
Novembre 2012. Rihanna, ospite del Saturday Night Live, si esibisce presentando il suo nuovo singolo Diamonds. La performance viene arricchita da una serie di terrificanti visuals in una grafica 3D primordiale. La paletta cromatica è sospesa tra turchese, verde, viola e ciano. Dietro la cantante vediamo frattali, palme rese in digitale, delfini, diamanti, spiagge e le immancabili colonne in marmo che fanno tanto vaporware.
Si trattava di uno spettacolo avvilente, un goffo tentativo di portare in scena quella che voleva essere venduta come un’avanguardia pescata dagli anfratti del web. Dopotutto, neanche quattro anni dopo, Rihanna si sarebbe presentata sul palco del VMA sfoggiando un logo death metal (a cui avevano lavorato due leggende come Christophe Szpajdel e Blssnd, quest’ultimo passato dai meandri del black a Dorian Electra, Rina Sawayama e Grimes). Il tutto senza porsi il minimo dubbio se quel tipo di cultura significasse qualcosa per qualcuno.
Rimane il fatto che quel dedalo di kitsch color acquamarina sparato in faccia ai telespettatori statunitensi si prestava abbastanza bene per costruirci gli immancabili articoli sulle testate che contano e per vendere prodotti altrimenti destinati al fondo di qualche magazzino. Il seapunk ebbe così il suo massimo momento di gloria. Nonostante si trattasse di una sotto-sotto-cultura nata su Tumblr solo l’anno prima, eccola arrivare sul grande palco del mainstream, deflagrare nel solito profluvio di opinioni non richieste e gallerie fotografiche e, inevitabilmente, scomparire per sempre nei meandri dell’oblio del web.
Mentre i prime-movers non avevano ancora smaltito la rabbia di essere stati derubati del loro piccolo mondo da un’artista con un’esposizione globale, questa aveva accelerato in maniera irreversibile la putrefazione di un’estetica destinata già di per sé a invecchiare piuttosto rapidamente. Poco importa, perché questo è il ciclo vitale medio di quello che viene definito microtrend.
Molto probabilmente anche prima di questo caso specifico c’era stata una marea di minuscole mode destinate a implodere su loro stesse nel giro di qualche settimana, ma personalmente questo è il caso più remoto che io ricordi di totale discrepanza tra spazio occupato nell’infosfera ed effettiva qualità del soggetto in questione. Diciamolo chiaramente: il seapunk faceva schifo e non meritava una minima parte dell’attenzione che gli fu data, anche se solo per pochi giorni, all’epoca.
Con il passare del tempo le cose non sono che peggiorate. Se prima i casi come quello di cui abbiamo appena parlato svettavano fugacemente per la loro irritante vacuità, adesso sono all’ordine del giorno. Se dovessimo stilare un elenco delle categorie estetiche più voga nello scorso paio d’anni ci starebbe da stendere una lista infinita. Dal dark academia al cottage core, passando per il Y2K e la totalmente insignificante VSCO girl. Per far capire la vuotezza di questo microtrend, tanto per fare un’esempio, basta partire da un articolo di Vox del 2019 – risalente quindi al paleolitico dell’era TikTok – che cercava di chiarire come identificarlo:
«Per spiegare facilmente cos’è una ragazza VSCO basta partire dalle cose che consuma. Lo “starter pack” di una ragazza VSCO probabilmente include i seguenti articoli: una maglietta così grande da coprire il fondo dei suoi pantaloncini, che forse sono della Nike o del negozio per ragazzi Brandy Melville dove tutto è disponibile in una sola taglia (quella dimensione è “piccola”). Se non indossa uno scrunchie tra i capelli, quasi sicuramente ne terrà uno (o tre) al polso, insieme a un braccialetto del marchio Pura Vida fondato in Costa Rica. Userà uno zaino della Fjallraven con sede in Svezia e un Hydro Flask coperto di adesivi (il costo per bottiglia d’acqua è di circa 35 dollari). Il resto del suo outfit sarà composto da sandali Birkenstock (o qualsiasi altra scarpa brutta e alla moda, come Crocs o Fila Disruptors), Burt’s Bees o balsamo per le labbra Carmex sormontato da lucentezza Glossier e un girocollo in conchiglia di puka. L’aspetto è allo stesso tempo costoso e rilassato nella pratica; un adolescente mi ha descritto le ragazze VSCO come il tipo di ragazza che passa 20 minuti per far sembrare i suoi capelli disordinati.»
