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BonelliDylan Dog nell'incubo della serialità

Dylan Dog nell’incubo della serialità

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La copertina di “Dylan Dog” 437 disegnata da Gianluca e Raul Cestaro

Siamo giunti alla conclusione della trilogia qui ribattezzata dal curatore Roberto Recchioni “del ritorno”, la mini-saga ideata da Claudio Lanzoni che si era presentata con il roboante sottotitolo “l’inizio di un nuovo inizio“: una dichiarazione d’intenti su cui un tempo, dalle colonne del Dylan Dog Horror Club, il perfido Sclavi avrebbe grouchanamente fatto qualche battuta delle sue. Ma i tempi in cui ci tocca vivere sono dannatamente seri, e così prendiamo atto della volontà di ritornare al Dylan Dog delle origini (old boy?), fare pulizia, “togliere di mezzo le componenti spurie” e ricominciare tutto daccapo

Dietro la “lapidaria” copertina dei fratelli Cestaro, l’albo conferma dunque la volontà di chiudere tanti discorsi in sospeso, di “svuotare” il personaggio per rilanciarlo. Anche in questo terzo capitolo la realtà si sfalda come un videogioco o, per stare dietro alle formule ricorsive, è tutto un sogno dentro un sogno. Dylan Dog vaga per una Londra che pare una allucinazione collettiva, le strade le case le persone cambiano letteralmente tra una vignetta e l’altra, lo spazio bianco tra i disegni si fa “spazio profondo” (richiamando il titolo del numero 337, che inaugurava il rilancio recchioniano) nel quale la coscienza di Dylan si perde, in preda a una disperazione che è anzitutto assenza di ispirazione.

La sua ex moglie Rania Rakim è morta, e lui vorrebbe solo tornare ad addormentarsi. Le pagine più intense di questo albo, splendidamente illustrate da Sergio Gerasi, sono proprio quelle dedicate al ricordo della moglie scomparsa. Lo sguardo della sceneggiatrice Barbara Baraldi si concentra sul dolore di Dylan Dog, richiamando episodi indimenticabili come Il lungo addio o Oltre la morte. Ma qui – come nei due numeri precedenti – tutto scorre via veloce e indolore, da una pagina si passa subito alla successiva, consumando subito ciò che è avvenuto. È la trappola che inchioda tanti personaggi seriali di successo dei fumetti, svuotandoli di significato e cristallizzandoli in rassicuranti cliché. 

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Una tavola di Sergio Gerasi da “Dylan Dog” 437

Oltre l’incubo, Dylan Dog scopre forse una condanna più pesante da sopportare. Si dimentica dei suoi morti come se fossero personaggi mal riusciti di una fiction che si è tirata troppo per le lunghe. La realtà si trasforma sotto i suoi occhi, le persone scompaiono dalla scena, le vite forse si riassestano al di fuori della storia che stanno vivendo. Nello “spazio profondo” nessuno può sentire Dylan piangere. Con un lamento, come nella poesia di T.S. Eliot The Hollow Men, si consuma la vecchia vita di Dylan, quella che ha provato a costruire in questi ultimi cento albi, destinata a scomparire nella memoria del personaggio e forse dei suoi lettori

Anche Dylan si scopre un Hollow Man, un uomo vuoto, tormentato dalle ombre che sono il suo rimosso junghiano, le storie mai o forse troppe volte vissute, i tanti spunti lanciati e mai sviluppati con convinzione, i personaggi mai approfonditi come avrebbero meritato. L’orrore affrontato nella “trilogia del ritorno” è proprio questo multiverso senza un centro di gravità permanente, questi mille Dylan Dog scritti da mille autori diversi che non sembrano avere un senso, un’identità, una direzione chiara verso cui tendere. 

Così si consuma lo scontro finale con Jesper Kaplan, soprannominato Faccia d’Ossa, il mostro che ripulisce le realtà e rimette tutto in ordine, emissario dell’entropia e interprete dello spiegone alla fine dell’episodio. Nel consueto finale aperto, si afferma l’eterna condanna di un personaggio che non può morire, che non può dormire mai: costretto dai suoi lettori, dal suo editore, e in primis dal suo stesso creatore, a una sfibrante esistenza seriale. Non a caso il mostro Kaplan ha il ruolo di un serial killer; ma la serialità, che Kaplan inutilmente prova a uccidere, è una macchina più forte del caos che incarna

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Una tavola di Sergio Gerasi da “Dylan Dog” 437

Al di là dell’incubo, nella vita vera ci sono mille altre storie da dare in pasto ai lettori, mille altre realtà da immaginare e mille altre “componenti spurie” da uccidere e dimenticare. In questo eterno ritorno, il nostro Dylan Dog si scopre per la prima volta vuoto e disorientato, quindi pronto per essere riempito di nuovi incubi. Questa consapevolezza segna forse l’apice del suo percorso come personaggio seriale. Ma Dylan non può dormire, non ancora. Dal prossimo numero, il suo mondo promette di tornare come prima: tornerà il logo originale, l’editoriale cambierà forma, Dylan avrà già dimenticato questa fatica. E noi con lui.

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