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FocusFumettoStoriaQuando l’Italia si innamorò dei manga: 30 anni di "Kappa Magazine"

Quando l’Italia si innamorò dei manga: 30 anni di “Kappa Magazine”

kappa magazine

Le passioni che ci animano da adolescenti a volte si spengono, altre volte sopravvivono all’età adulta e finiscono con il definire parte della nostra identità. In alcuni casi, quando sono condivise da tanti, contribuiscono a cementare una comunità che può perfino diventare transgenerazionale. Questo è accaduto in Italia – e non solo – con i manga.

Sono stati infatti lettori e lettrici giovanissimi a far sì che i manga conquistassero una fetta sempre più importante nel nostro immaginario: se gli adolescenti di oggi hanno reso la portata di questo fenomeno più visibile, portando in cima alle classifiche di vendita e in vetrina nelle librerie di catena i loro titoli preferiti, furono gli adolescenti degli anni Ottanta e Novanta i primi a volere fortissimamente i manga tra le loro letture, raccogliendosi attorno a una rivista, Kappa Magazine.

Fondata da quattro appassionati, poi divenuti tra i primi professionisti dell’editoria di manga, noti come i Kappa BoysAndrea Baricordi, Massimiliano De Giovanni, Andrea Pietroni e Barbara RossiKappa Magazine esordì in edicola nel 1992 diventando un punto di riferimento per lettori e lettrici, un’officina sperimentale per l’editoria italiana di manga e un pezzo importante della cultura del fumetto italiano.

Per celebrare i 30 anni dall’uscita del primo numero di Kappa Magazine, ne abbiamo riassunto la storia attingendo alla testimonianza diretta dei suoi fondatori (cui appartengono i virgolettati riportati nel corso dell’articolo).

I primi anni Novanta: solo anime, pochi manga

Se gli anime erano arrivati in tv nei programmi per ragazzi fin dalla fine degli anni Settanta – sia sulla Rai che sulle reti private – per i manga era tutta un’altra storia.

Nonostante il passaggio televisivo di certi personaggi rendesse appetibile la pubblicazione dei relativi fumetti, gli editori esitavano per vari motivi.

In primo luogo, molti ritenevano i manga «un prodotto secondario, derivativo, e quindi non degno di nota». Si ignorava, banalmente, che nella maggior parte dei casi erano gli anime adattamenti di manga preesistenti e a volte di qualità superiore al prodotto televisivo, e non viceversa. In secondo luogo, erano ancora brucianti le polemiche secondo cui i cartoni animati giapponesi fossero esteticamente brutti e diseducativi perché troppo violenti, discussioni che, pur condotte con argomentazioni dubbie e imprecise, avevano comunque portato alle reti televisive non pochi problemi.

Infine, tra gli editori italiani si avvertiva «il timore di sbagliare qualcosa, nelle scelte, nelle traduzioni, negli adattamenti, per cui ci si affidava a mercati ritenuti più esperti in materia, come quello americano e quello francese». In particolare, «era quasi d’obbligo passare attraverso l’americana Viz Comics, fondata da Shōgakukan e Shueisha». Questo faceva sì che le (poche) edizioni italiane di manga disponibili fossero adattamenti di seconda mano delle edizioni americane, con tutte le imprecisioni e gli errori che ne conseguivano.

Rivolgersi a Viz era del resto necessario anche per un’altra ragione: era accaduto che alcune reti locali italiane avessero trasmesso gli anime senza permesso e quindi senza corrispondere compensi agli aventi diritto, il che ovviamente rappresentava un precedente di scarsa serietà e credibilità degli italiani agli occhi agli editori giapponesi.

Becoming Kappa Boys

Come spesso è accaduto nella storia dei fenomeni editoriali, davanti ad addetti ai lavori impreparati c’era un pubblico ricettivo e curioso, composto da quei ragazzi e ragazze che avevano «assistito a migliaia di ore di anime televisivi a partire dagli anni Settanta, ben più di qualsiasi altro Paese al mondo». Tra questi c’erano anche i già citati Andrea Baricordi, Massimiliano De Giovanni, Andrea Pietroni e Barbara Rossi.