A infierire ulteriormente basti sapere che tutta questa estetica – che in qualche modo cercava di ricollegarsi a una coscienza vagamente ambientalista – non nasceva da un’autentica sottocultura ma dai filtri di un’applicazione fotografica, VSCO appunto. Come è possibile anche solo iniziare a costruire un discorso un minimo sensato su una cosa simile?
Se si effettua una rapida ricerca online quello che salta subito all’occhio è come il fenomeno dei microtrend sia quasi unicamente collegato al mondo della moda. Il motivo è semplice: un simile andamento del mercato produce una marea di immondizia e di sfruttamento umano. L’inquinamento mentale e la ADHD dati dal bombardamento di stimoli sono di certo gravi, ma schiavizzare un minorenne per produrre un vestito per Shein lo è ancora di più. Se tradizionalmente le mode duravano almeno qualche anno, ora i giganti del fast fashion hanno un’organizzazione tale da riempire i loro negozi online di capi costruiti sulla moda della settimana.
Tre articoli da leggere per restare aggiornati
• Pubblicato da Marvel Comics nell’estate del 1991 e diventato il fumetto più venduto di sempre con oltre 8 milioni di copie, X-Men 1 fu il frutto di una strana miscela che tirava e spingeva, e affastellava storie editoriali e dinamiche distanti. Questa è la sua storia.
• Nel Tempo Medio in cui viviamo la quantità delle immagini che accumuliamo le rende inutili, senza costruire un discorso che ci arricchisca.
• 20 anni fa usciva Pluto di Naoki Urasawa. Un manga struggente e potentissimo.
Naturalmente questo ha un costo pratico, fatto di tessuti praticamente di plastica, di logistica dal costo ambientale folle e di manodopera fuori da ogni regolamentazione civile. Si tratta di aspetti di importanza vitale e che dovrebbero essere portati alla luce del sole ogni volta possibile, ma in questa rubrica vorrei spostare l’attenzione su come questo andamento sia basato su due aspetti centrali anche al discorso sulla cultura pop contemporanea: una cultura dell’hype totalmente tossica e l’ormai conclamata inutilità di ogni forma di trend forecasting.
«Per i media, i blog di moda e i trend forecaster di TikTok, la frenesia di identificare, classificare e decodificare ogni estetica emergente non è guidata solo dagli algoritmi. Anche l’hype può essere redditizio» scriveva Terry Nguien su Vox. «Gli effetti del marciume cerebrale indotto dall’inseguimento delle tendenze sono penetrati nel discorso online. Gli argomenti ritenuti più importanti su Internet si basano su dove cadono lungo lo spettro che ne misura la popolarità, a seconda del livello di attenzione che catturano.» Quindi, più ci dimostriamo entusiasti per un argomento, più questo acquista spazio e popolarità. Alimentandosi di nulla e non portando effettivamente nessun valore aggiunto al discorso.
E infatti si tratta di fuochi di paglia destinati a morire nel giro di pochi giorni. Ce ne stanchiamo subito e passiamo ad altro senza la minima incertezza. Talvolta lasciando anche qualche cadavere a terra, basti pensare al mondo cripto/NFT e ai piccoli investitori che ci avevano investito. Finché truffatori come Logan Paul millantavano offerte folli per i suoi cryptopunk, questi valevano centinaia di migliaia di dollari. Poi tutto è morto da un giorno all’altro.
«Il desiderio di seguire ogni tendenza non riguarda la capacità di attenzione, ma l’assuefazione. Quando sperimentiamo qualcosa per la prima volta, ci eccita e ci dà piacere, ma con la ripetizione nel tempo, il piacere si dissipa perché ci abituiamo all’esperienza», spiegava a Good On You la psicologa comportamentale Carolyn Mair, autrice di The Psychology of Fashion. «I social media, l’intrattenimento e le celebrità ora possono essere modellati in micro tendenze alla velocità della luce. Prendete Euphoria: dopo la messa in onda della seconda stagione, le ricerche sui vari e-commerce legati alla moda sono aumentate. Quando il personaggio di Maddy Perez (interpretato dall’attrice Alexa Demie) ha indossato un abito nero ritagliato, c’è stato un aumento dell’890% della domanda.» Basta una puntata di una serie per modificare nel giro di poche ore un mercato enorme. Come è possibile pensare anche solo di orientarsi in un mercato totalmente febbrile, in balia di imbonitori pronti a strapparsi le vesti per ogni sciocchezza? Semplicemente non si può.
