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FocusIntervisteIntervista a Manuele Fior su "Hypericon"

Intervista a Manuele Fior su “Hypericon”

hypericon manuele fior intervista

Hypericon, il nuovo fumetto di Manuele Fior pubblicato da Coconino Press, è una storia d’amore ambientata nella Berlino di fine anni Novanta, lo stesso luogo e periodo in cui l’autore visse da giovane. Ma è anche la storia (vera) della scoperta della tomba di Tutankhamon da parte di Howard Carter, avvenuta nel 1922. Un altro aggancio al vissuto dell’autore, che ha lavorato in Egitto a degli scavi archeologici, in veste di disegnatore.

Hypericon è un viaggio tra rimandi e parallelismi distanti quasi un secolo tra di loro, con cui Manuele Fior è tornato dalle parti di Cinquemila chilometri al secondo (altra storia d’amore tra espatriati) realizzando un fumetto tenero, sensuale e pieno di senso della meraviglia, disegnato al meglio delle sue capacità. Hypericon però non si riduce a questo paio di coordinate. Di tutto il resto, ne abbiamo parlato direttamente con Fior in questa intervista.

La copertina di Hypericon non ha molto a che fare con la storia.

Mi piace fare copertine di fumetti che non sembrano fumetti. Le copertine non devono raccontare una storia. Devono essere belle abbastanza da invitarti a prendere il libro in mano. C’era un bell’esempio che faceva Hayao Miyazaki: il mercato, nel suo caso quello dei film d’animazione, è come un negozio di caramelle in cui ci sono tante cose colorate e appariscenti e la tua deve farsi notare più delle altre. È un concetto se vuoi anche utilitaristico, però in effetti è così. Una copertina, secondo me, funziona non perché ci sia una storia da decifrare ma perché la guardi e dici «ammazza, cos’è ‘sta roba?». Io ho comprato libri solo per la copertina, restando poi deluso dal contenuto.

Ti è venuta al primo colpo?

No, sarà stata la decima idea. Nell’immagine ho disseminato alcuni elementi della storia. Mi ero ispirato a un film di Éric Rohmer, La collezionista. Mi sembra più divertente giocare con un fotogramma che mettere la faccia del personaggio o altro… E poi adesso c’è la tendenza, alla quale io ho aderito più o meno inconsciamente, dei personaggi di schiena. Un mio amico mi ha mandato una foto di una libreria, dove c’era anche una mia copertina fatta per un libro di Louise Penny, in cui le copertine di qualsiasi volume, dai romanzi ai libri di fotografie, erano con personaggi visti di schiena. Pazzesco, una specie di…

Di tic.

Sì, di tic. Se non altro appena te ne accorgi dici: basta schiene!

Da dove nasce l’idea di questo progetto?

L’inizio di questo fumetto – ma gli inizi sono sempre esoterici – è venuto fuori da un brandello di sogno che ho fatto. Due anni fa ebbi un problema di insonnia cronica che è durato tanto tempo. Senza sonniferi non dormivo. Mi ricordo che una notte, in quelle due o tre ore in cui ero riuscito a dormire, avevo fatto un sogno a fumetti. Ho sognato i personaggi su un autobus a Berlino, una ragazza e un ragazzo che si incontrano. Sentivo la voce della ragazza che diceva «la prima cosa che avrei dovuto sapere di lui è che se mai avessimo avuto una meta non ci saremmo mai arrivati in linea retta» e poi lui le regalava una bicicletta.

E ti sei appuntato la frase appena svegliato?

L’ho scritta, sì, perché da sveglio me la ricordavo. E poi c’era questo medicinale che prendevo su cui avevo iniziato a fare ricerche perché mi intrigava, che era l’iperico, che su di me non funzionava granché. È una pianta molto potente che però il medico mi ha tolto perché può dare problemi cardiaci ed entra in conflitto con altri medicinali. Mi incuriosiva il nome, ho letto molte leggende legate alla pianta, per poi scoprire che esiste una specie di iperico detta “hypericum aegypticum”. Nel frattempo stavo ripensando alla biografia di Howard Carter, che mi è sempre piaciuta tantissimo. Queste tre cose si sono inanellate ed è venuta fuori l’idea.

Ne parli come se la storia avesse avuto vita propria.

