
Black Panther: Wakanda Forever avrebbe potuto essere un brutto film. Avrebbe potuto essere un film debole, oppure un film chiuso in una visione del mondo stereotipata, unilaterale. Avrebbe potuto essere un film morbido, flaccido, senza una direzione. Avrebbe potuto essere un film persino surreale, cartoonesco. Dopotutto abbiamo visto solo pochi mesi fa Thor: Love and Thunder e, come diceva mia nonna, le disgrazie non vengono mai da sole.
Invece, per una volta aveva torto mia nonna e ragione l’altra campana, cioè mio nonno: «Quando ti siedi al cinema chiudi la bocca, apri gli occhi e soprattutto apri il cuore» diceva l’anziano, ottimista della vita. L’ho fatto e non sono rimasto deluso. Dopo una partenza forse tentennante, Black Panther: Wakanda Forever esplode e si rivela un film formidabile, potente e generoso. Un film che mette in scena attori che sono molto maturati, sentimenti profondi e il bisogno universale di crescere e di elaborare i propri lutti.
Infatti, Black Panther: Wakanda Forever è prima di tutto un romanzo di formazione. Quella di Letitia Wright, che interpreta Shuri, la sorella geniale del re T’Challa, morto perché è morto in realtà l’attore che lo interpretava, cioè Chadwick Boseman. L’elaborazione di questo doppio lutto è il tema del film ed è messa in scena da subito, fin dalle prime immagini, dai titoli di testa totalmente dedicati a T’Challa e alla sequenza del funerale di Pantera Nera, che è anche un omaggio a Chadwick Boseman. L’attore che ha interpretato il personaggio in quattro film, da Captain America: Civil War del 2016 ad Avengers: Endgame del 2019, è infatti scomparso nell’agosto del 2020 per un tumore al colon, ma la sua morte repentina e improvvisa quando aveva solo 43 anni ha lasciato una vivissima impressione in molti.
Il problema narrativo ed economico, oltre al dramma umano, è che il film Black Panther del 2018 era stato un successo di critica enorme (anche qui da noi, nel nostro piccolo) e di pubblico ancor più grande (è a oggi il nono film in assoluto per incassi nel mondo). La morte dell’attore ha così creato da un lato l’esigenza di trovare un modo per riprendere la narrazione e dall’altro un problema non indifferente di riorganizzazione della storia di Pantera Nera. Il quale, per fortuna dei produttori e soprattutto degli sceneggiatori, è un ruolo che per sua natura viene ereditato e quindi rende la scomparsa del protagonista narrativamente meno problematica.

Arriviamo al film e a Letitia Wright. Questa è innanzitutto una storia di donne, come accade nelle famiglie quando gli uomini uno dopo l’altro muoiono o se ne vanno. C’è una donna potente, Angela Bassett (Ramonda). C’è una donna forte che forse si crede troppo forte, Florence Kasumba (Ayo). C’è una donna che si è allontanata (ma aveva dei buoni motivi per farlo), che è Lupita Nyong’o (Nakia). C’è una donna giovane, intelligente ma ancora inesperta e un po’ timorosa, che è Dominique Thorne (Riri Williams). E c’è una coppia di uomini che allargano un po’ le possibili tonalità di un maschio in un universo femminile africano: Martin Freeman, che riprende il ruolo di Everett Rosso, e lo straordinario Tenoch Huerta nella parte di Namor il Sub-Mariner.
Namor è il motore della storia: il personaggio – re di Talocan, un regno connesso agli Aztechi e sopravvissuto nelle profondità marine – è caratterizzato dall’arroganza, dalla forza fisica e dal lessico regale e autoritario come per la sua versione fumetti, a cui nel film si aggiunge anche una notevole intelligenza politica. Qualità pressoché unica, verrebbe da dire, tra le persone dotate di potere nell’universo Marvel. Tuttavia, la storia ruota attorno a Letitia Wright e alla sua interpretazione, che è strepitosa. Da ragazzina ossuta, Shuri si trasforma in un personaggio straordinariamente intenso e complesso, che sboccia anche fisicamente sotto i nostri occhi e che compie un cammino interiore ricco ma molto doloroso.
Black Panther: Wakanda Forever è un bel film, forse persino un grande film. Ha solo un cedimento, nella consueta battaglia sulla tre quarti finale del film, perché gli americani in quelle cose si sa che esagerano sempre e dopo un po’ verrebbe voglia di urlare e tirare mobili e cibo contro lo schermo (e non è detto che in un universo alternativo questo possa anche succedere). Tuttavia, nel complesso è un film ricco, visivamente cangiante e dettagliato, con ottime soluzioni di regia (bravo Ryan Coogler, che aveva co-scritto e diretto anche il primo film) e con sequenze immaginifiche e dal sapore intenso, quasi alieno. Ad esempio, il regno sottomarino di Talocan è una visione unica, delicata nella sua brutale complessità e vividezza.

Coogler è molto bravo perché mette in scena anche la complessità di una società africana ricca che tuttavia è sempre legata ai miti e ai limiti della percezione della cultura afroamericana negli USA. È una cultura che mette in scena stereotipi e punti di forza, persino un’idea di abbigliamento che è a suo modo rivoluzionario. L’esempio per tutti è Ramonda, una donna e una sovrana straordinaria e potentissima, oltre che ferocemente elegante. Per lei, Coogler ha recuperato con sapienza un gusto africano colorato e quasi volutamente “troppo” artificiale nella sua vivacità sfarzosa e simbolica. Lo ha fatto apposta, ma sapeva di poterlo fare, perché gli viene bene.
Infine, una nota sulla struttura: non amo per niente l’idea del viaggio dell’eroe, uno dei tropi più usati a Hollywood e soprattutto più citati. Trovo disturbante infatti l’idea che tutti i film, da Guerre stellari a La sottile linea rossa, siano costruiti attorno a un modello codificato da uno sceneggiatore in difficoltà creativa che si è ispirato dalla ricerca sul campo di un antropologo specializzato in storia delle religioni. Esibire il viaggio dell’eroe, archetipo di tutte le narrazioni umane, è quasi sempre considerato un gesto apotropaico, una specie di viatico per difendere il lavoro fatto nella creazione di un film dal destino incerto.
Invece, questo Black Panther: Wakanda Forever è davvero il viaggio di un eroe, oltretutto straordinario: il viaggio di Shuri, nell’interpretazione meravigliosa e ricchissima che ne dà Letitia Wright. Ci sono momenti – che ovviamente non possiamo spoilerare – che ci rendono preziosa la grandissima fragilità, vulnerabilità e ricchezza della gamma espressiva e dell’intensità di Letitia Wright. Se avete due ore e quaranta libere, sappiate che impiegarle per guardare Black Panther: Wakanda Forever, pur con tutti i limiti che un film della Marvel implica, sono spese bene.
Antonio Dini, giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. La sua newsletter si intitola: Mostly Weekly.
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