Per molti bambini e bambine inventare e disegnare storie è un’azione naturale e istintiva come respirare o dormire. È difficile conservare questa naturalezza quando si diventa adulti e si sceglie di disegnare per lavoro, eppure qualcuno ci riesce. Tra questi c’è sicuramente Chris Riddell.
Nato in Sudafrica, Riddell è un illustratore britannico che in vent’anni di attività ha realizzato oltre duecento libri illustrati per bambini e ragazzi e innumerevoli vignette satiriche per The Observer. Ha collezionato vari riconoscimenti per il suo lavoro (tra gli altri, è stato insignito con l’Order of the British Empire e ha ricevuto per ben tre volte la Kate Greenaway Medal) e ha anche fondato un’etichetta di autoproduzioni di nome Cycling Fish Books.
Chris Riddell ha inoltre lavorato su opere di autori come Neil Gaiman, Douglas Adams, J.K. Rowling e Paul Stewart, ha illustrato grandi classici della letteratura – tra cui Don Chisciotte e Alice nel Paese delle Meraviglie – e ha firmato diversi libri come autore unico, in particolare le serie Ottoline e Agata De Gotici. Le edizioni italiane dei suoi libri sono curate da Il Castoro. Ospite di Lucca Comics & Games 2022 – che gli ha anche dedicato una mostra a Palazzo Ducale – Chris Riddell ha riservato a Fumettologica ben due incontri, che sono però a malapena bastati a contenere la sua voglia di condividere ricordi buffi e riflessioni sul suo lavoro.
C’è una cosa che hai detto e che mi ha colpito tantissimo. Nell’intervista che introduce la tua mostra qui a Lucca a un certo punto dici «Disegno per vivere e per rilassarmi disegno». Quando hai cominciato a disegnare e che cosa significa disegnare per te? Davvero non ti stanchi mai? Disegnare 365 giorni l’anno, come suggerisci in un tuo libro, è possibile ed è fattibile?
Sono spesso stanco, ma mi stanco quando faccio le scale troppo di corsa o una corsetta sul tapis roulant. Disegnare non mi stanca. Disegno non solo per lavoro, ma anche quando ho finito di lavorare. Mi rilassa. È un privilegio fare qualcosa che ami per lavoro, non è così scontato, non è una cosa che capita a tutti. Cominciai a disegnare da piccolo, a quattro anni se non ricordo male, con dei pastelli a cera nello studio di mio padre. Era domenica, un pomeriggio piovoso, mi annoiavo e mi misi a disegnare sul muro. Quando mio padre tornò a casa ovviamente si arrabbiò molto.
A quel punto mia madre andò in una cartiera a prendere una risma di fogli di dimensioni enormi e la mise nel mio armadio dicendomi che se avevo voglia di disegnare dovevo farlo sui fogli e non sui muri. Visto che ero un perfezionista, se il disegno non veniva esattamente come volevo scartavo il foglio e ne prendevo un altro dall’armadio. Ero assolutamente sicuro che nell’armadio ci sarebbero stati altri fogli pronti per me. Anni dopo mia madre mi ha confessato che ogni volta prendeva i fogli che scartavo, ritagliava la parte disegnata e li rimetteva di nuovo nell’armadio. Quindi pian piano i fogli si rimpicciolivano, ma io non me ne accorgevo.
Adoro gli sketchbook, senza continuerei a perdere i fogli su cui disegno e scarabocchio, invece così tutti i miei appunti restano lì, ne ho sempre uno a portata di mano perché ho sempre qualcosa da appuntare e disegnare. Se non ne avessi uno sempre con me, inizierei di nuovo a disegnare sulle pareti.
Sei stato allievo di Raymond Briggs. Che ricordo hai di lui?
Sì, sono stato suo allievo. Quando Raymond venne a mancare scrissi una poesia dedicata a lui. Il ricordo più nitido che ho è legato al fatto che, da studente [della Brighton School of Art, n.d.r.], una volta a settimana andavo da Raymond per fargli revisionare il mio lavoro e i miei sketchbook e avere indicazioni e spunti, e lui chiaramente faceva commenti e osservazioni, e alla fine mi diceva «Marvellous! Marvellous!», facendomi sentire in grado di fare tutto quello che volevo.
