Rubriche Sofisticazioni Popolari È davvero tutto un capolavoro?

È davvero tutto un capolavoro?

Tendenze e direzioni della pop culture viste da chi non riesce a farne a meno, anche se vorrebbe. "Sofisticazioni popolari": una rubrica di Fumettologica a cura di Marco Andreoletti. Ogni 15 giorni riflessioni sullo stato dell’industria dell’intrattenimento, cercando di capire come sopravvivergli.

La polarizzazione dell’opinione pubblica è uno dei punti di discussione più caldi degli ultimi anni. Effettivamente, limitando il nostro campo di osservazione al chiacchiericcio social e agli strilli sguaiati degli utenti più attivi, la situazione parrebbe essere davvero molto grave. Anche osservando l’andamento politico e il progressivo avanzamento dei populismi o di voci tutt’altro che moderate sembrerebbe che l’andazzo sia quello.

Lasciando tali enormi questioni a chi ha strumenti sicuramente più approfonditi e accurati dei miei e limitandomi al campo che più mi compete – intrattenimento e altre sciocchezze ininfluenti – vale comunque la pena indagare e scendere, o perlomeno provare a farlo, più in verticale nella questione. Dopotutto non è possibile che al cinema o in libreria arrivino ogni santo giorno capolavori irrinunciabili. O viviamo davvero nel bel mezzo di un nuovo rinascimento e non ce ne siamo accorti, o forse qualcosa nella nostra percezione ha bisogno di essere un minimo ricalibrata su parametri un filo più oggettivi.

Per cominciare ho analizzato i risultati dei principali aggregatori di recensioni, dove, oltre ai voti della critica, sono raccolti anche quelli degli utenti. Al momento in cui scrivo Rotten Tomatoes segnala che su 120 delle ultime uscite per la tv il pubblico considera gravemente insufficienti (dal 40% non compreso in in giù) solo 6 serie, mentre le eccellenze (dal 90% in su) sono 35. Sembrano molte, ma in realtà dentro ci finiscono tante certezze (Breaking Bad, Fleabag, Dark) ormai concluse da diversi anni. Degli ultimi 73 film usciti in sala, 4 sono considerati disastrosi e 19 superano il 90% (ho eliminato dalle ultime 108 uscite i prodotti senza il numero minimo di voti utili ad avere una media sensata. Sono quelli senza percentuale segnalata in fase di ricerca sul database). Teniamo conto che molti di questi sono film importati per il mercato americano dall’estero (India, Cina, Giappone) e che quindi sono indirizzati a un pubblico di appassionati tendenzialmente propensi a premiarli. 

Su Metacritic, dei 146 videogiochi pubblicati negli ultimi 90 giorni, 28 sono considerati brutti (molte stroncature, tipo quelle di Overwatch 2 o i prodotti sportivi EA, sono però frutto di review bombing mirate) mentre solo 2 superano il 9.0. Dei 451 film usciti nel 2022 sono 8 quelli che superano o raggiungono il 9.0 (sono 34 se allarghiamo lo spettro all’8.0) e 76 sono sotto il 5.0. Fra le 2.945 serie televisive di tutti i tempi (considerando ogni singola stagione una cosa a sé stante), 77 raggiungono o superano il 9.0 e 402 sono sotto il 5.0 (199 sotto il 4.0). Mentre tra 306 dischi censiti nel 2022 solo 4 superano il 90 e nessuno è sotto il 45. Su Comic Book Round Up tra tutti i fumetti pubblicati nel 2022 (non è dato sapere quanti siano in tutto) solo due a oggi hanno un voto dell’utenza superiore a 9.0.

Insomma, dati alla mano e contro ogni aspettativa – non dovevamo parlare di polarizzazione? – quello che prevale è un’ampissima fascia media, che va dal buono alla insufficienza non grave. Quella zona in cui, pensandoci bene, dovrebbero sempre finire prodotti indirizzati al grande pubblico. Troppo costosi e con un alto livello di professionalità per cadere sistematicamente nella catastrofe (al limite ci faranno passare una serata noiosa) e troppo figli di uffici marketing e algoritmi per voler dire davvero qualcosa.

Guardando questi esempi, la percezione, mia per prima, che oggi per il pubblico tutto sia diviso tra capolavoro o disastro ingiustificabile si rivela quindi del tutto sbagliata e sfalsata dalla realtà

A complicare ulteriormente le cose ci sarebbero poi da considerare i numeri – ovvero la quantificazione di chi consuma un determinato prodotto, compresi quelli che lo fanno senza per forza di cose prendersi la briga di andare a dargli un voto su qualche aggregatore – argomento reso molto complesso dalla quantità di fonti da cui attingere e dalle modalità con cui questi dati vengono resi pubblici.

