto Aladdin da una rosa di tre candidati che includeva Swan Lake, una versione a cartoni de Il lago dei cigni, che però ai due sembrava troppo simile a La sirenetta, e King of the Jungle, una storia di rivalità tra leoni e iene nella savana. «Chi andrebbe mai a vedere un film del genere?» commentò sprezzante Musker, senza sapere che quel film sarebbe poi diventato Il re leone.

Clements e Musker ripresero l’idea del musical di Ashman, mischiando alcuni elementi del copione di Woolverton, e apportando ulteriori modifiche. La loro missione era creare una storia che potesse vivere soltanto nella dimensione animata, sfruttando i punti di forza del mezzo. Nel soggetto di Ashman, Aladdin era un membro di una gang di strada insieme a tre amici, con cui cantava diverse canzoni. Per rendere il film più cartoonesco, gli amici furono o tagliati dalla storia o trasformati in animali, come nel caso della spalla comica Abu.

Clements e Musker pensarono inoltre a un Genio in grado di cambiare forma come una versione animata di Robin Williams, attore comico noto per le sue capacità istrioniche e d’improvvisatore. Clements e Musker avevano visto Williams trasformarsi in una miriade di personaggi nel cortometraggio a cartoni realizzato per i parchi tematici Disney Back to Neverland. «Pensammo di poter sfruttare i fuochi d’artificio della voce di Robin in un modo che i film dal vivo non avrebbero mai potuto fare» spiegò Musker.

Per convincere l’attore a partecipare al progetto, i registi fecero animare a Eric Goldberg una scena di prova in cui il Genio interpretava spezzoni comici di Williams. Quest’ultimo era in buoni rapporti con i dirigenti dello studio e accettò al minimo sindacale, ma non avrebbe fatto pubblicità e pretendeva che il suo personaggio non fosse utilizzato per la promozione del film oltre un certo limite. Inoltre, Williams avrebbe deciso se tenere il suo nome nei crediti solo dopo aver visto il film finito. Per questo, il libro Disney’s Aladdin: The Making of an Animated Film (in Italia tradotto con Aladdin. Storia di un capolavoro) lo cita come “la voce del Genio” o “Shakespeare”, perché all’epoca Williams non aveva ancora visto il film. Disney non avrebbe poi rispettato gli accordi presi con Williams, provocando l’ira di quest’ultimo – ma le due parti si sarebbero riappacificate qualche tempo dopo.

Primo animatore assoldato per la produzione, Goldberg ebbe l’opportunità di influenzare lo stile visivo del film. Propose di realizzare il Genio ispirandosi allo stile del caricaturista Al Hirschfeld, la cui linea sinuosa e sintetica aveva ritratto le celebrità del Novecento sulle pagine del New York Times. Il Genio mescolava i tratti facciali di Williams, ridotti a caricatura, con una figura fatta di pochissimi segni, delineando un personaggio iconico già sulla carta, che aspettava soltanto di essere animato. «Fin da subito si capiva che il Genio sarebbe stato un personaggio straordinario che si sarebbe mangiato il film» confessa l’animatore Andreas Deja, che supervisionò Jafar, a Fumettologica. «Non avevamo mai visto niente di simile. Era fresco, nuovo e così ben fatto. Iniziò a prendersi così tanto spazio che pensavo “tanto vale chiamarlo Il Genio: Il film”.»

Proprio osservando l’esuberanza del Genio, Deja andò in direzione opposta con Jafar: «In Aladdin tutti i personaggi si muovono un sacco e sono dinamici. Il Genio, ovviamente, ma anche Aladdin, Abu, il Tappeto… Così pensai di ridurre al minimo i suoi movimenti e creare questa nuvola scura sopra il film. Meno lo facevo muovere, più efficace diventava. Volevo che si muovesse solo con la bocca».