Il mio lavoro è fatto di cose talmente non scientifiche, che affondano le radici in brandelli di sogni, impressioni, letture dimenticate… Produrre in laboratorio idee, come fanno nelle produzioni cinematografiche, per me è repellente. Se io cerco un’idea non viene, è matematico. L’idea devi avere l’impressione che sia lei che arrivi da te, altrimenti non è bella. Sembra qualcosa che si inaridisce subito. Se invece è una rivelazione, quasi mistica, allora lì è potente e puoi restarci attaccato per diversi anni, perché diventa una scoperta.

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Lavorare a Hypericon è stata un’esperienza diversa dalle precedenti?

Questo è il primo fumetto di cui ho realizzato prima lo storyboard. Durante il primo lockdown, ero confinato a Parigi e non potevo accedere al mio studio, che era a più di mezz’ora da casa. All’epoca condividevo lo studio con Bastien Vivès, che ha uno studio grande con diverse persone dentro, molto bello ma lontano, e allora mi sono ritrovato a fare diversi lavori sull’iPad. Ho trovato una grande pace, in mezzo al caos generale. Un po’ perché ho annullato tutti gli impegni e i viaggi, e quindi sono rimasto con la mia compagna e mio figlio, un po’ perché ero quasi legittimato a pensare, riflettere.

Non potendo disegnare la storia, ho cominciato a scriverla e fare delle ricerche, perché l’argomento si ricollega a degli studi che ho fatto durante l’università, a scrivere a vecchi professori, chiedere se si ricordavano di me. Ho scritto un soggetto per tenere questa cosa più concreta possibile e poi, non potendo andare in studio, mi sono detto «faccio quello che fanno tutti»: lo storyboard. È stato molto divertente, questo modo tradizionale di lavorare, anche perché non l’avevo mai fatto.

Come ti sei trovato?

Ci sono dei vantaggi evidenti. Per esempio, dedichi lo stesso tempo di riflessione a ogni parte della storia. Mentre con il metodo che utilizzavo io, l’inizio lo conosci da un sacco di tempo e la fine è la cosa più recente a cui arrivi. Improvvisare è bello perché è una sorpresa costante, però molte volte non è un metodo perfetto. Avevo bisogno di sistematizzare un po’ le cose. È stata una bella esperienza, che forse utilizzerò in maniera diversa, ma non credo la ripeterò uguale, perché c’è molto di bello anche nell’improvvisazione.

Lo ritieni un metodo migliore, improvvisare?

Non so se sia meglio. Era necessario passare anche per questa fase, fare le cose per benino. No, “meglio” non direi. Penso che sia normale, si acquisiscono delle competenze. Ci sono cose che puoi fare solo con l’improvvisazione, come far venir fuori dei personaggi inattesi. Sono contento del libro, poi magari quando lo riguarderò tra qualche anno dirò «vabbè, però si sente che ci sono delle cose studiate alla base».

Le altre volte in cui finivi un fumetto ti sentivi così soddisfatto?

Mi sentivo stravolto, nauseato da tutto, completamente prosciugato e con manie autodistruttive. Mi ricordo che ai tempi di Cinquemila chilometri al secondo avevo ricominciato a ridisegnare tutto il primo capitolo perché c’era, e c’è, una forte incongruenza grafica. Daniel Pellegrino di Les éditions Atrabile – l’editore di Cinquemila chilometri al secondo – mi disse «sei completamente fuori strada. Sì, il disegno è più coerente ma ha perso di energia». Era vero. Poi magari in futuro sarà anche un limite, il fatto che sia stato così semplice. Però ogni tanto va bene anche così, mi dico.

Avevi paura di rifare Cinquemila chilometri al secondo?

È un libro un po’ simile, però no. Avevo capito fin dall’inizio che c’era una specie di affinità tra i due libri. Ma mi faceva piacere tornare in quell’umore, in quella grande semplicità della trama. Quando la trama si semplifica, il personaggio diventa più reale. Quando la trama si complica, i personaggi sono pedine in balia della storia. Guarda Il mondo di Edena, la trama è così ricca, tra cambi di universo e azione, che i personaggi sono dei segnaposto. Non lo dico in tono denigratorio, però per questo libro volevo ridurre al massimo la trama per tornare alla psicologia di personaggi. Il sequel di Cinquemila chilometri al secondo sarebbe stato il sogno di Igort, all’epoca…

Quindi alla fine aveva ragione lui.

