
Quando James Joyce scrisse La veglia di Finnegan aveva in mente un lettore, affetto da un’insonnia cronica, tale da permettergli di leggere il libro in un ciclo infinito. Lo scrittore irlandese vagheggiava un dispositivo infernale in cui l’ultima frase era legata in maniera indissolubile alla prima, costringendo così l’ignaro e ideale lettore a perdersi nei meandri di un labirinto senza uscita.
Quasi un secolo dopo Frédéric Pajak completò la stesura del suo primo libro, L’immensa solitudine, una biografia romanzata dedicata a Nietzsche e Pavese. A tenere insieme i due profili c’erano la città di Torino e la condizione di orfani (condivisa dallo stesso Pajak). L’immensa solitudine diventava poi il banco di prova per affrontare un progetto più ampio, quello di un libro eterno, anch’esso pensato per non concludersi mai. Al momento questo progetto, dall’emblematico titolo di Manifesto incerto, consta di nove voluminosi volumi, che hanno fatto incetta di premi tra cui il Goncourt per la biografia nel 2019 con il capitolo dedicato a Emily Dickinson e Marina Tsvetaeva.
I suoi scritti in Italia sono stati pubblicati dall’editore L’orma, che ha curato l’edizione dei primi tre tomi di Manifesto incerto, dedicati alla figura di Walter Benjamin, attraverso un dispositivo “narrativo” in cui memoir, saggio illustrato, riflessioni al margine, critica sociale e biografia e autobiografia si mescolano in un qualcosa di totalmente inedito, mentre immagini e parole convivono fianco a fianco.
Pajak, di per sé una personalità discontinua e marginale, vessato da anni di povertà, ha passato anni alla ricerca di una voce attraverso cui raccontare le sue ossessioni senza dover ricorrere a una forma esclusiva o formalizzata. Ci tiene personalmente a far notare che Manifesto incerto non è un graphic novel, ma neanche un libro illustrato. Non usa strumenti convenzionali come quelli del fumetto – è assente qualsiasi sequenzialità tra le immagini, almeno in senso stretto – così come qualsiasi deriva didascalica che si basi su un semplice rimando diretto tra testo e immagini.

Osservando le illustrazioni di Pajak potrebbero venire in mente i woodcutter novelist del secolo scorso, artisti come Frans Masereel o Lynd Ward. Ma i loro wordless book o silent book si basano su una sequenzialità proto-fumettistica e usano le immagini come unico mezzo espressivo, esiliando così totalmente la parola. Pajak, invece, fa coesistere all’interno di un unico corpo parole e immagini. Il suo è il tentativo impossibile di mettere insieme due sistemi di segni all’interno dell’oggetto-libro senza dover necessariamente percorrere strade già battute, ma seguendo una logica poetica che fa delle citazioni dei «briganti ai bordi della strada» pronti a strappare «l’assenso all’ozioso viandante» (Walter Benjamin, Strada a senso unico).
Pajak mette in essere la fantasmagoria teorizzata dal Benjamin parigino dei I passages di Parigi, opera altrettanto infinita e totalizzante, in cui aforisma, lacerto, riflessione marginale ed eterogenea cercano di definire quella modernità già avviata a una prossimità liquida e cangiante, in cui gli aspetti più disparati, il basso e l’alto, l’antico e il moderno, il greve e il nobile convivono in un coacervo, che allude all’odierna strutturazione delle informazioni e del sapere multimediale, dove tutto è prossimo e lontano. La strategia è quella della collazione selvaggia delle citazioni più disparate, spesso prive di fonti – non vi è posto per la notazione oziosa dei saggi accademici – che costringono il lettore a uno scavo continuo, sia verticale che orizzontale, per comprendere il contesto di provenienza e il senso di marcia di questa strada a senso unico, ma continuamente errante.
Dalla nebbia emergono suoni e ombre: il racconto non è solo un flusso di parole, ma anche e soprattutto una evocazione. Lo spettro evocato è quello del filosofo Walter Benjamin, l’esule e l’apolide per antonomasia. Il primo volume ha, infatti, per titolo Con Walter Benjamin, sognatore sprofondato nel paesaggio, ed è proprio attraverso l’analisi di alcuni paesaggi, ormai cannibalizzati dalla furia del capitale che Pajak si mette sulle tracce del «piccolo Detlef», come lo chiamava scherzosamente Gretel Karplus, futura signora Adorno. L’autore franco-svizzero si focalizza su alcuni landscape: dalla Sicilia a Ibiza, passando per l’Italia fascista e la Francia nazionalista e antisemita, emerge un fil rouge emozionale, un rivivere lo spazio attraverso il tempo, un po’ come voleva il Dilthey della Critica della ragione storica.
