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Quando i fumettisti fanno i videogiochi

Tendenze e direzioni della pop culture viste da chi non riesce a farne a meno, anche se vorrebbe. "Sofisticazioni popolari": una rubrica di Fumettologica a cura di Marco Andreoletti. Ogni 15 giorni riflessioni sullo stato dell’industria dell’intrattenimento, cercando di capire come sopravvivergli.

Una schermata di “Maniac Mansion”

Nel precedente articolo di questa rubrica abbiamo raccontato come il medium videoludico si sia rapportato, nel corso degli anni, al fumetto (potete leggerlo qui). Nonostante il successo sempre più grande – soprattutto come vendite e, di conseguenza, nel numero di titoli sviluppati – risulta evidente come i produttori si approccino al materiale originale come mero magazzino di idee e proprietà intellettuali, soprassedendo totalmente alla natura di linguaggio visivo dei comics. Nonostante la grammatica del fumetto sia stata sfruttata più volte all’interno di meccaniche ludiche, sono pochissimi i prodotti che appaiono proprio come i libri da cui sono tratti. L’unica eccezione sono, per ovvie ragioni, i tie-in di serie animate a loro volta tratte da fumetti.

In questa seconda parte andremo invece a indagare cosa succede se a essere coinvolti nella produzione di videogiochi sono gli stessi fumettisti. Se nella maggior parte dei casi sono gli sceneggiatori a essere reclutati dall’industria del software – un metodo furbo per tirare a bordo narratori capaci in grado oltretutto di garantire continuità con il materiale originale e una buona dose di credibilità con i fan più hardcore –  è successo più volte che a essere chiamato in causa sia stato chi si occupa della parte visiva dei fumetti. Si tratta di un rapporto non sempre facile, ma che in più casi ha dimostrato come i risultati possano essere eccellenti.

I primi interventi di peso all’interno dell’ industria del videogioco da parte di un fumettista probabilmente fecero capo a Gary Winnick, autore indipendente in prestito fin dal 1984 a una neonata Lucasfilm Games Division, dove rivestì il ruolo di artista, animatore e co-designer di un titolo epocale come Maniac Mansion. L’esperienza al tavolo da disegno di Winnick – che aveva avuto la possibilità di lavorare anche come assistente di Neal Adams – fu fondamentale per portare al successo un genere fortemente narrativo come quello delle avventure grafiche.

Dopo il primo esperimento di Labyrinth – dove Winnick era già coinvolto – la vocazione della Lucasfilm per un tipo di videogioco meno frenetico e più incentrato sulla scrittura divenne chiaro, ma le limitazioni tecniche erano palesi. «Negli anni Ottanta, l’evoluzione della grafica 2D consentì la creazione di personaggi visivamente distintivi nei giochi, in contrasto con le figure generiche del decennio precedente», spiega il professor Nicolas Labarre, studioso di videogiochi e fumetti all’Università Bordeaux Montaigne. «Fumetti e cartoni animati offrivano modelli di forme narrative visive che impiegavano personaggi semplificati ma espressivi, il cui aspetto stabile li rendeva facilmente riconoscibili.» 

È la tecnica di “amplificazione attraverso la semplificazione” discussa dall’autore di fumetti Scott McCloud nel suo saggio Capire il fumetto. Senza l’esperienza da fumettista di Winnick – al netto dell’innegabile genio di scrittori e designer come Ron Gilbert, Dave Grossman e Tim Schafer – sarebbe stato difficile riuscire a immaginarsi deliranti narrazioni come quella di Maniac Mansion realizzate in maniera altrettanto efficace. 

Dalla stessa scuola emerse anche Steve Purcell – futuro regista da premio Oscar per Ribelle – The Brave – anch’esso animatore e disegnatore per Lucasfilm. I suoi personaggi più famosi, la coppia di animali detective antropomorfi Sam & Max, nacque come fumetto negli anni Ottanta e riuscì a guadagnarsi una trasposizione videoludica nel 1993, dopo che il loro autore aveva scritto una pagina di storia del medium videoludico curando la parte grafica dei primi due Monkey Island. Naturalmente Purcell lavorò anche alla trasposizione interattiva dedicata ai suoi personaggi, garantendo un‘inedita e perfetta continuità tra origine cartacea e controparte digitale.    