Ma sì, aveva ragione su tante cose. Continuare in un solco già tracciato è una maniera di fare che ha molto senso, perché la gente deve capire chi sei e cosa vuoi dire. E anche tu lo devi capire, e magari lo capisci al terzo libro. Io forse ho una testa fatta strana. Se avessi dovuto fare un altro Cinquemila subito dopo Cinquemila mi sarei sparato, non avevo nessuna voglia. Faccio questo mestiere perché ho voglia di divertirmi, in maniera sostenibile, però voglio divertirmi.

In Hypericon parli di sfuggita di questa cosa. Il personaggio di Ruben si diletta con il disegno e a un certo punto dice che disegnare per lavoro toglierebbe tutto il divertimento.

Io la penso al contrario di Ruben. Ho sempre avuto paura che diventasse un passatempo, un hobby. Non avrei mai voluto che non fosse la cosa principale. In un certo senso è quasi penalizzante, perché in effetti io concepisco il disegno solo come lavoro. Non faccio mai una cosa così, perché mi gira. Penso sempre a dove piazzarla. E non è sempre corretto pensarla così, anzi. Magari col tempo imparerò.

Ho sempre pensato che il disegno dovesse diventare un’attività costante, quotidiana, che mi occupasse la gran parte della giornata. Certo, ogni tanto le cose iniziano a pesare, però quando le cose pesano vuol dire che bisogna cambiare qualcosa, perché non può essere un’attività pesante, deve essere un’attività gioiosa, divertente, che la mattina vai e dici «stamattina si disegna questo».

E quando passi il tempo a fare le dediche ai festival, in quel caso senti la fatica del disegno?

Può essere faticoso ogni tanto. Puoi cercare di variare il disegno però, più o meno, rimani su dei temi, o almeno io faccio così, non sono capace di partire da zero a ogni disegno. C’è qualcosa di interessante, nel disegnare centinaia di volte la stessa cosa. Fai degli scatti concettuali strani. Per esempio, codificare il disegno in un certo numero di tratti. Moebius, quando lo vedevi in dedica, faceva questo ritratto in undici tratti. C’è qualcosa di affascinante in quella roba lì.

Le dediche sono diventate davvero una branca parallela del disegno, perché prima non c’era la gente che ti chiedeva la dedica aspettandosi quasi una piccola performance, un exploit. E ci si condiziona l’uno con l’altro. Vedi un tuo collega fare delle dediche bellissime e pensi «aspetta che mi metto anch’io a fare una roba bella». Dovendoti ripetere, devi trovare un meccanismo per scavalcare la noia e imparare anche da quei momenti.

Tu ci sei riuscito?

Ci sono state due o tre occasioni in cui venivano fuori d’un tratto dei disegni belli, che non venivano fuori in studio, dove sei sempre controllato e torni indietro sui tuoi passi. È difficile riportare quell’esperienza in studio. Ci sono delle suggestioni particolari legate a quel tipo di disegno. Non sempre, eh. Ogni tanto.

Le due storie di Hypericon sono scandite in maniera diversa. La parte in Egitto è aperta, le vignette sono grandi, meravigliose, il ritmo è più lento. Quella a Berlino è più frammentata e veloce, e quando ci sono spazi grandi la sensazione non è mai di meraviglia ma di crisi.

È vero, non ci avevo fatto caso. Non so se hai notato, ma nella storia berlinese ci sono le cornici attorno alle vignette, nella parte egiziana no. Era tutto partito senza cornici, perché è da tanto che lavoro senza cornici. Sembra una cretinata da dire, in realtà è fondamentale nel fumetto. Soprattutto se lavori in bianco e nero, senza cornice il bianco della vignetta si spande ovunque e molte cose diventano illeggibili. Viceversa, se hai la cornice hai quasi bisogno di meno dettagli perché l’occhio si ferma. Quando hai il colore, in teoria, la cornice non servirebbe. Però, attraverso le prove che facevo, vedevo che la cornice nera dava una percezione da fotogramma cinematografico. E quando la toglievo era come se togliessi il tempo, e l’immagine sprofondasse in una realtà illustrativa che cancellava quella specie di ritmo incalzante che ha il fumetto.

Dato che comunque le due storie sono realizzate con la stessa tecnica, mi sembrava che togliere le cornici alla parte egiziana creasse una sospensione temporale, mentre a Berlino il tempo è scandito più fumettisticamente. Per il resto, Hypericon è classico nella scansione delle vignette perché volevo togliermi la complicazione di stare a pensare alle forme e tornare a un ritmo cadenzato, quello che io chiamo “metronomo”. Sono questioni quasi musicali.