Appassionati di cartoni animati, i quattro avevano amici di penna giapponesi con cui scambiavano tramite lettera notizie e curiosità sui loro personaggi preferiti e sul Giappone. Questa passione comune li portò a realizzare delle fanzine, distribuite in fotocopia e redatte nel sottoscala di casa di Barbara, e soprattutto, a cercare un contatto diretto con gli editori giapponesi durante la Bologna Children’s Book Fair (uno dei principali appuntamenti annuali dedicati all’editoria per bambini e ragazzi).

I quattro presero a stazionare accanto allo stand di Kōdansha fino a farsi notare. L’editore – raccontano i Kappa Boys – «ci aveva concesso il permesso di promuovere le nostre fanzine presso il suo stand, e contemporaneamente noi davamo loro una mano a convincere gli editori occidentali a importare fumetti giapponesi in Europa». Proprio allo stand di Kōdansha, nel 1991, i quattro incontrarono il loro primo editore, Granata Press, con cui proseguirono il lavoro sulla loro fanzine semi-professionale, MangaZine, «la prima stampata in tipografia e con interventi di giornalisti e operatori del settore».

La collaborazione con Granata Press durò poco, e seguì il sodalizio, molto più lungo e proficuo, con Star Comics, che diede ai quattro molta più libertà e spazio di manovra: «all’epoca Star si occupava solo di supereroi Marvel, e in redazione non aveva nessuno che conoscesse il fumetto e l’animazione giapponese. Così portammo la nostra esperienza di appassionati e di operatori del settore già svezzati da Granata Press».

Per cementare i rapporti con Kōdansha, Baricordi, De Giovanni, Pietroni e Rossi fecero un viaggio in Giappone, dove tra le altre cose visitarono la sede della casa editrice che era «una delle poche, all’epoca, a essere attiva in prima persona nel tentativo di pubblicare i propri autori in Occidente». A colpire gli editori giapponesi fu la preparazione del gruppo ma anche il loro sincero entusiasmo. I Kappa ricordano infatti che «oltre a lunghe riunioni tecniche presso le loro redazioni, quello che (non dichiaratamente) li convinse davvero a lasciarci provare furono i dopocena trascorsi con i loro direttori di testata e redattori nei karaoke di Tokyo, in cui davamo sfoggio, più che delle nostre discutibili abilità canore, di amare veramente sia il Giappone reale, sia quello della finzione, cantando insieme a loro le sigle di anime sia recenti che storici».

Così, dall’incontro fra i quattro, Kōdansha e Star Comics nacque il progetto Kappa Magazine, che prese questo nome dallo yokai del folklore giapponese ma che nell’iniziale voleva essere un omaggio a “mamma Kōdansha”. Da qui in poi, Baricordi, De Giovanni, Pietroni e Rossi presero a firmarsi collettivamente come Kappa Boys. Inutile dire che il buon rapporto instaurato con Kōdansha presto convinse anche gli altri editori, inizialmente restii, ad affidare i loro titoli ai quattro.

Sfogliando Kappa Magazine

Kappa Magazine era strutturata in modo da alternare contenuti redazionali a manga pubblicati a puntate. La parte informativa più corposa si trovava al centro della rivista ed era fatta di pagine a colori, si intitolava Anime e riportava tutte le novità dal Giappone legate ad anime, manga e videogiochi. «Inserire rubriche, e non solo articoli, era forse la cosa più necessaria di tutte – raccontano i Kappa – perché in quel periodo il pensiero comune sul Giappone era ancora intriso di preconcetti, convinzioni erronee e vecchi stereotipi: scrivere di tutto quello che riguardava il Sol Levante, senza concentrarsi solo e unicamente sulla fiction, permise una migliore comprensione di tutto ciò che lo riguardava. Fu davvero una piccola rivoluzione culturale, se pensiamo che all’epoca in Italia il Giappone veniva citato quasi esclusivamente parlando di samurai, motociclette, esplosioni atomiche, Godzilla, karate e Akira Kurosawa, e nella maggior parte dei casi a sproposito».