Seguendo l’impostazione di Goldberg per il Genio, ogni personaggio fu ridotto a una forma essenziale: la clessidra per Jasmine, l’uovo per il Sultano, il rettangolo per il Tappeto. «I personaggi di questo film sono molto più semplici» spiegò Goldberg. «Non hanno fronzoli o angoli strani che rendono le figure complicate da disegnare.» Altrettanto fece il reparto scenografico, che oltre a Hirschfeld prese a modello le rotondità delle architetture e della calligrafia arabe, creando un mondo morbido e avvolgente. Il design è in parte debitore – non si sa quanto consapevolmente – anche di The Thief and the Cobbler, il travagliatissimo progetto di Richard Williams a cui lo stesso Goldberg aveva lavorato anni prima.

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Di Hirschfeld, gli animatori tentarono di imitare la chiarezza e l’espressività del tratto, il modo in cui le linee creano spazi aperti costruendo comunque una forma. Riprodussero inoltre la consistenza variabile della sua linea: invece che da un unico segno di spessore fisso, i disegni venivano ripassati da una seconda linea che si assottigliava o ingrossava per suggerire ombre e volume – stile che prese il nome di “thick and thin line” (“linea spessa e sottile”). Fu uno sforzo immenso, perché significava, nei fatti, disegnare due volte il film.

La semplicità del film continuò nell’uso dei colori. Nel mondo di Aladdin, il blu è associato al bene, all’idealismo, al romanticismo, alla creatività, il rosso è il male (è il colore di Jafar, di Iago e di tutto il terzo atto del film), mentre il giallo è ambiguo: un giallo intenso, quello dell’oro, simboleggia il male che deriva dal denaro, mentre un giallo più tenue rappresenta la città e la sabbia, due elementi neutrali.

Se per l’impianto visivo gli autori avevano le idee chiare, sulla trama c’era più di un’incertezza. Quando i realizzatori misero insieme una prima versione del film sotto forma di storyboard, Katzenberg riassunse il suo parere sul film dicendo ai registi che «potevano tenere il titolo». Per il resto dovevano ricominciare da capo, perché la storia così com’era non funzionava. «Sapevamo che c’erano dei problemi, ma non pensavamo fosse così disastroso» disse Clements. «L’umore era funereo» ricordò Goldberg. «Molto del lavoro era già stato fatto, moltissimi storyboard e design erano già stati finalizzati.»

Musker, Clements e i loro si presero otto giorni per ripensare la storia dall’inizio alla fine. Una volta approvato il soggetto, i registi chiamarono Ted Elliott e Terry Rossio (futuri autori del franchise I pirati dei Caraibi) per collaborare alla sceneggiatura e proporre soluzioni specifiche. La prima cosa che fecero fu eliminare la madre di Aladdin, un’idea che il gruppo di lavoro aveva già preso in considerazione ma su cui si era tergiversato perché costituiva il nucleo della storia nella versione di Ashman. Alla relazione tra Aladdin e sua madre era dedicata la ballata più struggente del copione, Proud of Your Boy, una canzone agrodolce in cui Aladdin prometteva di diventare una persona che l’avrebbe resa fiera di lui. Elliott e Rossio elaborarono inoltre le regole del Genio, tra cui il limite di tre desideri (nelle versioni precedenti erano illimitati), costruendo il meccanismo narrativo alla base del film.

«La storia originale era una sorta di racconto su una vincita alla lotteria» avrebbe raccontato Clements nel libro Disney’s Aladdin: The Making of an Animated Film. «Quando iniziammo a lavorarci stavamo uscendo dagli anni Ottanta e ci dava l’impressione di una morale che seguiva il motto “l’avidità è valida“. Non volevamo che il messaggio del film fosse: avere tutto ciò che si desidera è la cosa migliore del mondo.»

«La libertà è il tema più importante», gli faceva eco Musker, «perché ogni personaggio è intrappolato, in qualche modo. Aladdin è intrappolato dal suo status sociale, il Genio dalla lampada, Jafar dal suo lavoro di consigliere, il Sultano e Jasmine da una stupida legge che impedisce alla principessa di sposare chi vuole».