Ti dà anche sicurezza perché non devi pensare alla composizione?

Quando ti concedi libertà di griglia, come in Celestia, ragioni in maniera diversa. Per esempio, se la mano di un personaggio sconfina nella vignetta accanto, puoi spostare quel limite, facendo diventare la vignetta accanto più stretta, e questo poi narrativamente avrà dei significati. Lì vince il disegno sulla composizione della tavola. In Hypericon vince la composizione della tavola sul disegno. Se la mano sfora la vignetta non vedi la mano, punto.

Lorenzo Mattotti, nella sua grandissima libertà rappresentativa, ha sempre tenuto un registro rigidissimo. Una delle prime cose che mi insegnò Mattotti fu di pensare alla vignetta come a una cinepresa: quello che sta fuori non si vede. Perché quando gli mostravo i miei primi fumetti ogni tanto i personaggi uscivano dalla vignetta. Si può fare, eh, ma lui voleva riportarmi a questo principio fondante di studiare le immagini in modo più cinematografico. Io non sono mai riuscito ad arrivare a una posizione finale su questo, ragiono di libro in libro.

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Qual è stata la pagina più difficile di questo libro?

Penso quelle in cui Carter entra dentro la tomba. Le ho rifatte due o tre volte, sono un collage di vignette da varie versioni… Quelle condizioni lì sono difficili da disegnare. E sono irrealistiche. Una candela che entra in un buco nel muro non illumina così tanto come si vede nel fumetto. Ma in una prima versione illuminava come un faro, quindi ho cercato una mediazione tra realtà e rappresentazione.

Lì ho cercato di spingere anche con la tecnica. Mi sono comprato un aerografo, vituperatissimo utensile che invece è fantastico. È uno strumento incredibile a saperlo usare. Io non lo so usare, ci ho fatto solo un po’ di aloni. È un altro tipo di pittura, è aeropittura, lavori con dell’aria colorata.

Vorresti studiare quella tecnica per farci altro?

Mi piacerebbe. Avevo anche una mezza idea di usarlo in altre cose. È un po’ brigoso, perché usarlo in studio, con questo motorino, non è piacevole per i miei colleghi. Però è bello, è molto sottovalutato. Io più vado avanti più scopro quanto senso abbia mettersi a sgangherare con un vecchio arnese come quello, in questo momento storico. Per il mio percorso, riscoprire queste tecniche fantasiose e piene di possibilità è molto bello. Se fossi un fotografo mi rimetterei a sviluppare i rullini.

I tuoi personaggi hanno sempre nomi peculiari. Quelli di Teresa e Ruben come li hai scelti?

I nomi sono sempre molto importanti. Teresa è un nome molto connotato. All’inizio doveva essere francese e avevo pensato a Odile, che è un po’ un omologo di Teresa: un nome da nonna. Sa un po’ di tappezzeria. Però per problemi di leggibilità non volevo mettere una terza lingua oltre al tedesco e all’italiano. Cercavo un nome per una ragazza da tende pesanti, perché in una ragazza giovane lo trovavo un po’ sexy questo contropiede. Mi era venuto in mente anche Mirella [ride].

Ruben invece non so come mi sia venuto fuori. Era il nome del fratello di una mia fidanzata ed ero sempre rimasto stupito da quel nome che sembra francese e invece è ebraico. Penso di averlo formalizzato quando entrano al cimitero ebraico. Ho pensato «no, allora mettiamogli un nome ebraico, così fanno questo gioco di scambi di parole in cui si capisce che lei può fare l’etimologia di qualsiasi parola e lui è un coglione che non sa neanche da dove venga il suo nome».

Però è quel genere di persona che ti affascina ed è pieno di contraddizioni. Fa il bohemien ma è spesato dai genitori.

Quando scrivi, inizi dividendo le cose un po’ grezzamente: uno è un punk, l’altra una secchiona. Però se rimani così, prima di tutto è difficile che colloquino, e poi diventa un po’ noioso, allora inizi a distorcerli. Lei è secchiona, ma fuma e se la prendi dal verso giusto si sa anche divertire. Lui è punk, ma coi soldi di papà e questo te lo rende meno integerrimo.

E invece il loro aspetto come l’hai trovato? Ruben sembra quasi un personaggio di Crepax.