Una storia a parte la merita l’autore belga Benoît Sokal, noto ai più per l’Ispettore Anatroni. Come spiega il sito Lambiek, «Sokal è sempre stato un mago del computer. Nel 1994, fu uno dei primi fumettisti della sua generazione a iniziare a colorare le proprie storie con l’aiuto di un computer. Per lui non c’era molta differenza tra un fumetto e un videogioco, dal momento che le regole narrative sono simili». Così nel 1996 passò a Microïds come designer e art-director. 

Il primo gioco da lui sviluppato fu Amerzone, ambientato nello stessa stessa nazione finzionale in cui si svolgono le vicende di Anatroni. La grafica è un rudimentale 3D, ma si percepisce lo sforzo da parte dell’autore di renderlo proprio. L’autentica consacrazione come designer la si ebbe qualche anno più tardi, con il primo capitolo della serie di Syberia. Anche se siamo ancora lontani dagli standard odierni, l’attenzione dietro la direzione artistica e la cura certosina di Sokal – che realizzò di persona tutti i fondali 2D – sono palesi, tanto da rendere il gioco un successo planetario

Nonostante questi illustri precedenti, il primo caso in cui il salto da fumetto a videogioco ebbe un’autentica risonanza pop fu senza dubbio quello di Joe Madureira. Autentica superstar dei comics, uomo di punta di Marvel Comics dal 1994 al 1997, alfiere dell’invasione manga sui tavoli da disegno USA, capace di far arrivare una robetta come Battle Chaser in vetta alle classifiche di vendita solo per la potenza dei disegni, nei primissimi 2000 mollò tutto per dedicarsi ai videogiochi. Dopo il classico periodo di rodaggio – in cui si dedicò al design di Dungeon Runners – fu assunto come direttore creativo presso THQ dove, affiancato dal fido Han Randhawa, finalmente riuscì a imporre la sua visione. Il risultato fu Darksiders, la perfetta trasposizione a tre dimensioni dell’immaginario di Madueira.

Il videogioco è infatti caratterizato un’estetica bombastica, fatta di anatomie sproporzionate, richiami agli anime e una ricerca esasperata di tutto quello che poteva essere figo nel 2001. Peccato però che sia uscito nel 2010. Nonostante il pericolo di risultare fuori tempo massimo il videogioco raggiunse il milione di copie vendute, consentendo di mettere in cantiere un sequel. Alla fine su quattro capitoli pubblicati, Madureira ne ha scritti e diretti tre. Ironicamente, l’unica iterazione alla quale è stato estraneo ha visto il coinvolgimento dello studio Man of Action Entertainment, composto da scrittori provenienti proprio dal mondo del fumetto (tra cui Joe Casey e Joe Kelly). Nel 2017 è arrivata anche la trasposizione videoludica di Battle Chasers, intitolata Battle Chasers: Nightwar. Un gioco di ruolo a turni di chiaro stampo nipponico, tanto per chiarire ulteriormente la levatura da nerd di Madureira, che finalmente ha realizzato a pieno la sua visione dei videogiochi.

Altro esempio di perfetta fusione tra visione di un fumettista e videogioco è Spinch, firmato dal canadese Jesse Jacobs. Realizzato da un minuscolo studio indipendente grazie ai generosi aiuti del governo per le start-up tecnologiche, è un platform lisergico che pare strappato di forza dalle pagine di uno dei libri dell’autore di Crawl Space. Essendo una produzione molto più contenuta rispetto a quelle di cui abbiamo parlato finora, l’autore ha dovuto/potuto ricoprire il ruolo di disegnatore, animatore e level designer. In poche parole le uniche cose non curate da lui sono musiche e programmazione, permettendogli una trasposizione uno a uno di quanto fatto nei suoi libri. Artisticamente eccellente, perde qualche punto come videogioco in sé, dimostrando la scarsa esperienza della squadra di sviluppo.