Con la data di uscita fissata a novembre 1992, avevano un anno e mezzo per completare il film. Tempo tre mesi e gli animatori avrebbero concluso i loro incarichi su La bella e la bestia e sarebbero stati pronti per lavorare ad Aladdin. Non avendo ancora niente di pronto, i registi misero in produzione Prince Ali e Friend Like Me, i due momenti musicali, pilastri della trama che non sarebbero cambiati, mentre cercavano di capire come sarebbe stato il resto del film.

Era sbocciata, per esempio, la storia d’amore tra Aladdin e Jasmine, e mancava una canzone che suggellasse il loro innamoramento. Il paroliere Howard Ashman, da cui tutto era partito, si era però malato di AIDS ed era morto nel marzo 1991, lasciando un enorme vuoto umano e creativo. A Menken fu affiancato Tim Rice, autore, insieme ad Andrew Lloyd Webber, dei musical Jesus Christ Superstar ed Evita. Basandosi sulle melodie già compose da Menken, Rice scrisse One Jump Ahead (La mia vera storia) e A Whole New World (Il mondo è mio).

Ma i problemi non erano finiti. Musker e Clements avevano immaginato Aladdin come un ragazzino il cui aspetto – basato su quello dell’attore Michael J. Fox – comunicava giocosità e fanciullezza. La loro idea era di andare contro lo stereotipo del protagonista avvenente e proporre un eroe scapigliato, magrolino e imberbe. Quando la storia d’amore prese spazio, Katzenberg ordinò di ripensare l’aspetto di Aladdin per renderlo più compatibile con Jasmine. «Lei è bellissima», disse il dirigente, «è Julia Roberts, e Julia Roberts non andrebbe con Michael J. Fox. Julia Roberts deve stare con Tom Cruise». Così, Aladdin assunse le fattezze del Cruise di Top Gun, in cui le pose del protagonista «comunicavano sicurezza e forza», come disse il capoanimatore del personaggio, Glean Keane. «Lo sguardo era fiero ma aveva un sorriso da ragazzo.»

Il nuovo design costrinse tutti a lavorare con scadenze pressanti. C’è una clip in uno dei documentari dedicati al film che in cui Keane spiega agli altri animatori come disegnare il personaggio. Keane passa in rassegna vari design, tra cui quello da sostituire, dicendo: «Questo è troppo giovane, questo troppo magro, questo troppo forzuto e questo troppo difficile da disegnare. Noi dobbiamo fare quello troppo difficile da disegnare». La risatina cupa e smorzata della stanza faceva presagire il duro lavoro che avrebbe atteso gli animatori. 

«Di norma, animavamo un film in dodici mesi» spiega Deja. «Finivamo La bella e la bestia e ci dicevano “benvenuti ad Aladdin! Siete già in ritardo”. Eravamo sempre in ritardo. Facevamo le ore piccole, non vedevamo le nostre famiglie neanche nei fine settimana pur di finire in tempo i lavori sui film. Sono andati in fumo molti matrimoni, la gente si è ammalata. È stata dura.»

Per questo, verso la fine della produzione, i dipendenti fecero presente la situazione, durante un ritrovo aziendale sulla Queen Mary, a Long Beach. Una settimana dopo i dirigenti annunciarono che lo studio si sarebbe allargato con nuove assunzioni, diviso in due gruppi, ognuno responsabile di una produzione. Gli animatori avrebbero avuto sei mesi in più rispetto a prima per completare il loro lavoro. Suo malgrado, Aladdin diventò l’ultimo film animato dallo studio Disney al completo.