Questo libro nasce in maniera molto diversa dagli altri, come ti dicevo. Avevo fatto un piccolo studio dei personaggi, che in genere non faccio. Questi studi valgono quello che valgono perché quando i personaggi iniziano a muoversi cambiano tantissime cose. E infatti lui all’inizio aveva i capelli lunghi, tipo i tuoi, solo che mi sembrava troppo dolce e troppo strano per gli anni Novanta. All’epoca l’iconografia era più dalle parti di Trainspotting, gente smunta coi capelli corti. Allora l’ho rapato.

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Teresa ha un naso caratteristico, Dora – tuo personaggio feticcio – pure. Altan quando disegna parte sempre dal naso, non so se per te sia uguale.

C’è qualcuno che ha detto che la parte più vera del viso è il naso. Gli occhi e la bocca mistificano, possono dire una bugia, il naso resta sempre quello. Nel fumetto i personaggi devono avere un certo livello di cartooning per poterli fare tuoi. Se il disegno corteggia troppo la fotografia senti che sconfina in un altro mondo. Il fumetto non ha sempre bisogno della resa naturalistica. E il naso è importante per delineare la silhouette. Forse per quello inconsciamente il disegno del naso è quello che fissa che sei arrivato al personaggio giusto.

Nel caso di Dora come l’avevi trovato, quel naso?

Avevo fatto due schizzi veloci e subito mi è venuta una fiammata di desiderio di disegnarla ancora. Quella è la potenza grandissima del disegno che sorpassa ogni ragionamento logico: un disegno soltanto contiene già tutto. Contiene delle storie, dei riferimenti, dei caratteri. È un altro tipo di pensiero quello che disegna e crea le immagini. Pensi attraversando dei canali che non sono quelli che attraversi per pensare a una storia.

Il disegno funziona disegnando, tirando delle cose che ti sembra che abbiano un certo bagliore e inseguendole, esattamente come quando cerchi di ricordare un sogno. Non sai dove vai quando disegni. Non puoi farlo sempre, ma devi farlo, col disegno, sennò tanto vale utilizzare un altro linguaggio. Devi avere fiducia nel disegno, devi avere fiducia che ti porterà da qualche parte dove avrà senso andare.

È bello il contrasto fisico tra i due: Teresa è ancorata a terra, nelle forme, mentre Ruben è più verticale.

Sì, è una coppia che fa un po’ ridere, anche se questo non mi spiaceva. Poi io in Teresa cercavo un personaggio sensuale, e nelle prove iniziali lei aveva una carica erotica molto forte che non so se sono riuscito a tenere. Quando vai avanti nella lavorazione ci sono tante cose da tenere assieme.

Però Hypericon resta un libro di sesso. È un aspetto che si è palesato da solo facendo interagire i personaggi?

No, l’avevo pensato dall’inizio. Volevo tanto sesso e mostrato in maniera esplicita. È stata anche una sfida per me. Quando disegni scene del genere, la prima volta ti sembra sempre di fare qualcosa di pornografico. Per vedere certe cose devi… metterti lì a guardarle, sennò non le vedi, sono zone anche nascoste. Non volevo suggerire, ma mostrare due persone che si conoscono. Sono giovani, scopano tutto il tempo e danno tutto.

Mi interessano queste finte distinzioni che si fanno tra erotismo e pornografia, le volevo proprio attraversare. Ci sono praterie narrative in cui puoi raccontare questo tema in modo diverso, anche comico. Bisogna pensare che il sesso faccia parte della vita e come tale ha sfaccettature diverse che possono essere raccontate in base alla situazione del momento. Come si cerca di fare con tutto il resto quando racconti, d’altronde.

Dentro Hypericon gli spunti autobiografici sono molti, seppur rielaborati. Lo senti come il libro in cui hai messo più cose della tua vita?

Sì, certamente. Insieme a Cinquemila chilometri al secondo è il più autobiografico. Anche per quello lo sento su un binario diverso rispetto a quelli de L’intervista e Celestia, che vanno in posti sconosciuti.

Hai avuto la tentazione, come in Celestia, di disegnare persone a te vicine? O magari te?

No. Fare un personaggio che mi assomiglia sarebbe stato molto rischioso. Non voglio che il lettore lo identifichi con me, sennò non funziona bene.

E in Celestia, dove alcuni personaggi sono basati su tuoi amici e famigliari, come mai avevi usato quei riferimenti?