Nel 2019 è uscito un altro esempio di perfetta coesione tra materiale fumettistico di partenza e videogioco. Super Cane Magic Zero, sviluppato da Studio Evil in stretta collaborazione con Sio, è riuscito non solo a integrare l’inconfondibile estetica del fumettista, ma ne ha reso umorismo e scrittura parte integrante delle meccaniche ludiche. «Come tutti gli action RPG degni di questo nome, anche in Super Cane Magic Zero ci sono una caterva di oggetti dalle caratteristiche più strampalate con cui è possibile equipaggiare e personalizzare il proprio alter ego» riporta la recensione di IGN.

«Giacché si tratta dell’universo ideato da Sio, aspettatevi di combattere utilizzando aggeggi che non troverete in nessun altro gioco, come pistole spara-carote o scudi esplosivi» continua poi l’articolo. «Al pari di improbabili eroi, eccentrici NPC, balzani pezzi d’equipaggiamento, abilità e descrizioni insolite, dialoghi fuori di testa e ambientazioni curiose, anche i nemici che cercano di farci la pelle si rivelano tutto fuorché usuali. Se pipistrelli, bestie e mostri vari ormai non vi fanno più alcun effetto, non preoccupatevi: in Super Cane Magic Zero orde di frigoriferi taglia XXL, patate esplosive, cubetti di ghiaccio assassini e saggi alberi non vedono l’ora di darvi del noob dopo avervi inflitto un colpo fatale.» 

Si tratta di uno dei pochissimi – e preziosi – casi in cui i fumetti e la poetica dell’autore sono autenticamente al centro di tutta l’esperienza videoludica. Forse l’unico altro caso di produzione così coesa potrebbe essere Scott Pilgrim vs. The World: The Game, dove quanto fatto di buono da Bryan Lee O’Malley veniva filtrato dall’enorme talento dell’animatore Paul Robertson. I due autori non hanno mai nascosto di dovere moltissimo al mondo del videogioco e nel corso degli anni hanno esplicitato infinite volte il loro debito, che si tratti di immagini promozionali per altri videogiochi o episodi spin-off di serie tv. 

Un ultimo esempio di influenza del fumetto sul videogioco arriva dall’eredità di autori tanto enormi da diventare sinonimo di un’estetica così precisa e definita da essere chiamata in causa senza che l’autore stesso sia coinvolto direttamente. L’esempio recente più puntuale in questo senso è senza dubbio Sable, produzione del 2021 impossibile da giocare senza pensare per tutto il tempo di essere immersi in una tavola di Moebius. Tranne se siete giornalisti di Polygon, allora avrete l’incredibile potere di vederci chiare influenze di Nausicaä della Valle del vento di Hayao Miyazaki. Ironia a parte, risulta evidente come il piccolo studio inglese Shedworks – composto unicamente da Daniel Fineberg e Gregorios Kythreotis – abbia pescato a piene mani dall’immaginario del fumettista francese per costruire un’avventura incentrata sulla scoperta e sull’esplorazione. 

Dopotutto chi, meglio di Jean Giraud, ha il potere di trasportare il lettore in un universo dove fisicità, misticismo e pura astrazione convivono nello stesso scorcio di paesaggio. Le sue lande desertiche, composte da enormi volumi apparentemente senza peso e dove ogni cosa sembra possibile, sono l’ambientazione ideale per perdercisi e costruire un inedito racconto di formazione – come appunto è Sable – dove le meccaniche videoludiche tradizionali sembrano avere ben poca importanza. Anche in questo caso l’influenza del fumetto è ben più fondante del dover fornire unicamente una proprietà intellettuale da spremere allo sfinimento. Design estetico e di funzione risultano indissolubilmente legati

Questo ci insegna come la natura di strumento narrativo prettamente visuale del fumetto dovrebbe sempre essere tenuta bene in mente quando si decide di proporne una trasposizione in altri linguaggi. Non farlo significa semplicemente non averne capito importanza e possibilità, riducendolo a un bacino di storie e personaggi destinati a essere depotenziati una volta sottratti al loro ambiente naturale.

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