Perché noi possiamo raccontarcela quanto vogliamo e spendere lodi sperticate per prodotti eccellenti come The Bear e Only Murders in the Building, ma le autentiche corazzate della tv americana sono ancora titoli come CSI, FBI o Chicago Fire. Senza contare il successo planetario dei k-drama, produzioni spesso molto patinate ma riconducibili a versioni blockbuster delle vecchie telenovele. Non proprio i titoli che citereste in un salotto buono per fare la figura dei fini intenditori, ma i classici prodotti medi che compongono da sempre la fetta più larga del mercato. Quelli che durano un’infinità di stagioni (esclusi i k-drama, prodotti comunque a catena di montaggio), rappresentano una certezza inamovibile per i loro appassionati e costituiscono una grossa e rassicurante fetta del budget annuale di ogni casa di produzione.

Il problema potrebbe quindi essere solo relativo a come si parla del prodotto del momento, non a cosa se ne pensi veramente. Se guardiamo i voti raccolti dagli aggregatori, questi tendono a essere molto esasperati a ridosso dell’uscita. Poi, col tempo, tendono a uniformarsi e a trovare una dimensione più coerente al loro status autentico. Tornando, in poche parole, a confermarsi come prodotti prevalentemente medi. Probabilmente la foga di volerne parlare a tutti i costi e il bisogno di determinate categorie lavorative di dover svettare sulla proposta di tutti gli altri costringe alla produzione di contenuti spigolosi, riconducibili a concetti basici e riassumibili in un pugno di parole. Una volta esaurito l’effetto bandwagon e passati alle uscite successive, il pubblico si concede una riflessione più ragionata su quello che ha appena fruito e tutto torna al suo posto.

Come veniva spiegato da Damon Centola sulle pagine di Scientific American, «il problema del pregiudizio di parte è esacerbato sui social media perché le reti online sono spesso organizzate attorno a pochi influencer chiave. Questa caratteristica dei social media è uno dei motivi principali per cui la disinformazione e le fake news sono diventate così pervasive. Nelle reti centralizzate, gli influencer di parte hanno un impatto sproporzionato sulla loro comunità, consentendo a rumor e supposizioni di essere amplificati e diffusi. Maggiore è l’equità nei social network e più i gruppi diventeranno meno prevenuti e più informati, anche quando quei gruppi inizieranno con opinioni altamente di parte». Evitando capipopolo e prendendo sterili provocatori per quello che sono – intrattenitori e poco più – ecco quindi avanzare il margine per un pensiero più ponderato.

Le cose però non sono così semplici, non basta additare qualche personaggio messo in evidenza dalla piattaforma del momento per liberarci da ogni colpa. Troppo spesso determinati prodotti non si limitano più a essere intrattenimento, ma arrivano a rappresentare strumenti di identificazione per il pubblico. Non si tratta di certo di una novità – la cosiddetta console war tra fan Nintendo e Sega risale agli anni Ottanta, senza contare la lunghissima tradizione delle tifoserie sportive – solo che oggi ci stiamo dimostrando un filino più fragili e suscettibili del consentito. Soprattutto considerando che, limitandoci al campo del Marvel Cinematic Universe, si parla di «personaggi e situazioni che erano stati creati per intrattenere ragazzi di 12 anni di 50 anni fa». E a dirlo è Alan Moore, uno che un minimo di autorevolezza in materia mi pare se la sia guadagnata. 

Eppure la convinzione con cui alcuni Marvel fan difendono ogni inezia prodotta da Kevin Feige è commovente, così come l’odio e l’intolleranza portati avanti dai detrattori della woke culture nei confronti dei goffi tentativi di inclusione presenti in tutti i blockbuster contemporanei. A cronaca di come certi bias cognitivi colpiscano chiunque e non solo chi abbraccia teorie reazionarie va citata l’assoluta incapacità di andare al di là del livello più basico di analisi di chi aderisce a istanze progressiste senza un’autentica riflessione alle spalle.

L’altra sera stavo riguardando Doctor Strange nel Multiverso della follia e la scena del matrimonio in chiesa è assurda per come in ogni inquadratura ci sia almeno una comparsa per ogni etnia presente negli Stati Uniti (la freccia nella foto non è mia, ho pescato l’immagine da reddit). Si tratta chiaramente di una scelta imposta dalla direzione.