Una volta arrivai un po’ in anticipo, prima di me c’era un altro allievo e a un certo punto sentii Raymond che diceva anche a lui «Marvellous! Marvellous!». La cosa non mi dispiacque, perché pensai che era solo un altro studente e che forse era una coincidenza. E poi mi resi conto che è questo che fa un grande insegnante: ti ispira e ti incoraggia a continuare quello che stai facendo. Raymond era così.
Ho anche un altro ricordo legato a Raymond. Una volta chiese a me e ad altri studenti di realizzare delle sculture in fibra di vetro che riproducevano alcuni suoi personaggi che avevano avuto un adattamento animato, nell’ambito di un evento di beneficenza pieno di gente. Feci la pensata di creare un cane per il suo Pupazzo di Neve. Volevo farlo tutto peloso, e così mi misi al lavoro anche se immaginavo sarebbe stata una cosa lunga.
Quando mi misi sotto la scultura per decorare la pancia del cane, con la schiena per terra proprio come un meccanico che ripara una macchina e ha molta gente intorno, mi resi conto che, quando sarebbe arrivato il momento di decorare la parte posteriore del cane, sarebbe stato parecchio imbarazzante. Allora trovai una soluzione brillante, disegnando al cane dei mutandoni e scrivendo sul didietro che non c’era niente di interessante da vedere. Sapevo che a Raymond sarebbe piaciuto.
Alice nel Paese delle Meraviglie, Don Chisciotte, Il Piccolo Principe: che cosa comporta mettere mano a classici che hanno già avuto innumerevoli, e spesso celebri, edizioni illustrate?
Gli illustratori vogliono lavorare su storie belle, e i classici sono tra le storie più belle. Non mi sento in competizione con chi lo ha fatto prima di me, piuttosto è come stare in un club in cui gli altri sono così gentili da farmi entrare perché sto facendo lo stesso lavoro che hanno fatto loro. Il primo classico che ho illustrato è stato Don Chisciotte, che lessi per la prima volta da studente. È un testo lungo e complesso, e Martin Jenkins ne ha creata una versione ridotta più facilmente comprensibile. Eppure io, proprio come Don Chisciotte, mi sono imbarcato in un’impresa folle, ossia illustrare ogni singolo episodio ed evento, e per questo ne è venuto fuori un tomo enorme. Ma sono sicuro che Don Chisciotte avrebbe apprezzato.
A proposito di Alice nel Paese delle Meraviglie, è una storia che ho sempre amato fin da quando ero piccolo. Prima ancora di imparare a leggere, conoscevo il libro per le illustrazioni di John Tenniel e mi esercitavo a disegnare copiando il suo Bianconiglio. Quando mi è stato chiesto di illustrare questa opera, lì per lì ero teso, ma a un certo punto ho cominciato a visualizzare questa esperienza come un invito al tè del Cappellaio Matto. Ho immaginato un tavolo lungo pieno di sedie, con in fondo Tenniel nel ruolo di Cappellaio Matto in quanto primo suo grande illustratore, e tutti gli altri artisti seduti a tavola – Arthur Rackham, Tove Janssen, Ralph Steadman – tutti seduti lì che mi accoglievano, perché ero l’ultimo arrivato, e mi offrivano pane e burro e una tazza di tè, dandomi il benvenuto. Tutto questo mi ha fatto sentire felice.
L’altra cosa che mi ha aiutato è stato trovare le foto originali di Alice Liddell, la prima destinataria della storia di Lewis Carroll, e quando l’ho vista ho pensato che era quella la Alice che volevo disegnare. Qui in fiera ho fatto una foto del cartellone con la mia illustrazione di Alice, e proprio lì accanto c’era una ragazza dello stand che aveva lo stesso taglio di capelli di Alice, esattamente come il tuo. Una pettinatura che non è da bambina vittoriana, ma da personaggio reale.
Per quanto riguarda Il Piccolo Principe, devo fare una confessione: non l’avevo mai letto, perché in realtà in Inghilterra non è un libro così comune. Conoscevo ovviamente la copertina originale del libro, ma non conoscevo la storia finché un mio amico attore non mi chiese di partecipare al suo spettacolo, facendo delle illustrazioni in tempo reale mentre lui recitava, in modo che i miei disegni venissero proiettati in contemporanea.