Nella sezione Anime trovavano spesso posto interviste ad autori e registi giapponesi, ottenute grazie al contatto diretto con gli editori e le produzioni. Si trattava in molti casi di vere e proprie notizie in esclusiva e in anteprima assoluta, e inoltre «era la prima volta che gli autori giapponesi potevano parlare del proprio lavoro, senza il filtro stupidaggini inventate dai media dell’epoca. Anzi, spesso smentendole con garbo tutto nipponico».

Le rubriche di approfondimento, pensate come fonte di informazioni per lettori e lettrici, furono anche un utile strumento per ribattere ai pregiudizi negativi che pesavano su manga e anime, preconcetti dettati dall’ignoranza «nel senso più stretto e letterale del termine: la maggior parte dei nostri connazionali ignorava di cosa si trattasse, e a causa di servizi giornalistici para-scandalistici e di editori con pochi scrupoli, si era diffusa l’opinione che ‘manga’ significasse ‘fumetto erotico giapponese’. Attraverso l’apparato redazionale potevamo spiegare questo universo semisconosciuto e portare alla luce gli aspetti artistici di una produzione fumettistica ottusamente snobbata per decenni a causa di pregiudizi ridicoli. E questo dava la possibilità ai giornalisti (quelli seri, quelli che si documentano) di avere una fonte di informazioni seria per controbattere alle dicerie, anche sui principali quotidiani e all’interno dei programmi televisivi».

I manga di Kappa Magazine

L’obiettivo dei curatori di Kappa Magazine era quello di pubblicare titoli che riuscissero a rispecchiare il mondo dei manga nella sua varietà, per chiarire che «il manga non è un genere, ma semplicemente il fumetto di un altro paese, il quale a sua volta conteneva un’infinità di generi».

Come affermano orgogliosamente i Kappa, «sulle pagine di Kappa Magazine è davvero apparso l’universo manga in ogni sua forma» attraverso un centinaio di serie che spaziavano dai target più diversi, dal seinen allo shojo allo shonen. Tra queste, le più notevoli furono: Ghost in the Shell di Masamune Shirow (per l’occasione ribattezzato Squadra speciale Ghost), che stando ai curatori ebbe il maggior impatto sul pubblico italiano sia per l’ambientazione, sia per la qualità con cui era scritto e disegnato; Oh mia dea! di Kōsuke Fujishima, commedia romantica particolarmente longeva; 3×3 Occhi di Yuzo Takada, un corposo intreccio fantasy con elementi dark; Narutaru di Mohiro Kitō, che mescola una trama avventurosa con il racconto di drammi personali; SteamBoy, il capolavoro dell’estetica steampunk firmato dal regista dell’omonimo film, Katsuhiro Otomo; Genshiken – Otaku Club di Shimoku Kio, emblematica perché «capace di spiegare agli stessi appassionati di manga e anime chi fossero, ponendoli davanti a uno specchio virtuale insieme alle loro controparti del Sol Levante».

Una menzione a parte merita Lupin III – Alis Plaudo, disegnato da Monkey Punch su sceneggiatura degli stessi Kappa Boys, one-shot da cui poi nacque l’idea della serie Lupin III Millennium, caso se non unico comunque rarissimo di serie manga realizzata tra Italia e Giappone.

Kappa Magazine aprì inoltre la strada alle pubblicazioni in volume di Star Comics, che fino al 2008 sarebbero state curate dagli stessi Kappa. Fu proprio con uno di questi titoli, l’edizione in volume di Dragon Ball del 1995, che si scelse per la prima volta di pubblicare i manga nel senso di lettura originale da destra a sinistra, contro la tendenza consolidata di ribaltare le immagini in modo da rendere possibile il senso di lettura occidentale.

