Perché “Avatar” non è mai entrato nell’immaginario collettivo

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Pur essendo il film che hai incassato di più nella Storia del cinema, alla sua uscita Avatar non faceva parte di un franchise preesistente. Distribuito nel dicembre 2009, il blockbuster di James Cameron ci ha messo anni prima di diventare il punto di inizio di un sistema commerciale a cui però nessuno sembra granché interessato, con svariati sequel in fase di produzione, annunciati già nel 2010 ma rimandati in più occasioni. Della serie, troppo e troppo tardi.

Secondo Derek Johnson, professore e autore del libro Media Franchising, la caratteristica di un franchise non è quella della sua presenza su più fronti – cinema, tv, oggettistica e via dicendo – ma il suo sguardo verso il futuro e la sua capacità di produrre nuovi contenuti che sia in equilibrio fra familiarità e novità. In questo senso, fino a oggi, Avatar non ha generato un seguito importante di fan e non è stato mantenuto in vita attraverso altre produzioni o merchandising vario. Non è diventato un franchise, in pratica.

Da una parte, i produttori non l’hanno tenuto vivo, dall’altra il pubblico non ne ha mai sentito la mancanza. Già nel 2014 Forbes scriveva che Avatar era «immediamente svanito dal sentire comune, senza lasciare alcun segno sulla cultura pop». Il film, pur non privo di scene memorabili, non riesce a farsi ricordare per nient’altro che alcune, spettacolari, immagini. Negli anni, a parte gli sketch comici a ridosso dell’uscita del film, non sono nati tormentoni o meme, a eccezione fatta per il font a buon mercato del titolo.

Inoltre, per quanto immaginifica sia l’ambientazione del film – talmente ben realizzata da aver instillato in alcuni una depressione come causa dell’impossibilità di poter vivere in quel mondo – i luoghi di Pandora che vengono mostrati nel film sono pochi, e ancora meno sono i riferimenti ad altri spazi o gli indizi che il pianeta sia un’aerea piena di sorprese.

Cameron avrà anche scritto un tomo di 800 pagine con tutti gli elementi del mito avatariano, ma il film non cita altre tribù, altre culture o altri angoli che i fan possono esplorare con la loro immaginazione. Il worldbuilding è incredibilmente dettagliato e ragionato per quanto riguarda ciò che appare sullo schermo, ma sembra quasi che fuori dai margini dell’inquadratura non ci sia granché da scoprire.

Come racconta Jamie Lauren Keiles nel suo articolo per il New York Times in cui analizza i motivi della mancata creazione del franchise in questi anni, il vero discrimine nel successo del film è stata la sua capacità di farsi esperienza cinematografica vera e pulsante. Complice un 3D pensato per far sprofondare lo spettatore nell’inquadratura più che per spingere in fuori gli oggetti e i personaggi dallo schermo, Avatar ha creato un mondo in cui perdersi.

Cameron ha detto che la storia ha stimolato il pubblico nel subconscio. Il regista l’ha descritta come «una sensazione trasognante, un desiderio di voler essere in quello spazio. Che fosse la sensazione del volo, di libertà ed eccitazione, o quella di stare nella foresta dove riesci ad annusare la terra, era una dimensione sensoriale che scavava in profondità».

Una volta usciti dal cinema, la visione del film su altri supporti cambia totalmente, a dimostrazione di quanto forte, efficace e ben congegnato fosse il trucco di magia di Cameron. Emerge la semplicità discreta della storia, non proprio originale e piena di svolte prevedibili, la fattura opaca dei dialoghi, personaggi con nomi impronunciabili (ve ne ricordate almeno tre?) addosso a caratteri psicologici chiari ma profondi come pozzanghere. Narrativamente parlando, tutto corretto, ma niente di sorprendente o memorabile.

«Se Avatar ha una qualche eredità», scriveva Scott Mendelson su Forbes, «si tratta di normalizzare la pratica di distribuire blockbuster con una qualsiasi forma di 3D per giustificare il biglietto a prezzo maggiorato». Anche quella, comunque, è un’eredità che ha avuto vita intensa ma non molto longeva, dato che ci siamo stancati presto del 3D – del 3D posticcio, soprattutto, cioè la maggior parte. La grande vittoria di Avatar come franchise, almeno a giudicare dagli incassi del sequel, per ora buoni, è stata quindi quella di aver convinto gli spettatori a volere qualcosa che non avevano mai chiesto.

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