La storia mi è piaciuta così tanto che ho disegnato almeno 50 disegni in ogni replica. Ho pensato così di farne un’edizione illustrata, ma il problema era che nell’opera originale era stato lo stesso autore a realizzare le illustrazioni, e in questo caso mi sembrava di invadere il suo campo in modo poco rispettoso. Così ho immaginato di essere un osservatore che guarda l’autore mentre disegna i personaggi della storia, e questa è stata la chiave con cui mi sono approcciato al libro.
Hai lavorato con autori come Paul Stewart, Neil Gaiman e poi come autore unico nelle serie Ottoline e Agata De Gotici. Che differenza c’è tra illustrare libri altrui (di autori viventi, in questo caso) e libri scritti da te?
La più grande differenza sta nel fatto che nel primo caso ci sono due teste che collaborano, quella dello scrittore e quella dell’illustratore. Chi scrive mi presta le sue parole perché la mia immaginazione si metta al lavoro e dia una risposta visiva, e mi piace molto questo meccanismo.
Scrivo storie quando non riesco a trovare uno scrittore che scriva per me, perché a me basterebbe illustrare. Se Neil Gaiman, Paul Stewart e tutti gli altri mi dessero storie io non scriverei più. Ma visto che, com’è giusto che sia, sono impegnati a scrivere i propri libri, allora mi metto a scrivere anch’io, ma solo perché amo mettere insieme parole e immagini.
Tra i personaggi che hai inventato e disegnato, ce n’è uno che ti somiglia di più?
In effetti mi sono disegnato all’interno di uno dei miei libri [Agata De Gotici e il segreto del lupo, n.d.r.] con il nome di Christopher Riddle-of-the-Sphinx R.A., caricaturista di cani. Ma se mi chiedi quale personaggio mi somiglia di più… dunque, penso che sia, nella serie Ottoline, la Volpe Viola, che vive accanto alla spazzatura di Big City, e guida Ottoline in un tour della città per mostrarle cose cui la gente non fa caso. Forse sono come la Volpe Viola, forse anch’io mostro alle persone cose che altrimenti non vedrebbero.
Nel tuo lavoro non ti immergi soltanto in mondi immaginati, visto che attraverso le vignette di satira politica dell’Observer ti occupi anche di attualità. Perché il contatto costante con la realtà, per quanto poco edificante, è così importante per te?
Leggere quello che succede nel mondo mi fa sentire infastidito e arrabbiato, e disegnare mi fa stare meglio. Disegnare è una terapia per me. Dopo, mi sento meglio. Ovviamente, è bello creare e illustrare storie, ma a volte è utile visualizzare attraverso il disegno certe situazioni politiche e certi problemi, e rielaborarli attraverso metafore visive.
Ti va di raccontarci come lavori e quali strumenti usi?
Non uso mai computer o strumenti digitali, perché non saprei come usarli, forse un giorno qualcuno mi insegnerà. Uso qualsiasi cosa sia utile a scrivere su un foglio, una matita, una penna, un pennarello, un pennello. Dipende dal momento. L’importante è avere con me uno sketchbook.
Che opinione hai delle nuove generazioni di artisti, tra cui c’è anche tua figlia? Che consiglio daresti loro?
Il mio consiglio agli illustratori è di portarsi con sé sempre uno quaderno e disegnare sempre, ogni giorno, di getto, soltanto disegnare, senza scopo, e divertirsi. Disegnare sempre, senza mai fermarsi. Visto che sono grande e ingombrante, vorrei togliermi di mezzo, fare spazio alle giovani generazioni piene di entusiasmo. Sarebbe bello se guardassero al mio lavoro come io ho fatto con i miei predecessori, come una fonte di ispirazione.
Quali sono i tuoi programmi futuri? Pensi di lanciarti prima o poi in un progetto a fumetti?
L’altra sera, dopo una cena deliziosa, ho pensato che mi piacerebbe tanto diventare un illustratore italiano per stare in Italia. Il mio editore ha detto che ha una storia italiana che potrei illustrare, e in questo modo diventerei davvero un illustratore italiano. Sarebbe bellissimo! Mi piacerebbe certo disegnare anche un graphic novel, ma mi ci vorrebbe tanto tempo. Magari un giorno lo farò.
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