di Valentino de Mattia*

Ben consapevole che i giudizi, come le verità, sono comunque sempre soggettivi, non abbiamo nessun pudore a confessare che consideriamo il graphic novel Violette di marzo edito da Oblomov il più divertente fra quelli degli ultimi anni e forse anche il più bello. È la trasposizione a fumetti del primo dei tre romanzi costituenti la Trilogia berlinese, considerata il capolavoro di Philip Kerr, lo scrittore di origini scozzesi divenuto celebre per i suoi thriller di ambientazione storica. Da questo volume, di per sé autonomo, ha tratto la sceneggiatura omonima Pierre Boisserie, già noto autore di una settantina di storie avventurose realistiche.
Al disegno ci ha pensato François Warzala, grafico e illustratore ma anche valente fumettista, che lo ha illustrato ispirandosi allo stile “linea chiara”. Ne ha variato la natura del tratto, da lui rivisto e attualizzato, rendendolo così più moderno, ma adottandone comunque gli stilemi corrispondenti: il tipico disegno a tinte piatte privo di ombreggiature, le fisionomie realistico-caricaturali al limite del grottesco, gli occhi ridotti a un puntolino peraltro espressivo e altri particolari caratteristici, come lo scarabocchietto riccioluto per indicare la velocità delle auto, le goccioline stillanti attorno ai volti a indicare imbarazzo o meraviglia e così via. Sono soprattutto queste, le caratteristiche per cui Violette di marzo si può considerare bello (e secondo noi, molto).
Quanto invece al suo aspetto divertente, il racconto è tutto uno scoppiettare di battute, fin dalle prime pagine. Per esempio: «Herr Gunther, lei di che tipo di casi si occupa?», chiede un militare tutto casa e partito, e lui risponde spavaldo: «Di questi tempi lavoro molto sulle sparizioni, in forte aumento da quando i nazionalsocialisti sono saliti al potere» e così lungo tutto il volume, dove non le risparmia a nessuno. Fino alle ultimissime pagine, con battute magari di humour noir: «Che è successo a suo marito Johannes?», chiede alla propria ex segretaria, recente vedova di un aviatore tedesco partito per la Spagna in appoggio ai legionari di Franco. «So solo – risponde lei – che è rimasto ucciso durante un raid a Madrid. Tutto ciò che ho ricevuto dal Reich è stato un messaggio: “Suo marito è morto per l’onore della Germania”».
Occorre però non lasciarsi ingannare dalle battute… Non si tratta, beninteso, di un romanzo umoristico, bensì di una storia drammatica sulla condizione, nel 1936, della Germania ormai sottomessa al tallone di ferro della dittatura hitleriana del tempo, che aveva definitivamente impaniato il Paese mettendolo in catene.
La vicenda prende avvio quando Hermann Six, un miliardario della siderurgia, ingaggia il protagonista Bernie Gunther – ora detective privato, dopo l’abbandono dell’attività di ”sbirro” della Kripo, la polizia criminale del Terzo Reich – per indagare sull’omicidio della propria figlia e del marito, poveri corpi carbonizzati nella propria casa distrutta da un incendio. Ma avendo dei proiettili in corpo, è chiaro trattarsi di un doppio omicidio, non di un incidente. La cassaforte è stata svuotata dai gioielli senza scassinarla, il che allude a una problematica stranezza. Il genero era un fanatico funzionario dell’egemone partito nazionalsocialista e presumibilmente coinvolto nei relativi intrallazzi, non del tutto trasparenti, dei quali Six era in qualche modo a conoscenza.
Con tutta evidenza è un “caso” nient’affatto chiaro, ma è anche un’indagine canonica, dove la trama dimostra subito un altro dei suoi aspetti divertenti, in quanto Kerr ha creato formalmente, con Gunther, uno degli emuli del Philip Marlowe di Raymond Chandler. «Tutto quel che le chiedo – gli dice Six affidandogli l’indagine – è ritrovare quei gioielli. Non si immischi nelle mie faccende famigliari. La pagherò qualunque sia il suo prezzo»; «Settanta marchi al giorno, più i rimborsi» è la secca risposta, in perfetto stile Marlowe. «Bene», ribatterà il magnate. «Per di più, se ritroverà i gioielli, la compagnia assicurativa Germania la ricompenserà con il 5% del loro valore». Professionalmente, sembra un’ottima occasione, ma proprio quell’invito di Six a non ficcare il naso negli affari di famiglia metterà a Gunther la proverbiale pulce nell’orecchio, nell’intuire che qualcosa, nell’insieme, non quadra.