Non so spiegarti. In qualche maniera, visuale o concettuale, tu devi essere connesso con questi personaggi di cui racconti le vicende. Per farti un esempio, Raniero de L’intervista l’avevo pensato come mio figlio nel futuro. Infatti a un certo punto dice «mio padre ha viaggiato l’Europa». Mi serviva ancorarlo, anagraficamente o spiritualmente, dato che non mi assomiglia, perché ti dà delle limitazioni, ti permette di trattare i personaggi come persone a cui tu tieni. Se io penso che Raniero è mio figlio, sarà durissima disegnare una scena in cui lo menano, o ha un incidente o in cui… è talmente dura che non riesco neanche a dirlo. E questo non vuol dire che il personaggio non possa fare tutto, ma devi sentire la roba. Devi sentire che soffre.

Quando tu eri a Berlino alla fine degli anni Novanta, come una delle prime generazioni Erasmus, come vedevi il futuro?

[lunga pausa] Allora, molto del futuro l’ho scoperto in effetti quando sono andato a Berlino, perché era una città che in quel momento rappresentava un’idea di futuro, mentre in Italia si sentiva un po’ meno questa cosa. Era una città in piena trasformazione, che si lasciava alle spalle un secolo dolorosissimo. Era stata l’epicentro del male e aveva fatto questo processo di elaborazione, diventando la città più antinazista di tutte. Una grande prova di autocritica da parte dei tedeschi.

Io andavo lì, come dicevi bene tu, come generazione Erasmus e viaggiare era diventato semplice, non serviva sapere la lingua, era più facile integrarsi. C’erano avvisaglie di un mondo che sarebbe cambiato: l’euro, tante speranze e tante illusioni. Si aveva la sensazione che qualcosa stesse sbocciando, ed era una sensazione che andava pari passo con la mia età anagrafica, i primi vent’anni. Era anche un’occasione per stare molto lontano dalla mia famiglia. Prendere una macchina e andare in Polonia senza dire niente a nessuno.

Forse fu il primo momento in cui mi feci un’idea molto entusiasmante e illusoria del futuro. A me il libro serviva anche a questo: mettere in chiaro per me, e per chi legge, che cosa voleva dire coltivare quelle ambizioni e vedere come sono andate le cose.

Rifacendo il libro ti è capitato di riguardare a quel periodo della tua vita dandogli un segno diverso?

Molte cose adesso le vedo come illusioni che però avevano diritto di esistere, perché senza illusioni non si va molto distanti, ma anche perché forse le cose potevano andare diversamente. Io guardo a quel periodo con molto trasporto, affetto e anche un po’ di amaro in bocca. È chiaro, certe cose si ridimensionano con il tempo però… anno dopo anno si sono ridimensionate di brutto. Non mi sarei mai aspettato un’inversione a u così drastica, ecco.

Nel raccontare la spedizione di Carter, qual è il dettaglio che ti ha sorpreso di più?

Che Tutankhamon fosse un faraone minore, citato pochissimo nei registri degli egiziani, che erano grandi catalogatori. Catalogavano di tutto, dagli schiavi catturati in battaglia alla quantità di grano raccolto. E infatti la cosa che mi ha lasciato senza parole è che questa tomba, l’unica non violata, conteneva una quantità d’oro mostruosa. E questo era uno dei più piccoli faraoni della storia d’Egitto! Pensa come erano quelli più noti. Molto del merito di questo racconto è il diario di Carter, che ha una grande qualità letteraria. Oltre allo scandire le fasi tecniche fa delle considerazioni che a volte ho ripreso pari pari. Ho rimaneggiato i testi dei diari ma non molto, mentre i dialoghi sono inventati.

Anche il mazzetto di iperico ritrovato sulla tomba è una tua invenzione?

Parzialmente. C’è un’analisi di questo mazzetto di fiori, c’erano foglioline d’ulivo e altri fiori, ma non c’è scritto da nessuna parte che c’era l’iperico. Però l’iperico lì era molto comune, veniva utilizzato anche per scacciare i demoni, perché è una pianta molto potente e legata a molte leggende in virtù delle sue capacità antidepressive e ipnotiche.

Quando tratti una storia reale la cambi a cuor leggero o ti preoccupi di attenerti ai fatti?

La storia in sé di Carter non aveva bisogno di niente di più che essere raccontata com’era per comunicare il suo grande fascino. Ho cercato di attenermi il più fedelmente possibile al diario. Cambio a cuor leggero perché penso di avere il diritto di farlo, poi sicuramente ci sarà qualcuno che mi segnalerà qualche errore. Soprattutto in Germania. I tedeschi mi fanno sempre le pulci. Quando ho fatto Le variazioni d’Orsay mi hanno tirato fuori errori che neanche i francesi avevano trovato.