In questa prospettiva è inutile che continuiamo a credere a chiunque millanti capacità di prevedere il futuro. Sapere in anticipo quale film o serie o fumetto sarà il prossimo fenomeno della stagione è impossibile. Lo scorso anno il successo di un film come i Minions 2 – Come Gru diventa cattivissimo è stato dettato anche da una gag nata online – i gentleminion – finita per crescere oltre misura. Magari il film sarebbe stato comunque redditizio, ma sarebbe stato difficile vedere al cinema così tanti ragazzi appartenenti a una fascia di mercato ben diversa da quella pensata dalla casa di produzione. Dubito che qualcuno potesse prevedere un fenomeno simile.
Alla stessa maniera è davvero surreale scoprire come un romanzo crudo e difficile come Lo squalificato di Osamu Dazai abbia generato un trend su Tik Tok – basta seguire il tag #nolongerhuman. Parliamo di un libro di un autore non certo facile, pubblicato per la prima volta nel 1948 e che parla di disagio sociale e autodistruzione. Tornando indietro di un paio di anni possiamo invece pensare a come una miniserie su una giocatrice di scacchi – La regina degli scacchi – sia diventata un fenomeno pop mondiale, tanto da generare un boom incredibile di giocatori in tutto il mondo.
Che rimandare al cinema un disastro come Morbius, pensando che la popolarità passeggera di un meme ne potesse risollevare le catastrofiche sorti fosse una baggianata senza appello di giustificazioni, lo sappiamo tutti. Non dobbiamo certo crederci i nuovi oracoli di Hollywood se sospettavamo il tonfo dell’operazione già dai primi rumor. Dopotutto, tra i visionari della Silicon Valley una scelta presa rapidamente e senza riflettere troppo è preferibile a una scelta lenta e più ponderata, in una sorta di processo di trial-and-error che pare preso più dai videogiochi che da qualche manuale di management.
Basti vedere come si è mossa Netflix nel corso degli anni, mettendo in cantiere una marea di prodotti e rendendoli disponibili il più presto possibile sulla piattaforma. Certo, adesso la musica sta cambiando (e di brutto), ma per un lungo periodo pareva che la regola fosse riconducibile al noto modo di dire anglofono «se lanci abbastanza merda contro un muro, un po’ deve rimanere attaccata». Come possiamo pensare di fare previsioni in uno scenario simile? Le visioni a lungo termine sono per lo più sparate a caso, ammettiamolo.
Fra tutti gli articoli che ho letto al riguardo, il punto di vista più lucido e credibile penso mi sia arrivato verso la fine dello scorso anno da David Cho, della mailing list Dirt, all’interno della prevedibile raccolta di previsioni di fine anno per i trend dell’anno a venire. Mentre i suoi colleghi si lanciavano in previsioni dotate della precisione di un missile teleguidato su cosa sarà IN o OUT nei prossimi mesi, il nostro se ne usciva con uno sconsolato:
«Onestamente, a questo punto, non so quanto mi possa sentire fiducioso nel prevedere che cosa andrà fuori moda. Sembra di essere entrati in un tempo/spazio liminale in cui Internet è solo un multiverso infinito di comunità frazionate, dove in qualsiasi momento un trend prende piede da qualche parte in qualche forma. E, visto quanto siamo tutti connessi, siamo sempre più consapevoli di tutte queste diverse comunità mentre si espandono nel nostro mainstream individuale. Lo stesso vale per la quantità di subreddit casuali, fandom di Tumblr o oscure community di TikTok che sembrano diventare popolari da qualche parte o addirittura ovunque nello stesso tempo. Quindi, sì, immagino che nulla potrà mai diventare OUT davvero, perché probabilmente è tutto IN… da qualche parte?».
Difficile dargli torto.
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