Il protagonista inizia così l’indagine, mettendosi di buona lena a interrogare conoscenti e amici della coppia (perché «la delazione, come la costruzione delle autostrade, era diventata una delle attività più fiorenti della nuova Germania») e a interpellare i propri informatori, a cominciare da un amico giornalista che lo invia dal perito settore incaricato dell’autopsia dei cadaveri. Qui, di fronte al lugubre spettacolo della foto dei due, carbonizzati sulle reti riarse del letto, interviene la solita ironia di Kerr, che fa dire al perito: «Come può constatare, sembrano due carbonai, sono riuscito a identificarli soltanto grazie alle fedi», cui fa eco l’irridente cinismo sarcastico di Gunther: «Come due salsicce dimenticate sulla griglia…».
La sua indagine si rivela dunque fin dall’inizio un viaggio nell’inferno hitleriano: un ginepraio di corruzioni incrociate, dove gli alti papaveri della finanza si servono di bande organizzate, sostanzialmente protette da organismi polizieschi che hanno occhi e spie ovunque; e politici di alto livello (coinvolti perfino Göbbels e Himmler) che si rivelano collusi con la malavita organizzata e via di questo passo. Un Paese intriso di corruzione, che coinvolge i gangli finanziari e politici senza soluzione di continuità fra il potere degli uni e degli altri.
Paese dove peraltro nessuno si salva perché, secondo Gunther, nella sua indifferenza la popolazione è implicitamente complice: «Ecco cos’era diventata Berlino: una gigantesca casa stregata piena di recessi bui, che terrorizzava i suoi abitanti al punto da fargli venir voglia di abbandonarla». Una capitale della quale poco prima lui stesso pensava: «Un tempo adoravo questa città, prima che cominciasse a stringersi nei rigidi corsetti che la soffocavano», ma ora è costretto a continuare la sua schifata constatazione: «Eppure la maggior parte di loro si accontentava di tapparsi le orecchie, chiudere gli occhi e fare come se fosse tutto a posto».

Oltretutto, in questa mefitica atmosfera l’autore fa incontrare Gunther con una confidente sugli spalti anonimi dello stadio durante le Olimpiadi, facendo passare il messaggio in filigrana del grave affaire storico per cui, quando la corsa viene vinta da Jesse Owens, il Führer s’incazza di brutto e abbandona lo stadio, per il fatto che il vincitore sia nientemeno che un nero, un atleta che il Nazismo considera appartenente a una “razza” inferiore, essendo non “ariana”. Fatto sottolineato dall’esplicito commento di Gunther: «Vedendo con quanta grazia accelerava il Negro, ridicolizzando in un colpo solo tutte quelle stupide teorie sulla superiorità ariana, mi dissi che Owens non era altro che un Uomo».
Con ciò, viene sbertucciato anche lo spirito razzista di quella Germania, che Kerr fa trapelare anche attraverso varie osservazioni messe chiaramente in mostra, ossia tutte le devianze cultural-sociali del regime: «La nuova criminalità… come parlare in modo irrispettoso del Führer, omettere il saluto hitleriano, indulgere nell’omosessualità». E più oltre: «Tutto per via di una pretesa impurità razziale, dal momento che gli zingari fanno a gara d’impopolarità con gli ebrei». Dettaglio, questo, sullo spirito profondamente anti-ebraico del Paese… argomenti affrontati da Gunther nel successivo volume della trilogia, dove siamo sulla soglia del gran brutto momento, quando ormai incombe sugli ebrei la famigerata “Notte dei cristalli”, preludio – come sappiamo a posteriori – dello sterminio di milioni di esseri umani.