Da spettatore o lettore, ti danno fastidio quegli errori?

Quando si parla d’Egitto, visto che ho un po’ di esperienza, quello che mi sembra superfluo è che si debba aggiungere roba a un mondo che è già fantascientifico di suo. La costruzione delle piramidi è ignota, non c’è ancora una teoria valida su come sono state costruite. Non riusciamo a capire la tecnologia di un uomo di tremila e passa anni fa. Quando Carter apre la porta noi pensiamo sempre di sapere tutto, ma quello che lui ci restituisce è che non capiva quello che stava vedendo.

C’erano oggetti che facevano parte di liturgie di cui non sappiamo nulla. Abbiamo la stessa distanza da questi uomini di quella che possiamo avere con un alieno. Non condividiamo lo stesso sistema di pensiero. Mi piaceva moltissimo questa distanza che Carter provava. Eppure questo mazzetto di fiori, ultimo regalo della regina, mi riallaccia a qualcosa di assolutamente comprensibile, come una sorta di ultimo tributo. Volevo mettere in gioco queste considerazioni con la storia del presente.

Ti ricordi la prima volta che hai sentito parlare di Carter?

Feci un corso all’università sulla rappresentazione nell’antico Egitto. Poi quando lavorai in Egitto con gli archeologi ebbi a che fare con cose islamiche più che faraoniche. Era un mestiere scientifico, e loro mi prendevano in giro perché chiedevo sempre «ma quando troviamo un tesoro?». Così un’archeologa mi regalò una biografia di Carter, e da allora sono sempre rimasto affascinato dal personaggio. Una volta andai a Luxor e visitai questo hotel lussuoso in cui c’era, sulla bacheca all’entrata, un facsimile della comunicazione che era stata data ai clienti dell’hotel la mattina della scoperta. È un evento che ha ancora presa sul pubblico.

Non hanno mai trovato nulla di eclatante quando eri lì?

Uno scheletro, dei reperti che per loro erano interessantissimi, perché ti permettono di datare certe cose, ma che non hanno alcun fascino per la gente comune. Poi ci sono anche quelli che trovano cose pazzesche, ma non sono tanti. Oltre a quella di Carter, ci fu un’altra scoperta importante, ma avvenne durante la Seconda guerra mondiale e passò un po’ sotto silenzio. Quella di Carter deflagrò nell’immaginario collettivo, prima di allora il fascino presso il pubblico per l’Egitto era scarso.

L’altro evento del libro che ha colpito l’immaginario collettivo è l’11 settembre. Tu come hai l’hai vissuto?

Ero a Berlino e la sera c’era un concerto dei Radiohead. Avevo anche strappato un manifesto che ho ancora in camera. Sul treno per andarci non c’era una persona che non avesse l’edizione speciale del giornale. La sensazione era che fosse un grande tornante storico. Mi sembrava che per Teresa quello fosse un momento in cui poteva lasciar uscire tutto il malessere interiore, dato che fuori non c’era nulla di cui lamentarsi. Lei si addormenta per quello.

Il male di vivere di chi è giovane è uscito fuori in quel momento. Penso sia la grande differenza tra la mia giovinezza e la tua. Voi avete delle ragioni concrete per essere presi male. Noi ne avevamo di meno concrete ma eravamo comunque presi male, perché alla fine un giovane, per essere giovane, deve essere preso male, secondo me.

Le due pagine in cui si vedono le Torri Gemelle fanno vibrare tutto il libro attorno, come eri arrivato all’idea di dedicarci quello spazio?

Quella era un’àncora importante della storia. Volevo che si capisse in che tempi siamo e che si capisse che succede un qualcosa che da un punto di vista storico e dell’immaginario che ha la stessa potenza dell’apertura della tomba. Infatti hanno quasi la stessa ampiezza narrativa. Nel libro le due tavole sono su un giropagina. C’è la prima esplosione e quando giri la pagina c’è la seconda. Quella è stata anche la cosa più sconvolgente.

Noi siamo andati a vedere la televisione che c’era già una torre in fiamme. E mentre la guardavamo in diretta anche l’altra torre veniva colpita. Ci sembrava di essere in un sogno. Mi piace che tu dica che il libro vibra in quel punto perché è un po’ così. Come l’apertura della tomba è un’apertura magica, quella delle torri è un’apertura verso un nuovo periodo, più tetro. Ho cercato di fare come i tuoni di Mattotti in Fuochi, cioè far sentire i rumori senza onomatopee. Ce le ho avute in testa da subito quelle due pagine.