Chi vede in un simile trattamento da Simple Jack della woke culture la giusta strategia per raggiungere una dose decente di inclusività sono le stesse persone per cui uno scrittore come Michel Houellebecq è da respingere a priori. I suoi libri non si fanno certo problemi a porsi come urticanti, giocando senza troppi problemi con misoginia, razzismo, nichilismo e oscenità. Eppure godono di una scrittura di livello assoluto, suscitano forti emozioni e, almeno i primi, difficilmente lasceranno indifferente il lettore. Rinunciare a una simile fortuna solo per evitare la fatica di andare oltre la superficie sarebbe davvero un gioco a perdere. 

Come scriveva Bruno Saetta su Valigia Blu, «Le grandi aziende tecnologiche, i social media, sono diventate il capro espiatorio. Ma nessuno ci ha costretto a trasferirci su Facebook, nessuno ci ha costretto a diffondere contenuti imbarazzanti, scandalistici, hate speech e fake news. Semplicemente abbiamo progressivamente ceduto al tribalismo, abbiamo preferito dividere noi dagli altri, piuttosto che cercare un dialogo o un punto di contatto. Abbiamo deciso di preferire la lealtà al partito, al gruppo, rispetto alla stessa verità fattuale. Scegliamo noi di leggere solo certe notizie decidendo di vivere in “bolle di contenuto”, come scegliamo di comprare sempre lo stesso giornale, come scegliamo di seguire sempre gli stessi contenuti televisivi. Se anche ci fossero fornitori di contenuti differenti molti di noi preferirebbero continuare a leggere solo ciò che conferma le nostre idee e la nostra identità. E i social media non hanno fatto altro che seguire la tendenza della società di dividersi enfatizzandola, esattamente come i media precedenti: televisione e giornali».

Siamo tornati tribali per il tempo che questo ci garantisce intrattenimento a buon mercato, la piacevole sensazione di essere all’interno di un gruppo dalla parte del giusto. «È ciò che gli scienziati politici chiamano polarizzazione affettiva» spiega dalle pagine di Business Insider il dottor Karin Tamerius, psicologo e fondatore di Smart Politics. «Soprattutto, sono sentimenti negativi reciproci, quindi alle persone di sinistra non piacciono le persone di destra e alle persone di destra non piacciono le persone di sinistra, anche se in realtà non sono più così distanti rispetto al passato. I social media hanno contribuito ad alimentare quell’animosità creando uno spazio senza una chiara serie di norme di convivenza, che a sua volta ha messo in evidenza il peggior comportamento delle persone. Per quanto sia difficile avere conversazioni politiche con persone offline, averle online senza quelle norme può davvero fare esplodere la situazione.»

Questo tipo di reazione non può essere scatenato da prodotti medi, quelli di cui parlavamo poco sopra e in grado di macinare numeri enormi passando sottotraccia, ma necessita di titoli provocatori fatti per suscitare emozioni forti. Peccato che questa sia l’antitesi di quello che troppo spesso troviamo in multisala o fumetteria, dove a vincere quasi sempre è la mediocrità. E allora ecco il bisogno di prendere prodotti di intrattenimento frutto unicamente di scelte manageriali e di elevarli a qualcosa di più. Bandiere sotto cui compattarsi in legioni di fedelissimi fan, oppure simboli del decadimento della società o di un progresso fatto solo di superficie. Tutto tranne che semplici giocattoli fatti per incassare più di quello che sono costati. 

E poco male se nel lungo periodo dimostreranno di non avere le spalle abbastanza larghe per sopportare una simile pressione. L’importante è che restino al centro della nostra attenzione per il tempo in cui streamer e youtuber ne parlino in maniera assolutamente esasperata. Oppure portali – tra cui anche Fumettologica, ovviamente – ci costruiscano sopra articoli ad hoc per essere indicizzati. O, ancora, influencer diffondano via social qualche battuta o tormentone blandamente sagace.

Poi sarà tempo di concentrarsi sulla nuova uscita della settimana. A quel punto quel capolavoro inattaccabile – o disastro epocale – che fino a pochi istanti prima sembrava averci cambiato la vita tornerà a essere un semplice film con ragazzotti in costume che si menano, l’ennesimo videogame dove ci si spara contro imbracciando grossi fucili o l’ennesimo manga ispirato a qualche shonen degli anni Ottanta. Insomma un prodotto medio in grado di farci passare qualche ora di moderata serenità. Niente di più.

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