Il corso delle indagini – durante le quali l’investigatore troverà assassinati alcuni dei testimoni che avrebbe voluto interrogare – rivela una inestricabile rete di complicità criminali, non solo immanente ma ormai insopprimibile, praticamente ineliminabile, grazie al fitto groviglio di correità; omertose connivenze fra vere e proprie organizzazioni criminali (nel romanzo è citata la rete Forza tedesca) ed emissari al soldo dei politici, entrature in grado di condizionare la vita del Paese. In sostanza, Gunther si trova di fronte a un ginepraio ben più fitto di quanto immaginasse, dove è necessario muoversi coi piedi di piombo perché ogni passo può finire in una tagliola letteralmente mortale.
In effetti, il protagonista non si sente per niente adatto a far l’eroe a tutti i costi. Verso la conclusione dell’episodio, nonostante il disprezzo per l’odiata Gestapo, accetta alla fine di farne parte per qualche mese. Ma è godibilissima la sequenza dialettica di questa apparente contraddizione: il fatto avviene nel corso di varie vignette, mentre Gunther è prigioniero di un alto ufficiale dell’organizzazione, al cui invito «Ha mai pensato di entrare nella Gestapo?» segue la tagliente risposta: «È da un po’ che non mi lavo, ma non credo di puzzare così tanto, o no?». «Ma deve sapere – insisterà poi l’ufficiale, conoscendo il valore del soggetto – che si tratta di un’operazione segreta che riguarda solo e soltanto la Gestapo. Di cui lei potrebbe far parte»; «Sono un investigatore privato e tale voglio rimanere» è la laconica, rischiosa risposta; «Come può constatare di tutti gli attori di questo spiacevole incidente lei è l’unico superstite» si ostinerà in seguito ancora il graduato, non senza una larvata, allusiva minaccia, proseguendo: «il che potrebbe forse farle rivalutare la sua decisione, che vale esattamente 40.000 marchi».
E allora, di fronte alla prospettiva di essere decapitato (cosa avrebbe mai fatto Marlowe? O quel bastian contrario di Montalbano?), niente eroismi per Gunther: bisogna pur vivere, vada per la Gestapo. Con lo spirito indomito di qualche vignetta prima, quando – disfatto – aveva affrontato l’interrogatorio e alla domanda: «Gradisce qualcosa da bere?», «Champagne, se possibile» era la surreale risposta; «Abbiamo solo dello schnapps» (né più né meno che un banale spritz), era la burocratica, paziente constatazione dell’ufficiale: e allora «ce lo faremo andar bene», è ancora la sarcastica accondiscendenza di Gunther. Una scelta di… filosofia possibilista: piuttosto che lasciarci la pelle, avendo come eventuale compenso (o anche no) un’anonima medaglia, meglio rimanere vivi ingoiando un contraddittorio tradimento alla coerenza dei propri princìpi, in attesa di una eventuale revanche.
Attraversando l’immenso lago melmoso della Germania di quel tempo, fra agganci in alto loco e non senza qualche pesante batosta, Gunther giunge bensì a risolvere a modo suo il complicatissimo “caso”, coerente specchio di un Paese socialmente inquinato fino all’osso, ma lasciando a noi lettori un ritratto drammatico e impietoso. Che è il vero valore del graphic novel e che lo rende autentico quanto un sostanziale saggio politico-sociale: perché è più facilmente assimilabile dal lettore il messaggio sulla Germania hitleriana la quale, sotto la sua patina di ordine e decoro, nascondeva sentieri sotterranei disseminati di depravazione.
Trilogia berlinese: Violette di marzo
di Philip Kerr, Pierre Boisserie e François Warzala
traduzione di Stefano A. Cresti
Oblomov Edizioni, maggio 2022
Brossurato, 144 pp. a colori
€ 20,00 (acquista online)
*La versione originale di questo articolo è disponibile sul mensile Fumo di China 325, ora in edicola, fumetteria e online.
Leggi anche:
Entra nel canale WhatsApp di Fumettologica, clicca qui. O seguici su Telegram, Instagram, Facebook e Twitter.