Il rapporto con gli editor com’è nella fase creativa?

Dipende tanto da chi hai di fronte. Con Dargaud, che è l’editore che pubblica il libro in Francia e quello che me l’ha commissionato, essendo il primo libro per una casa editrice grande ti fai conoscere, ti chiedono molte garanzie, ti chiedono la sinossi, lo storyboard… Per culo l’avevo fatto, hai capito? È andata liscia da quel punto di vista. Poi c’è stato un po’ di tiramolla su alcune cose. La editor aveva dubbi sui dialoghi in tedesco, per cui ho tolto molto tedesco senza però togliere quella difficoltà, quel muro di incomprensibilità.

Fosse per me sarei integralista, però gli editor quando lo fanno leggere ai rappresentanti vogliono che abbiano l’idea più chiara possibile, dato che i rappresentanti non sono dei lettori attentissimi, per cui cercano di limare tutto. Poi, per dire, con Dargaud non puoi fare dieci pagine nere. Quando hanno visto le pagine bianche – che ho utilizzato per segnalare il passaggio del tempo – mi hanno detto che la narrazione si interrompeva. Allora gli devi dire che non volevi fare a tirar via. Lì c’è un salto temporale grosso e non volevo mettere didascalie.

Be’, i personaggi cambiano aspetto, penso si capisca che c’è stato un salto di qualche tipo.

Eh, ma sai Dargaud è quello di Lucky Luke, poi ha anche le linee pensate per un pubblico di nicchia, ma di base un grande editore come quello pretende certi standard di chiarezza narrativa. Anche perché, devo dargli atto, sono potenti e curano moltissimo i prodotti in fase di promozione. Ho preso parte a riunioni plenarie che mi hanno sconvolto per il grado di attenzione che hanno verso la comunicazione.

Ma è bello che ci sia tutta questa cura o è un peso perché poi ti senti in dovere di portare a casa il risultato a livello di vendite?

È la prima volta che lavoro in una macchina così grossa ed è affascinante vedere come funzionano certe cose. Certo, spero che il libro vada bene, però… io cerco di fare il meglio possibile, poi il resto è tutto imprevedibile. Io ho sempre lavorato volentieri con gli editori piccoli, perché ho sempre avuto paura che i grandi mi usassero come carne da macello. Con Delcourt, che aveva pubblicato La signorina Else, è stato così. Sanno che se scelgono me non faranno numeri stellari ma il libro andrà in positivo, e quindi sei l’ingranaggio nel meccanismo che fa andare la macchina.

Però questa cosa qui non è un buon ragionamento per me come autore. Se vado con un grande editore non è per essere schiacciato, ma perché c’è la possibilità di spingere il libro un po’ di più e ci sono delle condizioni lavorative migliori, in termini di anticipi anche. Con gli editori piccoli sei più libero ma devi fare tornare i conti in un’altra maniera perché, soprattutto nella fase di lavorazione, è dura starci dentro.

Non so se sia per il metodo di lavoro, ma mi sembra il tuo libro più commerciale, nel senso buono. Si incastra tutto ed è molto leggibile.

Sì, forse perché ho fatto lo storyboard. Penso di capire quello che dici, lo sento, non ha molte zone buie. Sono contento, è un libro che ho fatto con molta leggerezza. Però devo dirti che con questa pulizia nella struttura… Hypericon è finito. Celestia non è finito. Continuo a pensarci, continuo a pensare al suo seguito. Lo so che molti pensano che sia un’accozzaglia di roba, ma per me è un magma ancora in movimento, ha delle zone d’ombra affascinanti. Forse la cosa si lega a come nascono le idee.

Quando fai lo storyboard sistemi le cose in maniera logica, le ottimizzi. Quando lavori improvvisando crei dei mostri in cui le cose non sono mai completamente spiegate. È difficile, anche gratuita, per alcuni lettori, come operazione. Ma per me ha un fascino incredibile perché porta con sé un mondo che si può aprire, penetrare, illuminare, in continuazione. Hypericon è fatto e finito. Non voglio dire che sia meglio o peggio, ma non sono sicuro di volerne o poterne fare altri così. Mi piace l’idea di complicarmi la vita anche con cose più difficili da digerire.

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