Ma è solo con il secondo volume, Sotto il cielo di Parigi con Nadja, André Breton, Walter Benjamin, pubblicato nel 2021 in Italia, che il racconto entra nel vivo. Qui Benjamin diventa una “scusa” per parlare di Parigi, la grande protagonista silente del libro. È in questo momento che Pajak mostra la genealogia del suo manifesto letterario, legando così Manifesto incerto alla categoria degli iconotesti fotografici, ma rivendicando l’originalità e soprattutto la carica incendiaria. L’iconotesto si basa sulla commistione e sul rapporto tra due diverse modalità di lettura, incentrate non sull’incontro, come sarebbe logico pensare, ma – come ben sottolineato da William J.T. Mitchell – sul conflitto.

Il confine su cui vivono queste diverse modalità di rappresentare la realtà, attraverso da una parte – come voleva il buon Lessing, forse sbagliando – il tempo e dall’altra lo spazio, è caratterizzato, per l’appunto, da una storia di disarmonie. Queste acquistano una loro collocazione e dignità in seno alle avanguardie storiche e al linguaggio poetico, esso stesso territorio liminale e apolide. Basti pensare alla tradizione dei carmina figurata, in cui la parola si fa immagine. Sebbene vi sia prossimità tra queste forme, vi è anche una sostanziale distanza, poiché gli iconotesti chiedono al lettore due diverse competenze percettive e, di conseguenza, estetiche, quella relativa alla parola e quella propria delle immagini: due approcci cognitivi che non possono che confliggere, poiché si contendono lo nostra attenzione in uno spazio comune: quello rappresentato dalla pagina.
Su questo campo di battaglia, le immagini e le parole prendono posizione: ed è sostanzialmente quello che fa Pajak con il suo montaggio, un dispositivo poetico che cerca nel conflitto una via di mediazione e di pacificazione. In questo margine Pajak traccia la storia di un altro scontro che vede da una parte la Parigi mitizzata, patria di artisti e letterati, e dall’altra quella degli esclusi: Benjamin in primis. Non è un caso che nel secondo volume – in cui viene citato un altro grande sconfitto Ludwig Hohl e con lui la gente cacciata da Les Halles – vengano contrapposti André Breton e Walter Benjamin. Il primo, simbolo di una Ville Lumière indifferente e perbenista, il secondo di una città destinata a scomparire.
Pajak dedica un lungo capitolo a Nadja, quello che è da molti considerato il capolavoro di Breton. Un iconotesto – per l’appunto – dedicato a Léona Delcourt, in arte Nadja, personificazione per il poeta della stessa rivoluzione surrealista. Una breve storia d’amore la loro, consumata nel breve spazio di una decina di giorni, destinata al fallimento perché Nadja è “pazza”. Pajak, pur riconoscendo il merito a Breton di aver tracciato un sentiero, tuttavia svela l’inganno dietro un libro buono solo à épater le bourgeois. Nadja non è un libro sempre futuro, come voleva Blanchot, ma un libro che esaurisce il suo avvenire nelle lettere di Léona, morta a 38 anni in una clinica psichiatrica di Bailleul.
Breton resta al margine, trattato con distacco: da questo momento in poi Benjamin e Parigi diventano una cosa sola. L’incapacità del filosofo ebreo di trovare il proprio posto nel mondo tra i boulevard e i cafè, pieni di intellettuali ammaestrati e imborghesiti, diventa la cartina tornasole per parlare di una città che si concede di buon grado, senza inchini e cerimonie per quanti se lo possono permettere, ma che diventa colma di disperazione per coloro che sono stati ripudiati dalla vita.

Mentre seguiamo le elucubrazioni di Pajak, il nostro sguardo è chiamato a soffermarsi su una lunga galleria di sans papiers – il cui volto è volutamente celato dall’ombra – a cui si sostituisce gradualmente una teoria di cani e spaccati anonimi. Pajak cerca di ricucire questa frattura: mostra come Parigi debba tutto a Benjamin, che pur essendo stato rifiutato ha saputo decifrare più di tanti il mistero della città e della sua fantasmagoria. Nel marzo del 1938 – a un passo dalla guerra – Benjamin cercherà di ottenere la cittadinanza francese. Inutilmente. Il ministero della giustizia non risponderà mai alla richiesta e ai vari solleciti, anzi sarà la neghittosità di un impiegato a decretare anni dopo la morte del filosofo.