Le ragioni per cui anche su Kappa Magazine si era optato per la riproduzione ribaltata dei manga, in apparente contraddizione con la ricercata fedeltà alle edizioni originali, erano dettate dal buonsenso. «All’epoca era già difficile far accettare al pubblico generalista i manga in generale – per i numerosi pregiudizi di cui sopra – e ogni nostro sforzo era rivolto ad abbattere questa barriera culturale. Il pubblico tradizionalista già non si trovava a suo agio con lo stile di disegno, le onomatopee, le dinamiche tra i personaggi, la cultura di un paese considerato ‘alieno’, e perfino con la forma delle vignette, estremamente irregolari rispetto a quelle del fumetto occidentale. Se già solo questi elementi creavano un gap tra il manga e i possibili fruitori, basti pensare a cosa avrebbe potuto causare la lettura invertita».

Il successo di Dragon Ball, che secondo i Kappa rappresenta un record di vendite tuttora imbattuto ancora oggi, avrebbe poi normalizzato la scelta di riprodurre il senso di lettura originale sui manga. Nei primi anni Duemila questo cambiamento arrivò anche su Kappa Magazine, che sfoggiò due copertine, una per i manga che si leggevano alla giapponese, una sul lato all’occidentale, per le pagine redazionali che si leggevano normalmente.

Un pubblico sempre più preparato

Attraverso gli editoriali – e in particolare la rubrica della posta – emerge un ritratto abbastanza fedele del pubblico di manga di quegli anni: curioso ed esigente, puntiglioso e a volte saccente. Ma soprattutto, un pubblico in grado di migliorare e imparare in fretta, se si considera la differenza tra l’incontro con Go Nagai a Lucca Comics del 1992 (raccontato proprio in un infuocato editoriale della rivista) davanti a una platea sparuta, impreparata e disinteressata, e invece, solo due anni dopo, quello con Monkey Punch: «un entusiasmo simile non si era mai visto, e folle di lettori arrivarono da tutta Italia per invadere le fiere del fumetto di Treviso, Lucca e Roma per conoscerlo, fargli domande, chiedergli autografi, dediche e disegnini».

Grazie alle informazioni reperibili su Kappa Magazine, lettori e lettrici di manga potevano raggiungere una preparazione paragonabile a quella dei «fandom che fino a quel momento erano considerati i più informati e aggiornati, come per esempio quello dei supereroi americani Marvel e DC, o quello delle saghe di fantascienza come Star Trek e Star Wars», acquisendo col tempo la stessa dignità e rispetto nella comunità del fumetto.

L’eredità della rivista

Con all’attivo 173 numeri e diversi speciali, Kappa Magazine cessò la pubblicazione nel 2006. Le ragioni della chiusura sono varie e diverse, e si individuano soprattutto nell’avvento di Internet, con la conseguente reperibilità di notizie che prima potevano passare soltanto attraverso la rivista cartacea. L’esperienza di Kappa Magazine ha però impresso un cambiamento tanto positivo quanto irreversibile.

Conclusa la collaborazione con Star Comics, i Kappa hanno continuato il loro lavoro creando una propria etichetta editoriale, Kappalab, dedicata a libri di approfondimento su anime e manga. I criterio di fedeltà agli originali giapponesi definiti dalla rivista e dai suoi curatori sono diventati uno standard cui ormai sono tenuti ad attenersi tutti gli editori di manga, mentre testate specializzate in fumetti e manga non mancano mai di articoli di approfondimento su titoli, autori e sulla cultura di manga e anime.

Infine, stando ai commenti che sulla pagina di Kappalab si leggono sotto il post che festeggiava i trent’anni dalla prima uscita di Kappa Magazine, gli ex lettori e lettrici della rivista le hanno riservato un posto speciale tra i ricordi di gioventù. E in fin dei conti hanno ragione: Kappa Magazine resta una fotografia preziosa di quella battagliera stagione in cui il manga conquistò per la prima volta il pubblico italiano.

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