Uscito il 25 novembre 1992, Aladdin raccolse consensi quasi unanimi. Fu il primo film animato a superare i 200 milioni di dollari d’incasso, in un panorama cinematografico dove fino a pochi anni prima i 50 milioni di Oliver & Company erano stati l’incasso più alto di sempre negli Stati Uniti per un film animato e un successo impossibile da superare. In Italia, dove uscì il 3 dicembre 1993 registrando il secondo incasso più alto della stagione, riuscì perfino a influenzare il doppiaggio dei cartoni. Per la parte del Genio gli adattatori scelsero Gigi Proietti, attore e comico molto popolare, che aveva abbandonato il doppiaggio da un decennio. Aladdin diede il via a una pratica che negli anni successivi avrebbe preso sempre più piede, prima chiamando al doppiaggio grandi nomi e poi arrivando a utilizzare voci di celebrità solo in virtù della loro popolarità televisivo-internettiana – già due anni dopo, Piero Chiambretti sarebbe comparso in un ruolo di contorno all’interno di Pocahontas.

Alla popolarità di pubblico si accompagnò quella della critica, a cui venne facile paragonare Aladdin a La bella e la bestia, che solo un anno prima era stato inneggiato come a un capolavoro. Ora però i critici si trovavano davanti a un prodotto più ingenuo da un punto di vista drammaturgico. C’erano infatti degli elementi che già all’epoca non funzionavano, e che col tempo sono peggiorati, come la rappresentazione del mondo arabo, ma la fattura tecnica e l’animazione erano a un livello mai raggiunto dalla Disney. «Non solo i cromatismi quasi elettrici del film sono nuovi per la Disney», scrisse Kenneth Turan sul Los Angeles Times, «ma lo stile visivo […] ha una vitalità caleidoscopica e sincopata che fa sembrare La bella e la bestia un prodotto antiquato.»

Come riassunse James B. Stewart nel libro DisneyWar, Aladdin rappresentò il momento in cui «lo studio era diventato un’orchestra sinfonica, arrangiata con raffinatezza, perfettamente bilanciata, che si esibiva all’apice del proprio virtuosismo». Se già La bella e la bestia lo aveva dimostrato con il pathos e il dramma, Aladdin ribadì che l’animazione poteva dare vita a film per tutte le fasce di pubblico, in questo caso con una comicità che strizzava l’occhio agli adulti, più propensi, rispetto a un bambino di sei anni, a riconoscere nelle facce del Genio le parodie di Groucho Marx, Ed Sullivan e Jack Nicholson.

Deja l’aveva presagito: il Genio si mangiò tutto il film grazie alle improvvisazioni comiche di Williams. Era una forza di cui Katzenberg già conosceva le potenzialità, dato che ai tempi de La sirenetta aveva scritturato Buddy Hackett nel ruolo della spalla comica Scuttle perché «se non riesci a inventare delle gag per una scena divertente, assolda un comico, ci penserà lui». Quell’intuizione fu fatta esplodere in Aladdin, dove Williams impose il suo stile fulmineo, pieno di cambi repentini tra voci diverse e imitazioni, arrivando a riferimenti anche molto oscuri per il pubblico internazionale, come le caricature dell’intellettuale conservatore William F. Buckley Jr. o del comico Rodney Dangerfield. Disney aveva trovato un modo per allargare la platea e portare gli adulti al cinema con un umorismo per i grandi ma bambinesco abbastanza da non escludere i piccoli.

Immerso nella contemporaneità, il Genio citava i classici film Disney, mischiava satira, metaumorismo, anacronismi e fulminanti parodie, impartendo un’importante lezione: le favole non andavano per forza trattate con i guanti. Sono tutti semi che sarebbero germogliati negli anni successivi, diventando la formula che Katzenberg avrebbe utilizzato per i cartoni della DreamWorks, società da lui fondata in seguito alla sua fuoriuscita da Disney. Ants, la saga di Shrek (il cui primo episodio fu scritto dagli stessi sceneggiatori di Aladdin, Elliott e Rossio), Shark’s Tale presero quegli elementi e li sistematizzarono fino a pervertirli. Citazioni pop, doppiatori blasonati e improvvisazioni comiche non erano più solo un ingrediente, erano il piatto completo. Di emuli Aladdin ne ha avuti tanti, ma quasi nessuno è riuscito a replicare quella ricetta accidentale che lo rese un perfetto anticlassico.

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