Il terzo volume – Ezra Pound chiuso in gabbia, la morte di Walter Benjamin – chiude il cerchio, tracciando la disfatta dell’Europa attraverso due storie tragiche. Da un lato il già noto Benjamin, dall’altro il poeta americano Ezra Pound, improbabile strumento della propaganda fascista. L’erudizione del poeta, una maschera per nascondere la sua forse probabile cialtroneria, si propaga in onde concentriche – come quelle delle emittenti radio da cui trasmetteva le sue invettive contro il futuro e l’usura – in opere infinite e destabilizzanti. I Cantos sono un’opera senza fine, costruita anch’essa sull’accumulo selvaggio di citazioni e frammenti. Irriso dai fascisti, ritenuto un pazzo dagli americani, Pound, il miglior fabbro come lo definì Eliot, è una figura sospesa e marginalizzata: chiuso in gabbia attende un’unica sorte, dichiararsi pazzo per sopravvivere alla Storia.
Tra le pieghe di una storia tragicomica, Pajak persegue il ritratto del letterato tedesco: Benjamin, ormai privo di sostegno, se non qualche lettera da parte degli accademici tedeschi fuggiti negli Stati Uniti, cerca di scappare ai gangli del Nazismo. La peste nera si propaga in Francia, e risultano inutili i tentativi di ottenere un visto per scappare da una Parigi ormai occupata dai tedeschi. La grande storia scorre sullo sfondo, mentre le vite dei poveri diavoli vengono affossate. Benjamin – con in valigia un manoscritto misterioso, più importante della stessa vita – si imbarca in un disperato viaggio sui Pirenei francesi. La burocrazia, da sempre acerrima nemica del filosofo, lo tratterà sul confine, mentre il suo cuore diventerà sempre più debole e, dinanzi all’ineluttabile, l’unica soluzione sarà il suicidio.
La ricostruzione di Pajak è minuziosa: segue il percorso di Benjamin e due suoi malcapitati compagni passo dopo passo, mostrando l’incomprensibile e tragico destino. Certo c’è una sottile rabbia nel racconto e, nel contempo, quasi un fastidio per l’inettitudine di Benjamin. Pajak affronta con dignità la storia dell’autore dell’Angelus Novus (di cui non accetta l’interpretazione), ma lo ritrae anche nelle sue fragilità e nella sua incapacità di non riuscire a essere mai padre, nella sua inconsistenza esistenziale, nella sua fatua inconcludenza.

Pajak usa le biografie come specchi: ci si riflette, cerca somiglianze, ma nota soprattutto differenze. In fondo, sono tutte storie di perdenti, scampati per miracolo all’oblio, grazie solo alla forza della scrittura. Benjamin pidocchioso e procrastinatore, Pound megalomane e sbandato. Sono figure che non si discostano dai sans papiers che affollano le illustrazioni di Pajak e che popolano le strade di Parigi. Tutto è destinato all’oblio, ci resta solo il testardo tentativo di fermare su carta il tempo, puntellando tutto con frammenti. Un tempo omogeneo e vuoto, dove i notabili sono altrettanto anonimi quanto l’ultimo degli esclusi.
I ritratti di Pajak sono atroci: dai cani ai gerarchi, dagli artisti ai ragazzi di vita il suo chiaroscuro è implacabile. Si respira quell’atmosfera claustrofobica che ha reso inconfondibile Thomas Ott. Sarà forse una caratteristica precipua e innata degli svizzeri, chissà. Oppure il tentativo di carpire il segreto di Edward Hopper. Per Pajak, sottrarre le immagini al tempo dell’informazione è affidarle a un altro tipo di tempo, un tempo sospeso, cioè quello della pittura e nello specifico la pittura di Hopper. Accantonata la dimensione “cinematografica”, quella che ci porta a voler necessariamente trovare un racconto in quelle immagini, abbiamo dinanzi un qualcosa che in realtà non si muove e non si muoverà mai. L’immobilità è la vertigine a cui ci chiama la pittura. Soprattutto la pittura di Hopper, un’arte che rappresenta la tristezza nella sua forma più sublime.
Pajak è consapevole che la parola è limitata: solo il tempo sospeso dell’immagine può salvare i sommersi. L’immagine è un tutto abbracciante che può fermare per un attimo il flusso ininterrotto del verbo, costringerci a soffermarci e guardare un istante che si fa tempo, a rendere manifesto ciò che è da sempre incerto.
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